Il Nuovo British Blues? Forse Era Meglio Quello Vecchio, Per Quanto… Sean Webster Band – Leave Your Heart At The Door

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Sean Webster Band – Leave Your Heart At The Door – Sean Webster Band.Com   

Quando si pensa ad un movimento blues nel Regno Unito (ed in Irlanda) siamo comunque su un ordine di grandezza abbastanza importante: il numero dei gruppi e solisti praticanti è piuttosto consistente, però a differenza degli Stati Uniti, lo stile è decisamente più meticciato con il rock e spesso con l’hard-rock, per quanto di qualità, e quindi parliamo più di blues-rock che di blues vero e proprio, con qualche eccezione anche storica. In effetti le nuove generazioni, e comunque in generale, citano di solito come influenze, a fianco dell’immancabile trittico dei King (Albert, B.B e Freddie). Albert Collins, Robert Cray, più raramente Muddy Waters e Howlin’ Wolf, ma soprattutto gente come Gary Moore, Mark Knopfler, persino Jonny Lang, oltre a Eric Clapton, che è il punto di riferimento massimo. O quantomeno questi sono i nomi che cita Sean Webster, chitarrista inglese, titolare di una band che ha al proprio attivo già cinque album e un EP, e una cospicua serie di tour in giro per il mondo: al solito non stiamo parlando di un fenomeno assoluto, ma di un chitarrista e cantante (che qualcuno ha paragonato a Joe Cocker, ma al sottoscritto ricorda più Zucchero quando fa Cocker, quindi diciamo adeguato), comunque di buona qualità, i cui dischi si ascoltano con piacere, e questo Leave Your Heart At The Door, il sesto della serie, non fa eccezione.

Accompagnato da una band internazionale, composta da musicisti olandesi e canadesi, Greg Smith al basso, Joel Purkess alla batteria e Bob Fridzema alla batteria, Webster ci propone undici brani originali, con l’unica eccezione di una cover firmata da Keith Urban, che non è proprio il primo nome che mi vien in mente come bluesman. Comunque niente paura, ribadisco, il disco è piacevole: sin dall’apertura, con un rock and soul ondeggiante appunto tra Joe Cocker e Clapton, Give Me The Truth, dove si apprezza anche il mixaggio dell’album, affidato a Jon Astley (uno che ha lavorato per Who, Charlie Watts, George Harrison, Eric Clapton, Rolling Stones,Van Morrison, Paul McCartney, Peter Gabriel e mille altri), quindi sound brillante, con la chitarra spesso pimpante e in bella evidenza. Wait Another Day è una ballata, melodica e claptoniana (si può dire, ormai è un aggettivo assodato), rock classico, niente blues neanche a cercarlo col lanternino, ma Webster e soci suonano veramente bene, con l’assolo, quando arriva nel finale, molto alla Manolenta, ricco di feeling e buon gusto. Non male anche l’intensa Broken Man, con un buon interscambio tra organo e chitarra e il solito assolo, quasi alla Gilmour per l’occasione, e You Got To Know, dove finalmente si vira verso un blues(rock) grintoso e tirato, che poi si appalesa in tutta la sua forza in un lungo slow blues classico come Start Again, dove Webster  lascia andare la solista con feeling e tecnica.

Hands Of Time, leggera e scanzonata, seppur non memorabile è di nuovo dalle parti del Joe Cocker meno ingrifato, pure con arrangiamento d’archi aggiunto, mentre Silence Echoes In My Heart è quasi un composito tra Pink Floyd e Procol Harum, con qualche eco soul. Rimaniamo dalle parti del british pop-rock anche per la ritmata You Can Say, con la title-track Leave Your Heart At The Door che è di nuovo una bella balata, dalle parti del blue eyed soul raffinato. PennyLeen Krebbers, non conosco ma brava, aggiunge la sua ugola per una I Don’t Wanna Talk About It che viaggia dalle parti dei duetti Beth Hart/Joe Bonamassa, con meno grinta e classe, ma buona attitudine. Infine ‘Til Summer Comes Around è una canzoncina che denota lo stile del suo autore (Keith Urban), niente di deleterio, ma ce ne sono mille così in giro, si poteva scegliere meglio. In definitiva piacevole e ben suonato, una sorta di controparte inglese di Jonny Lang o di John Mayer, se vi interessa.

Bruno Conti

Sembra Uno Bravo. Ben Poole – Live At The Royal Albert Hall A BBC Recording

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Ben Poole – Live At The Royal Hall – Manhaton Records

Non è parente di Brian Poole, la famosa pop star inglese, leader dei Tremeloes, conosciuti per la loro cover di Twist And Shout, e per una lunga e consistente carriera nelle classifiche pop inglesi: si tratta solo di un caso di omonimia. Ben Poole è un ennesimo giovane cantante e chitarrista di orientamento blues che si affaccia sulla scena inglese. Avevo letto e ascoltato qualcosa su questo 25enne, autore fino ad ora di un EP nel 2010 e di un album d’esordio nel 2013, Let’s Go Upstairs, ben considerati entrambi dalla critica musicale..

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Alla luce di questo Live At The Royal Albert devo dire che la fiducia mi sembra ben spesa: non siamo di fronte ad un nuovo “salvatore” del Blues, ma il giovane ha talento (eccellente chitarrista con una notevole tecnica di base, applicata con profitto alla sua Les Paul), cantante con una voce accattivante e melodica, anche se non graffiante, e buona presenza scenica https://www.youtube.com/watch?v=6jlyffWLjYQ . Tutti elementi che confluiscono in questa registrazione dal vivo, realizzata nel corso della BluesFest tenuta nell’ottobre del 2013 (e replicata quest’anno – 2014) alla mitica Royal Albert Hall. Ovviamente non è che gli artisti emergenti approdino subito in uno dei templi della musica londinese (o almeno una volta era così), infatti gli headliners dell’edizione dello scorso anno erano Robert Plant, Chris Rea e Van Morrison (ma che fine ha fatto?), presenti anche la Tedeschi Trucks Band, Bobby Womack, in una delle sue ultime apparizioni, e Mavis Staples, per citarne alcuni.

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Però devo dire che questo “giovanotto” fa la sua porca figura: se dovessi definire il suo genere, per aiutare chi spesso deve orientarsi tra gli sproloqui di vanitosi recensori (mi ci metto anch’io), direi che possiamo parlare di una sorta di easy blues rock and soul! Please? Avete presente uno dei dischi di maggior successo degli anni ’70, quel Frampton Comes Alive che fece la fortuna del biondo chitarrista e cantante inglese? Siamo da quelle parti,la voce non è fantastica, ma molto piacevole, il repertorio oscilla tra rock classico di buona qualità, con robusti innesti di soul, R&B, ma anche pop, il tutto innervato da una cospicua dose di Blues  e rock, anche derive hendrixiane https://www.youtube.com/watch?v=FXjFzWS3i2M. Accompagnato da un eccellente quartetto, dove spiccano le tastiere di Sam Mason, Ben Poole si districa in uno stile che potrebbe ricordare quello degli esordi di Jonny Lang (o anche, ma meno, di Kenny Wayne Shepherd, di cui sarà l’opening act nel prossimo tour 2015); prendete l’iniziale Let’s Go Upstairs, un funky-rock che ha qualche parentela con la musica dei primi Doobie Brothers, con riff e soli di chitarra fluidi e ben realizzati https://www.youtube.com/watch?v=mSuRIAYw3KI , o la ballad mid-tempo soul, assai gradevole Love Nobody No More, illuminata dagli sprazzi chitarristici di Poole, che è un solista in grado di regalare alla platea interventi del suo strumento che si trasformano in crescendo irresistibili https://www.youtube.com/watch?v=tKBs9gmpfm4 , come quello presente in questo brano, o di perdersi in una lunghissima rivisitazione di uno dei classici della Tamla-Motown, quella (I Know) I’m Losing You, che oltre che dei Temptations, ha fatto la fortuna di molti artisti del blues-rock inglese, che si sono spesso cimentati con questa canzone https://www.youtube.com/watch?v=S7l3O0hFe2Q .

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Proprio questo brano, anche con chiari inserti più hendrixiani e rock, è uno di quelli che lo potrebbero avvicinare, come tipo di approccio, al famoso Frampton Comes Alive appena citato, con tastiere, basso e batteria che macinano ritmo, mentre il nostro Brian ci dà dentro di gusto alla chitarra, con un lungo tour de force strumentale. Non male anche la cover di Mr. Pitiful di Otis Redding, a conferma dei buoni ascolti del giovane inglese, che poi li mette in pratica, con il giusto rispetto per i classici, ma anche con un fare sbarazzino, a conferma dell’amore per la musica “giusta”. Non male pure It Doesn’t Have To Be That Way e Leave It On, tratte dai suoi dischi, soprattutto per le parti chitarristiche, sempre mozzafiato e, a coronamento di un buon concerto, una lunga versione del super classico di Freddie King, Have You Ever Loved A Man, cavallo di battaglia live di Clapton, dove Brian Poole può finalmente dare libero sfogo alla sua passione per il Blues, con una serie torrenziale di assolo di grande potenza e tecnica che ne illustrano le qualità.

Il tutto registrato e riproposto nel Paul Jones Show della BBC: in conclusione del CD una bonus track in studio, Starting All Over Again, piacevole ballata tra pop e soul. Sembra uno bravo, vedremo in futuro!

Bruno Conti

Anteprima Johnny Lang – Fight For My Soul. Mah…!

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Jonny Lang – Fight For My Soul – Mascot/Provogue EU 03-09-2013 Concord Usa 17-09-2013

“Qualche eccesso di negritudine gratuita qui e là ma nell’insieme un bel disco dal vivo.” Così concludevo la mia recensione del Live At The Ryman, registrato nel 2009 e pubblicato nel 2010 dalla Concord/Universal (che rimane la sua etichetta negli States). un-giovane-di-talento-jonny-lang-live-at-the-ryman.html Potrei iniziare così questa recensione del nuovo Fight For My Soul, che sto scrivendo mentre impazza l’estate, ma il disco uscirà ai primi di settembre: così mi capita di leggere nel 99 % dei siti che se ne stanno occupando in questi giorni: “Sono passati sette anni dall’uscita del precedente album di studio Turn Around ma l’attesa è finalmente finita…eccetera eccetera” (in inglese naturalmente). Seguono una serie di ovvietà micidiali, non avendo ascoltato il disco bisogna affidarsi ai comunicati stampa! Qualcuno più avveduto si è informato presso lo stesso artista ed ha scoperto che la lunga attesa è dovuta anche al fatto che nel frattempo Jonny Lang ha provveduto ad allargare la famiglia con quattro figli, dicasi quattro, ma già dal 2010 l’album era in gestazione.

Lo stesso artista dichiara (e poteva essere diversamente?), tradotto in soldoni, che questo è il suo disco più bello di sempre, che è stato fantastico collaborare con Tommy Sims, che ha prodotto il nuovo album, che il disco sfugge a catalogazioni in questo o quel genere (ahia!) ma che i suoi complessi arrangiamenti, bellissime armonie vocali (ri-ahia!) e “l’espressivo” lavoro di chitarra lo rendono unico. Traduciamo: non è un disco di Blues, non è un disco di rock, non è, nonostante il titolo, un disco di soul, forse di “nu soul”, e ve lo dice uno che lo ha sentito bene, purtroppo. Ma chi è Tommy Sims? Nel suo CV troviamo che ha scritto Change The World con Clapton, brano che appare nella colonna sonora di Phenomenon con armonie vocali di Babyface, prima ancora era stato il bassista nella Other Band, quella che accompagnò Springsteen nel disgraziato tour del 1992-3 (sì, anche in MTV Plugged) ed in decine e centinaia di altre collaborazioni tra cui ci saranno sicuramente dei dischi che ho e mi piacciono. Anche a Jonny Lang il proprio disco sarà piaciuto, ma a “noi” non troppo! Per quanto mi sia sforzato di sentirlo più volte, mi risulta ogni volta difficile arrivare sino alla fine.

Ma sarò sicuramente io che mi sbaglio, gli appassionati di neo-soul (o nu soul) sicuramente troveranno motivi di apprezzare il disco, con le sue atmosfere anche complesse, che si rifanno al sound classico anni ’70 di Stevie Wonder e Marvin Gaye, e di recenti epigoni come Maxwell, D’Angelo, Erykah Badu e Lauryn Hill, o delle cose migliori di Alicia Keys, tutta gente assolutamente non disprezzabile. Anche Clapton ha cercato di fare degli album funky, ricchi di componenti di musica nera, anche nei musicisti, ma i risultati sono stati più spesso che no delle “ciofeghe”! L’unica cosa che si salvava erano gli assolo di chitarra e anche in questo Fight For My Soul sono forse l’unico elemento che mi sento di salvare. Il problema (se così lo vogliamo definire) è che non ce ne sono poi neanche molti, lui canta piuttosto bene, ha una bella voce e non la scopriamo in questo disco, ma gli arrangiamenti sintetici da “bland rock”, dove il Blues è un lontano ricordo, prevalgono, sembra uno di quei dischi poco riusciti che ultimamente faceva Robert Cray, tipo l’orribile This Time, fino alla rinascita con il recente Nothin’ But Love, spesso basta un buon produttore, ma Lang è ricaduto nei difetti che avevano afflitto la sua produzione dopo il 2000, suoni commerciali a scapito dei contenuti, prodotti ben confezionati ma che non sono appetibili né per gli amanti del rock, né del soul (quello buono), né tantomeno del blues(rock), come scontentare tutti in un colpo solo.

Come sempre il parere è strettamente personale ma mi risulta difficile salvare molti brani: forse l’iniziale Blew Up, dove quantomeno l’energia ha qualcosa delle vecchie collaborazioni tra Wonder e Jeff Beck, funky ma ben rifinita, anche se i coretti e il falsetto alla Prince non si reggono, la chitarra cerca di salvare il salvabile, ma è un fuoco di paglia. Che altro? La ritmata We Are The Same, che ricorda Stevie Wonder, ma quello non esaltante degli ultimi anni, interessanti cambi di tempo, coperti da arrangiamenti ridondanti ed esagerati e la “solita” chitarra che più di tanto, in mezzo a cotale modernità, non può fare. Forse anche la lunga ballata conclusiva I’ll Always Be, un tantino melodrammatica e sommersa dagli archi, redenta ancora una volta da un assolo pungente e reiterato nel finale. Nell’ambito della musica da classifica sarà anche un capolavoro ma io da Jonny Lang mi aspetto altro, per rimanere nell’ambito di vecchi ex ministri, visto che ne ho citato uno per la recensione del precedente live, come direbbe La Russa/Fiorello “è veramente brutto”! Speriamo per la prossima volta! Esce a settembre.

Bruno Conti

Un Chitarrista Che “Fa L’Indiano”! Indigenous Featuring Mato Nanii.

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Indigenous Featuring Mato Nanji – Blues Bureau International/Shrapnel

Mato Nanji, più che “fare l’indiano” lo è proprio, pellerossa naturalmente, della tribù Sioux dei Lakota e vive ancora nella riserva del South Dakota, che fa anche rima. Il gruppo, all’origine, seconda metà anni ’90, era nato come un affare di famiglia, un fratello, una sorella e il cugino, tutti appassionati di Blues, passione nata sui dischi di B.B. King e Buddy Guy che portava a casa il babbo, grande appassionato del genere. Poi, Mato soprattutto, ha integrato questo sentimento con l’amore per chitarristi come Hendrix, Santana e soprattutto Stevie Ray Vaughan. E fino al 2006 tutto è andato bene, con una nutrita serie di album di poderoso rock-blues pubblicati per diverse etichette. A quel punto il resto della famiglia ha deciso di andarsene e Mato Nanji ha sciolto la band pubblicando un album da solista e poi nel 2010 ha ripristinato la vecchia ragione sociale per un album Acoustic Sessions, in compagnia della moglie Leah, che non (mi) aveva entusiasmato, come riportato su queste pagine virtuali indigenous-acoustic-sessions.html. Non un disco brutto, diciamo di transizione (come si dice quando non si vuole essere cattivi). Ora, sempre utilizzando il nome del gruppo, ritornano gli Indigenous con un disco che promette bene già dal sottotitolo, “All Electrified Guitar Made in Usa”, che vede a fianco del rientrante cugino American Horse alle percussioni, una solida band che sostiene la fiammeggiante e tiratissima Fender del leader, la classica line-up, basso, batteria e organo. Se aggiungiamo che la (co)produzione è affidata a quel Mike Varney, boss della Blues Bureau Int./Shrapnel che di dischi di chitarra se ne intende, direi che la missione è compiuta.

Come ciliegina sulla torta e eccellente brano di apertura, c’è anche un duetto con un altro che di rock-blues e di chitarre se ne intende, Jonny Lang (hanno fatto parte entrambi dell’Experience Tour, dedicato a Hendrix): Free Yourself, Free Your Mind è un perfetto esempio di quell’hard blues ricco di soul che entrambi frequentano da tempo, con le due chitarre e le voci che si intrecciano con perfetto tempismo, l’inizio non poteva essere migliore, grande apertura. Ma anche il resto non scherza, il disco ha quel feeling da concerto dal vivo con la chitarra di Mato Nanji libera di improvvisare ma nello stesso tempo con un bel suono da disco di studio ben prodotto, sentire Everywhere I Go che permette di apprezzare anche la bella voce del leader, finalmente un chitarrista con una voce rauca e potente, una rarità nel genere. Jealousy si getta nel Texas Blues alla Stevie Ray Vaughan, poderoso e ad alta tensione chitarristica con la solista che viaggia che è un piacere. Someone Like You con le percussioni in primo piano, ondeggia tra Santana e ZZtop, boogie latino. I Was Wrong To Leave You con l’organo a sostenere la solista di Mato è uno slow blues atmosferico tra Stevie Ray e Jimi mentre No Matter What It Takes si basa proprio su un riff hendrixiano e tempi più rock.

Anche Storm, grazie alle sue percussioni impazzite che sostengono basso e batteria in libera uscita, è uno strumentale di stampo Santaniano con il wah-wah di Nanji che raggiunge vette di virtuosismo notevoli. Find My Way rallenta i tempi ma non il fervore vocale e chitarristico. All Those Lies dimostra una volta di più che il nostro ha perfettamente fatto suo lo stile alla Vaughan, non un clone ma un ottimo discepolo ( e quindi di rimessa del grande Jimi). E infatti The way I feel è più vicino a quest’ultimo. Wake Up è una bella slow ballad ricca di melodia con percussioni e organo ancora una volta a sostenere il tessuto della canzone, a dimostrazione che anche i rockers hanno un’anima gentile (ma dalla scorza dura). By My Side è un rock-blues come potrebbero farlo i Los Lobos quando si avvicinano a tempi più bluesati e la conclusione è affidata a una torrida When Tomorrow Comes, forse la migliore del lotto, un altro slow tirato e ad alta gradazione con la chitarra che una volta di più fa i numeri e che conclude bene come era partita questa nuova fatica degli Indigenous. Powerful rock-blues. Ben tornati!

Bruno Conti   

Un “Grosso” Chitarrista! Nick Moss – Here I Am

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Nick Moss – Here I Am – Blue Bella Records

Mi perdonerete per il titolo (e spero che anche il “titolare” se dovesse leggere lo farà, perché capita che i musicisti leggano queso Blog), ma se vedete la foto si può capire, e comunque veniamo alle cose serie. Nick Moss, da Chicago Illinois, è su piazza discograficamente parlando da una dozzina di anni, questo Here I Am, è il nono album, tutti rigorosamente pubblicati dalla sua etichetta Blue Bella Records e vista la provenienza uno potrebbe anche aspettarsi che faccia del Blues. E in effetti non si può negare, ma come rileva con intelligenza Jimmy Thackery nelle note introduttive al CD, negli ultimi tempi ed in questo album in particolare il suo stile sta evolvendo verso forme che conglobano rock (molto), funky, un pizzico di southern rock qui, un tocco di Hendrix là, insomma le cose si fanno interessanti. Se il nostro amico è cresciuto a pane e chitarra (e viste le dimensioni fisiche secondo me qualcuna se l’è anche magnata strada facendo) ed ascoltando il disco si sente, perché Nick Moss ha uno stile fluido, variegato e ricco di tecnica e, detto papale papale, ci dà dentro alla grande, con il tempo è diventato anche un buon autore che si scrive tutti i brani e un ottimo cantante dalla voce grintosa.

Questo Here I Am è un bel disco di rock (blues) di quelli gagliardi con tre brani all’inizio e tre alla fine del CD da tre stellette e mezzo anche quattro e una parte centrale più radiofonica, commerciale, vagamente funky, ma come possono esserlo i dischi di Jonny Lang o del John Mayer Trio, quindi comunque a notevole gradazione chitarristica. La partenza è sparata con Why You So Mean! un boogie-rock-blues che ricorda il Rory Gallagher di Tattoo o Blueprint, due chitarre soliste che si rispondono dai canali dello stereo (entrambe suonate da Nick), una in stile slide fantastica, il pianino frenetico di Travis Reed e una sezione ritmica di grande spessore. Sul tutto la voce di Moss che se proprio vogliamo fare un paragone mi ricorda quella del Jeff Healey degli inizi. Se il buongiorno si vede dal mattino qui iniziamo alla grande, l’effetto Healey prosegue anche nella successiva Blood Runs percorsa dalle continue “frustate” della solista e arricchita, oltre che dall’eccellente lavoro a piano e organo del citato Reed, anche da un tocco “black” nei ricorrenti coretti soul. La title-track ha un abbrivio poderoso e riffato alla Led Zeppelin con la sezione ritmica di Nick Skilnic e Patrick Seals che fa del suo meglio per rievocare i fasti della coppia Bonham/Jones, Travis Reed questa volta all’organo aggiunge un tocco southern che ricorda quello di Gregg negli Allman dei tempi d’oro, la fusione dei due stili produce ottimi risultati e l’assolo di Moss è da grandi del rock, praticamente un esempio di come fare dell’ottima musica rock per il nuovo millennio, ricca di citazioni ma suonata con passione, e poi ognuno ci “legge” che vuole: Candy Nation svolta con decisione verso ritmi più funky, un piano elettrico si affianca all’organo e solamente l’assolo di chitarra ha la potenza dei brani precedenti, ma basta e avanza.

I’ll Turn Around è il cosiddetto singolo dell’album, una ballata più morbida poi ripetuta anche in versione radio edit alla fine del CD, tra chitarre acustiche e tastiere in questo caso si curano di più anche le melodie e non solo i grooves e anche se si perde in immediatezza il brano guadagna nella varietà dei suoni e comunque nella parte centrale ottimi assoli di slide e organo danno valore aggiunto alla canzone. Notare la finezza nei testi del libretto, ogni volta che c’è un assolo viene riportato fedelmente anche segnalando il punto in cui avviene, come ai vecchi tempi! Long Haul Jockey come il precedente mi ha ricordato quel suono turgido alla Black Crowes con rimandi zeppeliniani ma anche i Gov’t Mule meno selvaggi e la chitarra viaggia sempre alla grande. Here Comes Moses è un altro brano rock classico dalle atmosfere sospese con il solito lavoro di fino della chitarra che si inventa sempre nuove tonalità. Caught By Suprise è un funky-rock alla Jonny Lang con un suono secco della batteria che si rifà alla musica nera come anche il lavoro di chitarre e tastiere “molto lavorate”. Katie Anne (Slight Return) già dal titolo è un omaggio a Jimi Hendrix  e qui c’è un grande lavoro di wah-wah e organo nella parte centrale e finale in pura modalità jam. Sunday Get Together è un bel brano strumentale finto live, ossia il pubblico si sente ma non c’è, uno slow blues che ricorda in modo impressionante il Peter Green dei Fleetwood Mac In Chicago. In definitiva, uno bravo, molto bravo, tra i migliori chitarristi attualmente in circolazione. Ascoltare per credere!

Bruno Conti

Un “Giovane” Di Talento. Jonny Lang – Live At The Ryman

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Jonny Lang – Live At The Ryman – SayRai Music

Per chi non lo conoscesse, come direbbe il finto ministro Maroni, “fischia se suona”. Per chi già lo conosce e lo apprezza, sarà occasione di giubilo e piacere ascoltare, finalmente, un album che gli rende completamente merito.

All’età di 29 anni appena compiuti e quindi tecnicamente un giovane Jonny Lang ha già alle spalle una carriera che dura da una quindicina di anni, quindi uno dei tanti bambini prodigio, ma di quelli bravi, della famiglia degli Stevie Winwood e Wonder, o per rimanere in anni più recenti e in ambito blues, Joe Bonamassa.

Sempre per chi non lo conosce ricordiamo che il suo esordio avviene nel 1995 a 14 anni con un album indipendente a nome Kid Jonny Lang & The Big Bang (non pervenuto), mentre quello ufficiale, per una major, la A&M del gruppo Universal avviene con l’ottimo Lie to me del gennaio 1997: blues, rock, soul, assoli di chitarra a iosa, cover di qualità ma subentra subito la sindrome del bel fiolin (bel ragazzo per chi non conosce il milanese), per il successivo Wander This World gli affiancano David Z, collaboratore di Prince, che firma anche un brano dell’album, che subisce una sterzata verso sonorità molto più commerciali ancorché valide che gli valgono una nomination ai Grammy (mah!)  e siamo nel 1998. Dopo una pausa di ben 5 anni nel 2003 esce Long Time Coming che sterza verso sonorità più influenzate dal soul e dal gospel ma la chitarra ruggisce meno. L’album del 2006 Turn Around l’ultimo per l’A&M è decisamente R&B oriented e la chitarra si sente pochissimo, quindi se volete sentire Stevie Wonder (grande pallino di Lang), l’originale è meglio.

Siamo arrivati a oggi e a questo Live At The Ryman che è uscito in versione digital download a fine 2009 e si trova, con fatica, in versione CD nel suo sito distribuito da quella etichetta indipendente dal nome improbabile che si legge all’inizio del post. Ma a noi non ci frega, visto che siamo in rete e questo è un Blog ben vengano anche questi prodotti cosiddetti “virtuali”: oltretutto si tratta di un ottimo album Live, cantato bene, suonato anche meglio, ottimo gruppo di musicisti, repertorio ben calibrato tra soul, rock, blues, venature gospel, scelta di cover eccellenti, pubblico entusiasta (con prevalenza, da quello che si percepisce dell’ambiente, di giovani e giovanissimi).

Jonny Lang, nella gerarchia dei chitarristi, che secondo il sottoscritto si divide in bravi, molto bravi, Fenomeni, Jimi Hendrix e gli altri, dove si pone?  Appurato che Hendrix fa categoria a sé, fuori concorso, gli altri non ci interessano, i fenomeni sono i soliti noti, Clapton, Beck, Page, Green, Santana, Allman e tra i “contemporanei” Stevie Ray Vaughan e Bonamassa, direi che possiamo inserirlo tra i Fenomeni molto bravi (tiè, fregati!), vicino a Derek Trucks e Kenny Wayne Sheperd per esempio, ma anche altri non citati. Della serie vorrei (diventare) un grande ma mi manca ancora quel quid.

In questo Live il nostro amico ci dà dentro alla grande, brani come Turn Around, A quitter never wins e Red Light sono dei notevoli tour de force chitarristici, con il consueto sound della chitarra di Jonny Lang, quel bel suono “grasso”, Claptoniano ma anche sanguigno alla Stevie Ray Vaughan. Anche il cantato è notevole, il ragazzo ha una bella voce piena di soul che molto deve a Stevie Wonder, come la bella cover di Livin’ For The City evidenzia (un appunto, un pelino lunga!). Comunque è l’album nel suo insieme che soddisfa. Promosso, adesso cercatelo!

Già nel 1999 a Montreux era una iradiddio.

Bruno Conti