Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Terza

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Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Terza e conclusiva parte.

Gli anni del Jazz-rock e dei dischi strumentali.

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Dopo lo scioglimento del sodalizio con Bogert e Appice, e senza completare un secondo disco di studio, Jeff Beck realizza alcune collaborazioni con David Bowie, prima di decidere di esplorare nuove strade, con una lunga serie di dischi strumentali, anche in parte ispirati dal jazz-rock e dalla fusion imperanti in quegli anni, ma rivisitati alla luce delle sue caratteristiche personali, e impiegando, almeno agli inizi, un produttore di grande nome ed esperienza come George Martin (che curò anche gli arrangiamenti orchestrali), insieme al quale realizzerà Blow By Blow, un disco appunto completamente strumentale, che stranamente (o forse no) sarà il suo massimo successo commerciale, arrivando fino al 4° posto delle classifiche di vendita nel 1975: un album comunque splendido, con pezzi memorabili come le sue cover di Cause We’ve Ended As Lovers, un languido brano di Stevie Wonder, una ballata magnifica dedicata al grande chitarrista Roy Buchanan, in cui il suo uso del vibrato è praticamente perfetto, e anche She’s A Woman dei Beatles è deliziosa, con la parte vocale realizzata ancora una volta con il talk-box, senza dimenticare una serie di brani solidi come You Know What I Mean, scritta con Max Middleton, che era rimasto come tastierista, e firma anche la scoppiettante e funambolica Freeway Jam, dove oltre alle evoluzioni strabilianti della chitarra di Beck, si apprezza anche una sezione ritmica notevole come quella composta dall’esplosivo Richard Bailey alla batteria (ancora in pista ai giorni nostri con Steve Winwood) e Phil Chen al basso.

Air Blower attribuita a tutta la band, un pezzo funky fusion di grande appeal, Scatterbrain, che sembra quasi un brano di Billy Cobham, Thelonius, un omaggio trasversale al pianista Monk e la liquida e sognante Diamond Dust dove gli archi di George Martin supportano con classe la solista di Beck. L’anno successivo esce l’ancora notevole Wired, dove arrivano dalla Mahavishnu Orchestra l’ottimo batterista Narada Michael Walden e Jan Hammer, che si aggiunge a Middleton con il suono del suo synth che quasi duplica la solista di Jeff in pezzi come Led Boots, Sophie o Blue Wind, anche se il pezzo più bello del disco, ancora prodotto da George Martin, con Bailey alla batteria, è una versione delicata e splendida di Goodbye Pok Pie Hat, uno dei capolavori di Charles Mingus, con Come Dancing un pezzo di Walden che rivaleggia invece con il repertorio più funky degli Headhunters di Herbie Hancock.  L’anno dopo, nel 1977, esce Jeff Beck with the Jan Hammer Group Live, il cui titolo sintetizza (in tutti I sensi) i contenuti, Jeff Beck in teoria è ospite del gruppo di Jan Hammer, ma poi si rivela il protagonista assoluto con una serie di assoli  in cui spinge la sua ricerca di sonorità sempre più ricercate quasi ai limiti delle possibilità di una chitarra, ben coadiuvato dal synth del compagno di avventura, dal basso di Fernando Saunders e dalla batteria di Tony Smith.

A questo punto Beck si prende una lunga pausa sabbatica per cercare nuovi compagni di avventura e si ripresenta nel 1980 con l’album There And Back, dove in metà dei brani appare ancora Jan Hammer, mentre negli altri alle tastiere c’è Tony Hymas che a tutt’oggi fa parte della band i Beck, e alla batteria arriva Simon Phillips, per un disco ancora di buona fattura, dove spiccano le deflagrazioni sonore di Star Cycle, You Never Know, El Becko e Space Boogie.

Gli Anni Bui, Poche Luci E Molte Ombre

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Nel 1985 esce Flash,  un disco per me di una bruttezza senza limiti, una vera tavanata, con un suono disco dance anni ’80 orribile, dove forse l’unico brano che si salva è una cover di People Get Ready di Curtis Mayfield, dove Jeff si riunisce con il vecchio pard Rod Stewart per una dignitosa rilettura di questo classico, ma il sound eighties pompato è sempre da dimenticare. Decisamente meglio l’ultimo album degli anni ’80, Jeff’s Beck Guitar Shop (che proprio in questo periodo è stato ristampato in un vinile di colore blu): niente di memorabile, ma l’accoppiata Hymas alle tastiere e Terry Bozzio alla batteria, niente basso, a tratti funziona, per questo ritorno al rock e al blues, come nell’iniziale, cadenzata Guitar Shop , dove la chitarra ricerca le solite sonorità impossibili, nella cavalcata blues and roll di Savoy , nella possente Big Block e in un brano sognante alla Buchanan come Where Were You, fino al southern boogie di  Stand On It. Crazy Legs del 1993, con i Big Town Playboys, è un disco di tributo alle canzoni di Gene Vincent e dei suoi Blue Caps, in particolare il chitarrista Cliff Gallup, idolo della giovinezza di Beck, un ritorno al R&R e al rockabilly delle origini, il suono è impeccabile e quando canta il pianista Mike Sanchez sembra di sentire i vecchi dischi di Vincent, inutile ricordare i titoli, tutte le canzoni sono godibili.

Ma quando esce,  ancora dopo una lunga pausa, il disco del 1999 Who Else, Jeff Beck ricade in parte nei vecchi vizi e il disco, nuovamente interamente strumentale e influenzato dalla musica elettronica, almeno per chi scrive diciamo che non convince, escluse le parti di chitarra e la scintillante Brush With The Blues.

La Rinascita (Parziale) Degli Anni 2000.

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Nel 2001 esce You Had It Coming, altro esperimento di “rock elettronico” che anche se vince il Grammy, dimostra che spesso questo premio lo danno a capocchia: si salvano forse, ma forse, per stima, Dirty Mind, dove il duetto con l’altra chitarrista Jennifer Batten è travolgente, e la rivisitazione futuribile di Rollin’ And Tumblin’ cantata da Imogen Heap. Grammy che Beck rivince nel 2003 con Jeff, altro disco di rock “moderno” incomprensibile per il sottoscritto, benché animato dalla solita incontenibile ed ammirevole furia chitarrista fatico a trovare dei brani decenti, forse Hot Rod Honeymoon. Poi a partire dal 2006 il nostro amico comincia a pubblicare una serie di album dal vivo, prima in versione bootleg, poi ufficiali, come il Live At Ronnie Scott’s, dove Jeff, aiutato da una serie di amici e ospiti, e sostenuto da una band formidabile, nella quale scopriamo i talenti della giovanissima e prodigiosa bassista Tal Wilkenfeld e con Vinnie Colaiuta alla batteria, inizia a rivisitare il meglio del suo catalogo passato, soprattutto i brani strumentali,

ma anche People Get Ready cantata da Joss Stone, e nuove perle come Stratus di Billy Cobham e soprattutto una rilettura spaziale di A Day In The Life dei Beatles, che gli fa vincere un altro Grammy, questa volta meritato, per la migliore versione strumentale di un brano musicale.

Nel 2010 esce Emotion And Commotion, che segna un ritorno ai primi posti delle classifiche di vendita ed è anche un buon disco, tra alti e bassi, ottimi soprattutto i brani cantati dalla Stone e da Imelda May, di effetto, benché un po’ tamarra la sua versione di Nessuna Dorma, meglio Over The Rainbow; tanto per cambiare il disco vince addirittura due Grammy, uno proprio per Nessun Dorma (mah!). Lo stesso anno esce l’ottimo Live and Exclusive from the Grammy Museum,  con versioni dal vivo di molti dei  brani di Emotion, bissato nel 2011 da  Rock ‘n’ Roll Party (Honoring Les Paul), ennesimo tributo Live ad uno dei miti della giovinezza di Beck, sia in CD che DVD, dove Jeff è accompagnato da Imelda May e dalla sua band, oltre a Gary U.S. Bonds, Trombone Shorty e Brian Setzer, altro eccellente tuffo negli anni ’50 e ’60.

Il Live+ è un altro buon disco dal vivo, ma le due canzoni in studio aggiunte come bonus non si possono sentire. E anche l’ultimo Loud Hailer del 2016, presenta un 72enne Jeff Beck dai capelli sempre più neri corvini, ma dalle idee un po’ confuse forse anche a causa della tintura dei capelli, e il gruppo londinese Bones, che lo accompagna in alcuni pezzi , non risulta tra le sue scoperte più brillanti di talent scout.

L’ultimo ad uscire è l’ottimo Live At The Hollywood Bowl, che festeggia, con un leggero ritardo, i 50 anni di carriera di  Beck, con la presenza di parecchi ospiti di vaglia, da Jimmy Hall dei Wet Willie, già compagno di avventura di Jeff in passato, a Billy F. Gibbons, passando per Buddy Guy, Jan Hammer, Steven Tyler e Beth Hart. Comunque se ancora nel 2015 la rivista Rolling Stone lo poneva al n° 5 dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, subito dopo Hendrix, Clapton, Page e Keith Richards, un motivo, e forse più di uno, ci sarà pure. La storia continua!

Bruno Conti

A Proposito Di Belle Voci! Jo Harman – People We Become

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Jo Harman  – People We Become – Totale Creative Feed

Ogni tanto dal Regno Unito sbuca qualche nuova voce femminile interessante, con un repertorio musicale che può essere interessante per i nostri lettori: penso a Joss Stone, potenzialmente una delle migliori voci rock & soul moderne, ma che spesso paga le scelte non felici di produttori e compagni di viaggio, che quest’anno compie 30 anni e dovrà scegliere cosa vuole fare da grande http://discoclub.myblog.it/2012/07/23/ma-che-voce-ha-il-ritorno-di-joss-stone-the-soul-sessions-vo/ , ma anche la bravissima Rumer, in possesso di una voce deliziosa, dal phrasing perfetto e con uno smisurato amore (ricambiato) per Burt Bacharach, che a chi scrive piace moltissimo http://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , tra i nomi del passato forse si potrebbe paragonare, anche se non vocalmente, a Dusty Springfield. In mezzo a questi nomi ora arriva Jo Harman, giovane cantautrice del Southwest britannico, nata a Luton e cresciuta nel Devon, poi trasferitasi a Londra per dedicarsi alla musica. Nella sua musica si trova una passione per i classici della canzone inglese, Beatles, Cat Stevens, Moody Blues, oltre alla grande soul music americana, nella persona di Aretha Franklin (passione in comune con Rumer), nomi e musiche carpiti dalla discoteca dei genitori e poi usati nei primi passi nel mondo musicale.

Di lei si parla molto bene in questi giorni per l’uscita del presente People We Become, ma in passato ha già pubblicato un album autoprodotto nel 2013, e due dischi dal vivo, tra cui un Live At The Royal Albert Hall, pubblicato dalla BBC. Inserita nel filone soul e blues (dove ha ricevuto vari premi di categoria) mi sembra che Jo Harman si possa inserire a grandi linee  in quel ramo, dove fioriscono anche voci come Beth Hart, Dana Fuchs o Colleen Rennison dei No Sinner, oltre a cantautrici, più, come le potremmo definire, “confessionali”, quelle che si ispirano a Joni Mitchell o Laura Nyro, per volare alti, o, soprattutto Carly Simon, quella del primo periodo, con cui mi pare condividere il timbro vocale. Ovviamente i nomi citati sono semplici suggestioni, anche personali, che servono comunque ad inquadrare il personaggio: questo nuovo album è stato registrato in quel di Nashville, mi verrebbe da dire a cavallo tra la Music City più commerciale e il lato più rootsy e ricercato dell’altro lato di Nashville, Il produttore scelto per l’avventura americana è Fred Mollin, un canadese trapiantato nel Tennessee,  uno che ha lavorato con Jimmy Webb, Kris Kristofferson (il di recente ristampato Austin Sessions), ma anche in moltissime colonne sonore per la Disney: e anche i musicisti utilizzati, grandi professionisti, da Greg Morrow alla batteria, Tom Bukovac alla chitarra e il bravissimo tastierista Gordon Mote, hanno lavorato, da professionisti, con Blake Shelton, Faith Hill, Amy Grant e simili, ma pure con Bob Seger e i Doobie Brothers.

Scusate questo voler esser fin troppo didascalici, ma questo dualismo nel disco, a tratti, si sente: ci sono molti brani dove si percepisce a fondo il talento di questa giovane cantante e alcuni dove è coperto da esigenze di mercato; e così si alternano brani come l’iniziale No One Left To Blame, un brano rock tirato, con chitarre, tastiere e sezione ritmica in evidenza, che sembrano essere in competizione con la voce della Harman, e non sempre, anche se l’ugola è potente, vince lei, ma pur risentendo del suono fin troppo pompato,  la classe si percepisce e non siamo lontani dagli episodi più duri di Beth Hart o dei No Sinner. Ma poi quando si passa a una canzone come Silhouettes Of You veniamo proiettati in un sound molto seventies, alla Carly Simon, con piano ed una bella slide in evidenza, oltre alla voce calda e matura di Jo. Molto bella anche la lunga, oltre i sette minuti, Lend Me Your Love, una ballata che parte solo voce e piano, e poi si sviluppa in un notevole crescendo, con l’organo, le chitarre e il resto degli altri strumenti, fiati compresi. che entrano man mano, qualcuno ha riscontrato addirittura delle similitudini in fase di costruzione sonora con i Pink Floyd, il tutto cantato con grande autorità.

Eccellente anche Unchanged and Alone, partenza acustica per un’altra splendida ballata dal crescendo irresistibile, mentre The Reformation introduce elementi blues e rock, più duri e tirati, che evidenziano la voce grintosa. Changing Of The Guard, sempre con una bella slide, è più leggera e godibile, sempre vicina alla Carly Simon citata, con Person Of Interest, intima e raccolta, che esplora il sound più acustico che veniva utilizzato nel primo album, per poi esplodere nel riff di When We Were Young https://www.youtube.com/watch?v=LyWw7ixwKjs , che sembra un pezzo dei Doobie Brothers, e quando entra la voce di Michael McDonald alle armonie vocali ne hai la conferma, il singolo dell’album, che prosegue con The Final Page, altra traccia elettroacustica sulle ali di una malinconica lap steel, ancora con la bella voce di Jo Harman da gustare, e pazienza se nell’arrangiamento c’è qualche zucchero di troppo. Infine la conclusiva Lonely Like Me, altra ballata pianistica dai saliscendi sonori e con elementi gospel conferma il valore di questo nuovo talento prodotto dalla scena britannica.

Bruno Conti

Più Che L’Amore E’ “La Voce” Che Vince Ancora Una Volta, Splendida! Janiva Magness – Love Wins Again

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Janiva Magness – Love Wins Again – Blue Elan/Ird

Ogni due anni, regolarmente, da un paio di lustri, Janiva Megness ci regala un nuovo album per la delizia dei nostri padiglioni auricolari: un misto di soul, blues, R&B, i dischi della cantante nativa di Detroit, ma, credo, da parecchi anni residente a Los Angeles, sono dei piccoli gioielli in quella categoria abitata anche da gente come Bonnie Raitt, Susan Tedeschi, Beth Hart, in passato (ma anche ora) Bonnie Bramlett, tra le recenti, magari con una maggiore propensione al blues e al gospel pure Ruthie Foster e Shemekia Copeland, e con una maggiore propensione al rock Dana Fuchs. Se ne potrebbero aggiungere altre, ma è comunque una bella lista. La Magness, è tra quelle in possesso di una delle voci più naturali, con un phrasing perfetto e una duttilità nella modulazione vocale tra le più genuine. Lo dico sempre, ma mi ripeto ancora per eventuali ritardatari che non la conoscessero. Per alcuni il suo album più bello è Stronger For It http://discoclub.myblog.it/2012/03/22/sempre-piu-forte-janiva-magness-stronger-for-it/ , ma per chi scrive sono belli tutti, non c’è mai un calo di qualità, e anche questo nuovo Love Wins Again, che segue l’ottimo Original del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/10/09/magari-originale-sicuramente-copia-dautore-janiva-magness-original/ , prodotto come di consueto da Dave Darling, che suona anche chitarra e basso, firma, da solo, con Janiva ed altri autori, la totalità dei brani (meno uno di cui tra un attimo), è una miscela perfetta di suoni classici, questa volta con una maggiore propensione verso un sound virato al soul dei primi anni ’70. Quello che usciva dai Fame Studios o dai Royal Studios di Memphis dove Willie Mitchell confezionava le sue perfette creazioni per Al Green o Ann Peebles.

Sintomatico in questo senso il primo brano Love Wins Again, una canzone di uptempo R&B che mi ha ricordato anche le prime cose di Joss Stone, quando sembrava destinata a grandi cose, prima di venire risucchiata (non del tutto, la voce rimane) nelle pieghe dell’industria discografica più commerciale; ma tornando al pezzo in questione, l’atmosfera è veramente gioiosa, tra chitarrine choppate, basso e batteria rotondi, armonie vocali deliziose, il tutto dà una sensazione di piacere ed allegria, un sentimento che non sempre alligna nelle composizioni della Magness (di cui è nota la vita, dolorosa e dalle mille difficoltà, ne potete leggere la storia nei precedenti post, da cui cerca sempre e comunque di rialzarsi, con grinta e carattere). Real Love è un funky-blues-rock più deciso e grintoso, con chitarre più presenti, un organo di supporto e quella magnifica voce sempre in azione in modo unico. When You Hold Me è la prima di una serie di deep soul ballads che sono il punto forte del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=rHsV1kDTT8E , la voce leggermente rauca ma in grado di acrobazie vocali, che scivola sulle note di due o tre chitarre, oltre a Darling Zach Zunis e Garret Deloian, l’organo di Arlan Schierbaum (l’ex tastierista di Bonamassa), il sax di Alfredo Ballesteros e le “solite” armonie vocali d’ordinanza, un brano che potrebbe anche funzionare in qualche radio contemporanea se ce ne fossero ancora di “sane”.

Anche Say You Will profuma di errebi senza tempo, con una progressione vocale e strumentale di grande fascino, come pure Doorway, altra ballata da stracciarsi le vesti per il piacere che ne deriva dall’ascolto (con qualche reminiscenza con i brani più belli della migliore Joan Armatrading anni ’70, un’altra che mi piaceva non poco), musica genuina e di grande impatto emozionale. Moth To A Flame vira verso un jazzy blues più grintoso, sempre con questa contrapposizione tra il sound delle chitarre e dell’organo Hammond, con Your House Is Burnin’ che fonde un groove alla James Brown ad un sound chitarristico decisamente rock, con ottimi risultati https://www.youtube.com/watch?v=rfZ2oC7TkmM . Bellissima anche Just Another Lesson, un’altra delicata ballata, questa volta solo la voce e una chitarra acustica, intima ed intensa, gran classe vocale, inutile dirlo. E niente male pure le raffinate atmosfere notturne di Rain Down, benché forse troppo arrangiate, anche se la voce https://www.youtube.com/watch?v=b2mbtjdB7YU  … Discorso a parte per una fantastica versione di Long As I Can See The Light, il super classico dei Creedence di John Fogerty, che riceve un trattamento di lusso in puro Memphis style che ci riporta al suono di Stronger For It, dove c’erano delle cover formidabili, qui siamo dalle parti di Beth Hart, anche per la potenza e carica vocale. E per concludere in bellezza un’altra ballata di quelle strappalacrime, Who Will Come For Me, perfetta anche grazie all’ottimo lavoro di raccordo di Dave Darling, che ha diretto le operazioni dagli studi Doghouse di Los Angeles, con un gruppo di ottimi musicisti che hanno saputo evidenziare la splendida voce di Janiva Magness. Da avere assolutamente se amate le grandi cantanti!

Bruno Conti

P.S In questo 2016 ricco di morti eccellenti ma anche della scomparsa di musicisti meno noti, il 6 giugno ci ha lasciato anche una cantante come Candye Kane, pure lei blues e soul singer di qualità, vicina alla categoria di Janiva Magness. Soffriva da anni di una forma di tumore al pancreas che sembrava avere sconfitto, o così vi dicevo in questo post dell’epoca http://discoclub.myblog.it/2011/09/18/una-cantante-blues-particolare-candye-kane-sister-vagabond/ che ripubblico per renderle omaggio. Aveva 54 anni. R.I.P.

L’Ultimo Dei “Veri” Chitarristi Blues, In Gran Forma! Buddy Guy – Born To Play Guitar

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Buddy Guy – Born To Play Guitar – RCA/Silvertone/Sony

La foto di copertina è probabilmente un omaggio al suo “discepolo” Hendrix, mangiatore di chitarre, nel disco vengono ricordati due grandi che non ci sono più, come Muddy Waters B.B. King, e tutto il disco è incentrato sul suono di uno dei più grandi chitarristi che il Blues abbia mai prodotto, forse l’ultimo dei grandissimi ancora in vita, ora che BB ci ha lasciato. Buddy Guy, 79 anni compiuti il 30 luglio, il giorno primo della pubblicazione di questo Born To Play Guitar, quarto album di studio consecutivo prodotto dal bravo Tom Hambridge (oltre al Live del 2012), ennesima dimostrazione che se questi artisti vengono affidati ad un produttore capace sono ancora in grado di fare faville. Hambridge, oltre a produrre, suona la batteria, arrangia e compone gran parte del materiale di questo album, sceglie i musicisti, tutti eccellenti: Billy Cox al basso (un omonimo o l’originale?), Kenny Greenberg, Bob Britt, Rob McNelley Doyle Bramhall II, alle chitarre aggiunte, Tommy MacDonald, Michael Rhodes  e Glen Worf, che si alternano ancora al basso Kevin McKendree o Reese Wynans, alle tastiere, che sono coloro che Hambridge utilizza abitualmente nelle sue produzioni, oltre alle McCrary Sisters, alle armonie vocali. Ospiti speciali, Kim Wilson, Billy Gibbons, Joss Stone e Van Morrison. E il risultato è ancora una volta ottimo, come era stato per il precedente Rhythm And Blues di due anni fa http://discoclub.myblog.it/2013/07/25/buddy-guy-non-lascia-anzi-raddoppia-il-30-luglio-compie-77-a/, quasi 60 anni di carriera e 28 album di studio non hanno intaccato la voglia di Buddy Guy di fare buona musica blues!

Proprio Tom Hambridge, con l’aiuto di Richard Fleming, costruisce una sorta di piccola cronistoria autobiografica nella title-track, uno slow Chicago Blues di quelli duri e puri, dove Buddy racconta la sua vicenda di giovane virgulto nato a Lettsworth in Lousiana con le 12 battute già incorporate nelle sue vene, mentre Wear You Out è un poderoso boogie-rock-blues dove Guy, sempre in gran voce, e Billy Gibbons, un po’ meno, duellano però con le chitarre, nel pezzo del disco che più concede alle dinamiche del rock, ma quando ci vuole ci vuole, e qui i due fanno veramente sfracelli con le loro Stratocaster https://www.youtube.com/watch?v=hThlFYaUXds . Back Up Mama è un altro lento di quelli ad alta intensità con il nostro amico che gigioneggia e dispensa blues di gran qualità, spalleggiato dai musicisti citati sopra, tutti che si dannano l’anima per tenere botta ad un Buddy in gran spolvero, ottimi Bramhall e Wynans (o è McKendree?) al piano. Too Late è un  brano che porta la firma di Charles Brown e Willie Dixon, vecchio cavallo di battaglia di Little Walter, permette a Guy, grazie alla presenza di uno scatenato Kim Wilson all’armonica, di ricreare i vecchi duetti con Junior Wells. Whiskey, Beer And Wine, uno dei cinque brani co-firmati da Buddy Guy è un’altra poderosa costruzione sonora con la solista che dispensa sciabolate di blues, ma grazie alla precisa costruzione di Hambridge non è mai sopra alle righe, come in passato succedeva di tanto in tanto nei vecchi dischi. E anche Kiss Me Quick, il secondo duetto con Kim Wilson, è un perfetto esempio di come deve suonare il blues elettrico nel ventunesimo secolo https://www.youtube.com/watch?v=DYOkbVwkLuk : come lo si suonava sul finire anni cinquanta a Chicago con il grande Muddy.

Addirittura Crying Out Of One Eye, ancora con la firma Guy/Hambridge, e con l’aiuto di una sostanziosa sezione fiati, suona come un brano tratto dal vecchio Blues Jam At Chess registrato a Chicago con i Fleetwood Mac di Peter Green, un blues dove la chitarra è alla ricerca di sonorità lente e spaziali. Sempre a proposito di Chess Records, (Baby) You Got What It Takes, il duetto con una Joss Stone finalmente in grado di esprimere i suoi talenti in modo efficace e misurato, sembra un brano tratto dal vecchio repertorio di Etta James o ancor più Koko Taylor, con Hambridge che aggiunge un pizzico di genio nella trovata di aggiungere una sezione di archi https://www.youtube.com/watch?v=fYfWNYecvJA . In Turn Me Wild  Buddy Guy innesta il pedale wah-wah e lascia andare la sua solista in modalità più selvaggia, come solo lui sa fare, uno dei maestri della moderna chitarra elettrica, quello che ha insegnato a Jimi due o tre trucchetti su come si suona il blues, qui lo dimostra ancora una volta https://www.youtube.com/watch?v=c7yfVy0Fm24 . Crazy World, con la voce filtrata e carica di eco, sospesa su un tappeto di organo, e di nuovo con il wah-wah più atmosferico di Guy, ci illustra una ulteriore sfaccettattura di questo artista sempre in grado di variare il suo stile all’interno delle grande strade della musica del diavolo (o del Signore). Smarter Than I Was, altro brano autobiografico costruito ad hoc da Hambridge, mostra ancora una volta perché gente come gli Stones e Clapton idolizzano questo signore di quasi ottanta anni, una vera leggenda vivente, in grado di cavare dalla sua chitarra torrenti di note ribollenti, come se il tempo per lui si fosse fermato.

Negli ultimi tre brani è tempo di ricordare e commemorare: prima con una Thick Like Mississippi Mud che ricorda le folate elettriche anni cinquanta, anche con fiati, del suo vecchio datore di lavoro e maestro, quel McKinley Morganfield con cui Guy ha lavorato relativamente poco, apparendo però in alcuni degli album migliori del Muddy Waters inizio anni ’60, nello specifico Muddy Waters Sings Big Bill Broonzy e Folk Singer, due capolavori di equlibri sonori. Non c’entra quasi nulla con il resto a livello sonoro, in teoria, ma Flesh And Bone (Dedicated To B.B. King), il duetto con Van Morrison, è una ballata quasi celtic soul, tipica del rosso irlandese, cantata meravigliosamente da entrambi, con Buddy Guy che ricama arabeschi con la sua chitarra e i fiati e le McCray Sisters che aggiungono quello spirito cerimoniale tipico del miglior gospel, un omaggio sentito e realizzato con classe immensa, bellissima canzone. E anche la seconda dedica a Waters, una delicata e quasi acustica Come Back Muddy, si riappropria dello stile di Folk Singer con assoluta naturalezza e un pizzico di nostalgia, per concludere in gloria un album che si candida come uno dei migliori della carriera di Buddy Guy: signori, questo è il vero Blues, con la B maiuscola, è lui è veramente nato per suonare la chitarra!

Bruno Conti

Novità Luglio. Tame Impala, Amy Helm, Watkins Family Hour, Buddy Guy, Joss Stone

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Come promesso ritorna la rubrica delle anticipazioni sulle prossime uscite discografiche (qualcuna anche già uscita) mentre ferve, al solito, il lavoro sulle recensioni degli album reputati più interessanti, con varie aggiunte che leggerete nei prossimi giorni. E, come al solito, non escludo che alcuni degli album riportati qui sotto poi avranno un Post completo, insieme a qualche titolo recuperato dalle uscite passate che per vari motivi erano stato trascurate.

Il terzo album dei Tame Impala, band australiana neopsichedelica (per mancanza di un termine migliore) è uscito il 17 luglio per la Interscoper/Universal, si intitola Currents ed ha avuto ottime critiche in giro per il mondo. Il sito http://www.metacritic.com/ che riporta i voti medi delle varie riviste e siti musicali indica una media di 83/100, con Pitchfork che gli ha assegnato 9.3, Spin 9, il NME 8, il Guardian 5 stellette, Q 4 stellette, Paste 9.4, e così via.

amy helm didn't it rain

Il 24 luglio uscirà il primo album solista di Amy Helm, figlia di Levon ed ex (?) componente degli Ollabelle, che in effetti dovrebbero essere solo in pausa di riflessione. Amy, oltre ad essere figlia di tanto padre, ha anche una madre di talento, Libby Titus, che è l’attuale compagna di Donald Fagen, e in passato lo è stata anche di Dr. John, dopo la separazione da Helm, nonché co-autrice con Eric Kaz di Love Has No Pride, una delle canzoni più belle di Bonnie Raitt e di molti altri brani nel corso degli anni, oltre ad un paio di album solisti. Quindi la musica di qualità è sempre stata una degli elementi fondamentali della vita di Amy Helm, che arriva a 44 anni a questo album di esordio, Didn’t It Rain, in uscita per la Entertainment One, dopo più di venti anni nel music business, avendo collaborato con grandissimi musicisti nel corso degli anni. A partire da suo padre, che appare alla batteria in tre brani del disco, Larry Campbell ( nel cui recente disco Larry Campbell and Teresa Williams appare anche la Helm), Byron Isaacs, bassista  e polistrumentista degli Ollabelle, che con Daniel Littleton alla chitarra e David Berger alla batteria, fa parte dell’attuale band di Amy, gli Handsome Strangers.

Nel disco suonano anche Bill Payne, Chris Masterson e Jim Weider, oltre a Campbell, alle chitarre, Marco Benevento, Brian Mitchell e John Medeski alle tastiere, più moltissime voce femminili di supporto, Carolyn Leonhart, Elizabeth Mitchell, Allison Moorer, Catherine Russell eTeresa Williams. Il disco è stato prodotto da Byron Isaacs, molto bello, manco a dirlo, con brani originali, cover di Martha Scanlan, Sam Cooke, classici spiritual, come la title-track che era nel repertorio sia di Mahalia Jackson come di Mavis Staples https://www.youtube.com/watch?v=_RglpLdfHpo
Gran disco!

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Anche questa è una bella sorpresa. Watkins Family Hour ricorda quelle riunioni di famiglia allargate come i dischi delle McGarrigle Sisters o della famiglie Wainwright e Thompson, ed in effetti siamo da quelle parti. Sara e Sean Watkins, che sono il lato family del gruppo, li conosciamo tutti, fratelli, ex Nickel Creek (ma il gruppo, al momento silente, esiste ancora), la prima, violinista e cantante, autrice anche di due ottimi album solisti, collaboratrice di Decemberists e Crooked Still, oltre ad apparire in parecchi dischi di pregio usciti negli ultimi anni, il secondo, multistrumentista, anche con alcuni album pubblicati a nome proprio. Tutti e due presenti pore in una sorta di supergruppo, WPA, Work Progress Administration, con un album e un EP a loro nome, progetto dove erano presenti anche Glenn Phillips dei Toad The Wet Sprocket e Luke Bulla, oltre alla sezione ritmica di Costello, Pete Thomas e Davey Faragher, più Benmont Tench (dagli Heartbreakers di Petty) e Greg Leisz. Questi ultimi due, insieme ai fratelli Watkins, Don Heffington alla batteria, Sebastian Steinberg al basso, e soprattutto Fiona Apple, già presente anche nell’ultimo disco della Watkins, in tre giorni, dal vivo in studio, hanno realizzato questo Watkins Family Hour, che comprende soprattutto cover tratte dal repertorio di Grateful Dead, Gordon Lightfoot, Robert Earl Keen, Bob Dylan, Harlan Howard, Lindsey Buckingham, eccetera. Il CD esce il 24 luglio su etichetta Family Hour e mi sembra molto buono https://www.youtube.com/watch?v=vRczyMGcPB8 . Country-rock, country got soul, folk-rock, come volete chiamarlo, il disco ha veramente un bel sound!

buddy guy born to play

Altri due titoli in uscita entro la fine del mese, il 31 luglio. Il primo è il nuovo di Buddy Guy Born To Play Guitar, etichetta RCA/Sony, il seguito dell’ottimo Rhythm And Blues pubblicato nell’estate del 2013, nello stesso periodo in cui esce questo nuovo (anche perché Guy compie gli anni il 30 luglio) e di cui vi avevo parlato ottimamente http://discoclub.myblog.it/2013/07/25/buddy-guy-non-lascia-anzi-raddoppia-il-30-luglio-compie-77-a/

Le premesse sono ottime anche per il nuovo disco https://www.youtube.com/watch?v=ntqlTG40inU ,  prodotto come il precedente da  Tom Hambridge e che vede presenti tra gli ospiti Van Morrison, Billy Gibbons, Kim Wilson e Joss Stone, che rilascia una ottima interpretazione vocale in (Baby) You Got What It Takes. Appena ci metto le grinfie sopra recensione completa.

joss stone water for your soul

Proprio anche di Joss Stone esce il nuovo disco solista Water For Your Soul, etichetta S-Curve/Stone’d Records, ma purtroppo non è altrettanto positivo il giudizio come per la partecipazione al CD di Buddy Guy. Non posso negare di avere sempre avuto una forte simpatia per questa giovane e talentuosa cantante inglese, che però alterna album ottimi, vedi i due volumi della serie Soul Sessions a ciofeghe terribili, come la collaborazione nel “tremendo” disco dei SuperHeavy, con Mick Jagger e Damien Marley, che l’ha convinta alla fine a registrare un disco di reggae. Come saprà chi legge questo Blog sono un grande estimatore (ma anche no) della musica caraibica, quindi il prospetto di un intero album dedicato al genere mi ha subito “entusiasmato”, anzi, mi sarei lanciato sulla versione Deluxe doppia che contiene anche un secondo CD con sei versioni dub di brani presenti in Water For You Soul. A parte nel titolo, soul ce n’è poco, più nu soul, hip hop, R&B e altre diavolerie moderne, oltre a tantissimo reggae. Fate conto che il miglior brano dell’album è forse questa The Answer, che incorpora elementi pop, un violino quasi celtico e ritmi orientali, ma certo un capolavoro non è. Se vogliamo si può salvare anche il secondo brano, This Ain’t Love, un funky -soul orchestrale vagamente alla Isaac Hayes, ma diciamo che il resto dei contenuti è inversamente proporzionale ai talenti vocali della Stone, che a 28 anni è sempre una delle migliori cantanti in circolazione, ma il disco non mi piace (già sentito tutto e bene), parere personale ovviamente. Peccato. Speriamo per il prossimo!

Per oggi è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

Ma E’ Ancora Vivo, Eccome! Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue, La Recensione.

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Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue – Yada/Yasca – RCA/Sony – 24-03-2015 “Ma è ancora vivo!”: circa un mesetto fa così titolavo il post dove vi annunciavo l’uscita del nuovo disco di “Van The Man”, ora l’attesa è finita e il nostro amico è vivo e vegeto, pronto anche a lui a compiere i 70 anni alla fine di agosto, e li festeggia con un bel disco di duetti, andando a pescare nel suo enorme catalogo passato di canzoni, lasciando per una volta da parte i classici per rivisitare episodi cosiddetti minori, che parlando però di uno come Van Morrison , tali non sono, diciamo meno conosciuti. Inutile dire che l’album suona un gran bene e lui ha ancora una voce strepitosa, non sempre, forse, i suoi partners sono all’altezza, ma nel complesso il disco pare destinato a diventare un piccolo classico del suo catalogo, per rimanere in tema con il titolo e in ogni caso l’arte del duetto è sempre stata insita nella natura di Morrison. Quindi andiamo a vedere, brano per brano, cosa succede in questo Duets. Per l’occasione si è preso come collaboratori per completare l’album, registrato lo scorso anno tra Belfast e Londra, non uno ma addirittura due produttori, Don Was e Bob Rock, e dall’aria che si respira nel disco sembra che si sia divertito parecchio a farlo, a giudicare dalle risate di compiacimento tra i due alla fine di How Can A Poor Boy?, il duetto dal vivo con Taj Mahal, o la complicità che traspare nello scambio di battute musicali tra lui e Chris Farlowe nella rilettura di Born To Sing, il brano più recente, apparso nel disco omonimo del 2012.

1. Some Peace Of Mind – Van Morrison & Bobby Womack Il brano che apre questa raccolta era stato in origine pubblicato nel doppio album (l’unico in studio dell’irlandese) del 1991, Hymns To The Silence. E Morrison in un’intervista recente https://www.youtube.com/watch?v=1mYkDbmJ8S8 dice che non era a conoscenza delle cattive condizioni di salute di Womack che sarebbe morto a fine giugno del 2014, anzi, gli pareva in buona forma, almeno esteriormente. Il brano viene proposto in una versione più grintosa rispetto a quella del 1991, con Van e Bobby che si alternano alla voce solista e poi armonizzano nel finale, mentre un bel arrangiamento di archi e fiati irrobustisce il sound della canzone, con due soli di sax e trombone che lo impreziosiscono. Un classico esempio di soul alla Van Morrison, tanto per aprire alla grande.

2. If I Ever Needed Someone – Van Morrison & Mavis Staples La voce di Mavis Staples ha combattuto mille battaglie sonore nel corso degli anni e risente, con una certa raucedine, del passare del tempo, ma è ancora animata dal fuoco del gospel e del soul e in questa versione di un brano che appariva su His Band And The Street Choir, un disco del 1970, è assolutamente paritaria con il “vecchio” Van, per un risultato che emoziona non poco, grande musica.

3. Higher Than The World – Van Morrison & George Benson

Questo brano viene da Inarticulate Speech Of The Heart, uno degli album più spirituali della discografia del rosso irlandese, che in questo caso appoggia il suo stile al jazz-soul di Benson, con una versione ritmata e mid-tempo dove l’artista americano ha modo di mettere in evidenza il suo vellutato stile chitarristico e anche accenni del suo tipico scat vocale, piacevole senza essere memorabile, bello l’assolo di sax nel finale, ma a memoria l’originale mi sembrava più bello.

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4. Wild Honey – Van Morrison & Joss Stone

Wild Honey era su Common One, un altro dei dischi del periodo soul celtico degli anni ’80 e Joss Stone se la cava alla grande, mettendo a disposizione del suo ospite quella bella voce che la conferma come uno dei migliori giovani talenti del soul contemporaneo https://www.youtube.com/watch?v=10lpglxnM0I , l’interscambio tra le due voci è perfetto, e per una volta entrambi possono duettare tra pari, su uno sfondo quasi jazzato di gran classe. Il tono della voce di Van pare essere quasi compiaciuto e deliziato nello splendido finale con i due in assoluta libertà.

5. Whatever Happened To P.J. Proby – Van Morrison & P.J. Proby P.J. Proby ormai veleggia verso i 77 anni, ma già nel 2002 il nostro Van si chiedeva cosa gli fosse successo, in questo piccolo divertissement che all’origine si trovava su Down To Road. Il vecchio texano (ma tutti sono convinti che sia inglese, perché lì si è svolta la sua carriera), una dozzina di anni dopo gli fa sapere che tutto va bene e dimostra di essere ancora in grado di fare un bel duetto tra leggende, anche se il brano obiettivamente era e rimane, in questo caso, “minore”!

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6. Carrying A Torch – Van Morrison & Clare Teal

Clare Teal è considerata una delle più grandi cantanti jazz inglesi contemporanee (sentire per credere https://www.youtube.com/watch?v=0ppqwywWias), quella che ha avuto in tempi recenti il contratto più sostanzioso da una etichetta discografica. La voce è in effetti deliziosa e contribuisce non poco alla bellezza di una ballata sentimentale come Carrying A Torch, sempre tratta da Hymns To The Silence, dove gli archi e il piano sono gli altri elementi portanti di questo intenso brano.

7. The Eternal Kansas City – Van Morrison & Gregory Porter

The Eternal Kansas City era su A Period of Transition, forse a ragione considerato il disco “più brutto” del primo periodo di Van Morrison, anche se non si direbbe, a giudicare da questa versione registrata con Gregory Porter, una delle stelle del nuovo jazz americano https://www.youtube.com/watch?v=zbBbI8N2qJc , vincitore del Grammy 2014 di categoria ed in possesso di una voce in grado di spaziare con estrema facilità tra jazz e soul, come dimostra in questa canzone, anche grazie all’intermezzo strumentale che è jazz puro e all’incrociarsi libidinoso delle due voci https://www.youtube.com/watch?v=r5iS336UiDw .

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8. Streets Of Arklow – Van Morrison & Mick Hucknall Veedon Fleece è uno dei miei album preferiti in assoluto di Van Morrison, uno dei più complessi ed intensi della sua discografia e Streets Of Arklow una delle canzoni più belle del disco. Questa versione che segna l’incontro tra i due “rossi” mantiene la magia mistica dell’originale ed è uno dei punti più alti di questo album di duetti, anche grazie a “Mister Simply Red” Mick Hucknall che realizza una delle migliori interpretazioni vocali della sua carriera. Perfetta. 9. These Are The Days – Van Morrison & Natalie Cole La canzone era una delle più belle in Avalon Sunset, uno degli album di maggior successo della carriera di Morrison, quello per intenderci che conteneva anche Whenever God Shines His Light e Have I Told You Lately. Si tratta di una ballata mid-tempo, leggera e scorrevole, che si attaglia perfettamente alla voce di Natalie Cole. van morrison 4

10. Get On With The Show – Van Morrison & Georgie Fame

Georgie Fame è stato l’organista della band di Morrison dal 1989 al 1997, ma è stato anche uno degli artisti di maggior successo nelle classifiche inglesi degli anni ’60 con ben tre brani al numero uno, poi si è ritagliato una carriera R&B e Jazz che prosegue a tutt’oggi: i due vanno a nozze con questa canzone tratta da What’s Wrong With This Picture?, un disco dei primi anni 2000 uscito per la Blue Note, qui ripreso in una divertente versione a tempo di cha-cha-cha.

11. Rough God Goes Riding – Van Morrison & Shana Morrison

La figlia di Van, Shana, ha già duettato parecchie volte con il babbo, sia nei suoi dischi come in quelli del padre e fa la sua porca figura (nel senso che canta veramente bene) in questa bellissima riscrittura di un brano che appariva in origine su The healing game, il disco del 1997 che è uno dei migliori del Morrison dell’ultimo periodo. Classico celtic soul con Van che però viene interrotto e sfumato quando cominciava ad infervorarsi da par suo nel finale della canzone, che rimane comunque tra le più soddisfacenti dell’album.

12. Fire In The Belly – Van Morrison & Steve Winwood

L’incontro tra due delle più belle voci della musica britannica avviene sulle note della bluesata Fire In The Belly, sempre tratta da The healing game, e i due cantano, cazzo che se cantano, scusate, mi è scappato, ma ci voleva.Oggigiorno, in una pletora di dischi inutili dove ci vengono magnificati e propinati improbabili cantanti provenienti da talent show e gare sonore varie, presentati come fenomenti, sentire due che cantano (e suonano, sentire l’assolo di organo di Steve Winwood) così è un vero piacere per le orecchie https://www.youtube.com/watch?v=aH9R0KN7y5s

13. Born To Sing – Van Morrison & Chris Farlowe A proposito di gente nata per cantare, come recita il titolo del brano, Born To Sing, che era anche il titolo dell’ultimo album di Van Morrison sino ad oggi (in effetti era No Plan B), pure il duetto con Chris Farlowe,  uno che a livello di talenti canterini non scherza, è notevole. Tra Sam Cooke e Ray Charles i due si sfidano in un brano fiatistico di grande appeal, musica “semplice”, in fondo stanno “cantando il blues”, ma lo fanno con un impegno ed una passione sempre ammirevoli, non scalfita dal passare degli anni e senza quell’aria di deja vu o se preferite, “già sentito”, che ogni tanto percorre stancamente certi dischi dell’irlandese, ma per il sottoscritto, che è assolutamente imparziale, ci mancherebbe, potrebbe anche cantare l’elenco del telefono e andrebbe sempre bene, ma non è il caso di questo disco. La rivista Mojo che ultimamente non sempre era stata tenera con i dischi di George Ivan Morrison gli ha assegnato le canoniche quattro stellette che spettano ai dischi “importanti”!

14. Irish Heartbeat – Van Morrison & Mark Knopfler Irish Heartbeat era il titolo della title-track del disco registrato da Morrison con i Chieftains nel 1988, un brano bellissimo nella versione originale, ma se è possibile questa registrata con Mark Knopfler nel suo studio è ancora più bella, a conferma dello stato di grazia raggiunto dall’ex Dire Strait con l’ultimo Tracker e che viene ribadita in questo brano dove nel finale Van vocalizza e duetta nel suo modo inconfondibile con la chitarra di Knopfler. Stupenda versione. Il brano era stato inciso per la prima volta su Inarticulate Speech Of The Heart. https://www.youtube.com/watch?v=_oPb2Ma9z2M.

15. Real Real Gone – Van Morrison & Michael Bublé Nell’anticipazione sul Blog del nuovo album ipotizzavo, sulla base dell’ascolto di questo solo brano, che se perfino il brano cantato con Michael Bublé era bello, l’intero album si preannunciava, come poi è stato, un successo a livello creativo e di idee; la canzone Real Real Gone, è una delle tipiche composizioni gioiose di Morrison, di quelle da cantare a voce spiegata, orecchiabili e radiofoniche, ma sempre a livello sublime in confronto a quello che si ascolta abitualmente on the radio.

16. How Can A Poor Boy? – Van Morrison & Taj Mahal Si finisce a tempo di Blues, John Lee Hooker e Jimmy Witherspoon che erano due dei partner abituali di Morrison, quando voleva cantare il blues, non ci sono più, ma Taj Mahal è ancora in grado di infiammare le dodici battute con la sua classe immensa e i due, come dicevo all’inizio del Post si divertono davvero tra loro e divertono l’ascoltatore con questa versione incandescente di How Can A Poor Boy?, un brano che si trovava su Keep It Simple, ma in questo nuovo duetto è infinitamente superiore. Chi paventava la ciofega o la patacca non tema, questo Duets è un grande disco, con due o tre brani non dico scarsi, ma “normali”, e il resto decisamente sopra la media, esce martedì 24 marzo.

Bruno Conti

Ma E’ Ancora Vivo! Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue

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Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue – Yada/Yasca – RCA/Sony – 24-03-2015

Ormai avevo quasi perso le speranze, le grandi case discografiche le aveva girate tutte (litingando con chiunque) e invece all’appello mancava ancora la Rca del gruppo Sony e quindi, dopo tre anni di silenzio (pensavo di più), torna anche il grande Van Morrison, uno dei miei preferiti in assoluto, con un disco di duetti dove rivisita il vecchio catalogo. Oddio, alcuni dei protagonisti di queste accoppiate non li avrei scelti, a favore di altri, ma se persino Michael Bublé risulta sopportabile, speriamo in bene.

Comunque, questa è la lista completa dei brani e degli artisti coinvolti (vi sorprenderà Clare Teal https://www.youtube.com/watch?v=wKE04wbOcYc):

1. Some Peace Of Mind – Van Morrison & Bobby Womack
2. If I Ever Needed Someone – Van Morrison & Mavis Staples
3. Higher Than The World – Van Morrison & George Benson
4. Wild Honey – Van Morrison & Joss Stone
5. Whatever Happened To P.J. Proby – Van Morrison & P.J. Proby
6. Carrying A Torch – Van Morrison & Clare Teal
7. The Eternal Kansas City – Van Morrison & Gregory Porter
8. Streets Of Arklow – Van Morrison & Mick Hucknall
9. These Are The Days – Van Morrison & Natalie Cole
10. Get On With The Show – Van Morrison & Georgie Fame
11. Rough God Goes Riding – Van Morrison & Shana Morrison
12. Fire In The Belly – Van Morrison & Steve Winwood
13. Born To Sing – Van Morrison & Chris Farlowe
14. Irish Heartbeat – Van Morrison & Mark Knopfler
15. Real Real Gone – Van Morrison & Michael Bublé
16. How Can A Poor Boy? – Van Morrison & Taj Mahal

Sembra in forma il grande Van The Man https://www.youtube.com/watch?v=AjhSr4pqLGo , anche lui compie 70 anni nel 2015 https://www.youtube.com/watch?v=NIIAip9F-ws . Manca solo un mese all’uscita.

Bruno Conti

Saint Stephen…I Migliori del 2012: Le Tante “Alternative” Parte II

Naturalmente dopo Natale viene “Saint Stephen”! Per cui continuiamo con la seconda parte della lista delle migliori “alternative” del 2012 according to Bruno Conti. Se non riuscite a leggerli durante le feste natalizie mi pare ovvio che non hanno una scadenza…eravamo più o meno a luglio!

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Robert Cray – Nothing But Love

 

 

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Joss Stone – The Soul Sessions Vol. 2

 

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Bill Fay – Life Is People

 

 

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Old Crow Medicine Show – Carry Me Back

 

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John Hiatt – Mystic Pinball

 

 

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Chris Knight – Little Victories

 

 

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Michael McDermott – Hit Me Back

 

 

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Dwight Yoakam – 3 Pears

 

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Beth Hart – Bang Bang Boom Boom

 

 

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Jamey Johnson – Living For A Song. A Tribute To Hank Cochran

 

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Donald Fagen – Sunken Condos

 

 

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Van Morrison – Born To Sing No Plan B

 

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Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill

 

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Iris DeMent – Sing The Delta

 

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Greg Brown – Hymns To What Is Left

 

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Graham Parker & the Rumour – Three Chords Good

Mi sa che mi sono dimenticato qualcosa, ma se non volevo fare un elenco da Pagine Gialle dovevo, a malincuore, saltare dei dischi che avrebbero meritato questa lista di fine anno. La seconda parte è più breve della prima perché avrebbe dovuto contenere molti dei titoli che sono già apparsi nella Top Ten. E mancano ristampe, cofanetti e live (qualcuno ha detto Led Zeppelin!).

E se vi sembrano “troppi” perché non si fanno più i grandi dischi di una volta, questo lo diceva anche mia mamma, ma bisogna sapersi accontentare e in questa annata è stato un bel “accontentarsi”!

Comunque per oggi per può bastare.

Bruno Conti

Ma Che Voce Ha!?! Il “Ritorno” Di Joss Stone – The Soul Sessions Volume 2

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Joss Stone – The Soul Sessions Vol.2 – Stone’d/S-Curve/ Warner Bros 24-07-12 Europa 31-07-2012 USA – Special Edition 15 brani

Il “ritorno” è relativo, visto che Joss Stone non se ne era mai “andata”, pubblicando due album lo scorso anno, uno a nome suo, LP1, e l’altro con i SuperHeavy. Più che altro si tratta di un ritorno alle origini, a quel The Soul Sessions che nove anni fa, nel 2003, quando di anni ne compiva 16 anni, l’aveva segnalata come una delle voci più formidabili in circolazione. Joss Stone (Jocelyn Eve Stoker per la sua mamma) ha sempre avuto un contralto naturale fantastico e una sana propensione per la musica soul, genere adattissimo a quel tipo di voce, ma dopo quel primo album che conteneva una serie di cover di brani diciamo “oscuri” del repertorio black, si è affidata sempre di più, album dopo album, al lavoro e alla collaborazione con gli artisti dell’R&B e dell’Hip Hop contemporaneo che hanno snaturato il suo stile genuino (sono sempre pareri personali, poi ognuno è libero di pensarla come vuole). Anche il disco dello scorso anno, prodotto da Dave Stewart, non mi aveva entusiasmato più di tanto, al di là dei due o tre brani canonici che abbellivano comunque i suoi LP.

Per questo secondo capitolo delle Soul Sessions, la Stone si è nuovamente affidata al team della S-Curve Records (in joint venture con la sua etichetta Stone’d) e in particolare a Steve Greenberg che aveva coordinato quell’album. E i risultati si vedono o meglio si sentono, eccome se si sentono, ci sono tre o quattro brani dove canta in modo incredibile, con un feeling e una partecipazione straordinari, e la voce, senza andare sopra le righe o fare forzature innaturali, è in grado di mandare dei brividi nella schiena dell’ascoltatore, che sono sinonimi di musica di gran classe. Chi vi scrive, come forse saprete, tra le tante musiche che ascolta, ha una particolare predilezione per la musica nera e nello specifico per il soul e una passione per le belle voci femminili.

Direi che in questo album la ricerca, penso del team di produzione, si è rivolta verso brani che sono proprio da specialisti della black music, canzoni che ai tempi sono state magari anche dei successi ma che più nessuno ricorda e quindi per l’occasione, vi snocciolo una bella track-by-track anche per inquadrare i brani di cui parliamo. Per aggiungere autenticità all’album ci sono anche alcune partecipazioni i cui nomi faranno aumentare la salivazione degli appassionati, gente come Ernie Isley degli Isley Brothers alla chitarra, il grande Delbert McClinton (anche se non sono riuscito ad individuare in quale brano appare o forse sì) e il tastierista Clayton Ivey della Muscle Shoals Rhythm Section, tutta gente che è sinonimo di qualità. Sarà anche karaoke di alta classe, come ha detto qualcuno, o musica retrò, ma preferisco questo “retro” a molta musica che viene spacciata per avanguardia sonora, per lo meno c’è un’anima (soul)! 

Per essere preciso e tassonomico mi sono anche fatto delle ricerche ed ho preso degli appunti che ora vado a sfogliare:

1° brano) I Got The… qualcuno aggiunge un soul al titolo, ma non c’è, brano di Labi Siffre, nonostante il nome che può ingannare, un vocalist maschile inglese di origine africana, attivo soprattutto negli anni ’70, grande voce. La versione di Joss Stone, a dispetto du un suono moderno, soprattutto nella sezione ritmica, si colloca a cavallo tra certi brani del Philly Sound più classico e le minisinfonie soul di Isaac Hayes per l’uso di archi, tastiere e voci femminili di supporto, buon inizio anche se non memorabile, diciamo radiofonico. L’aveva campionata anche Eminem per My Name Is.

2° brano) (For God’s Sake) Give More Power To The People, cantata a pieni polmoni e con grinta dalla Stone, è un vecchio brano dei Chi-lites, ma qui è reso con un groove segnato da un basso funkyssimo (non si potrebbe dire ma è la verita) che ricorda le cose migliori dei Rufus di Chaka Khan degli anni d’oro. C’è anche una armonica malandrina che potrebbe essere quella di Delbert McClinton.

3° brano) While You’re Out Looking For Sugar è un vecchio brano del 1969 delle Honey Cone, un formidabile trio vocale femminile anche se poco conosciute se non dagli appassionati del genere. Un brano, mosso e ritmato, con un organo insinuante e la voce a piena polmoni della Stone che invade le casse dell’impianto con effetti dirompenti.

4° brano) Sideway Shuffle, e qui diamo uno schiaffo morale ai tipi di Wikipedia che così scrivono, non è un brano di Tim Renwick (peraltro grande chitarrista inglese) che ha una S in più nel titolo, ma una canzone firmata dalla grande Linda Lewis, altra formidabile vocalist di colore inglese che ha vissuto il suo periodo di fulgore negli anni ’70 (ma tuttora in attività), quando oltre a pubblicare i suoi dischi la si trovava come background vocalist negli album di Cat Stevens, Rod Stewart, David Bowie e tantissimi altri, e in anni più recenti anche con i Jamiroquai. La Lewis, che ha una estensione vocale di cinque ottave, secondo alcuni è stata la prima ad utilizzare quella nota acuta, quasi un fischio inaudibile se non ai cani (scherzo), che è stata una caratteristica anche di Minnie Riperton e Mariah Carey. 

5° brano) I don’t want to be with nobody but you è una ballata lenta soul con fiati, scritta da Eddie Floyd di Staxiana memoria, e qui Joss Stone è nel suo campo, e canta, cazzo se canta! Senza esagerare ma con la giusta misura, a venticinque anni è nel pieno del suo sviluppo come cantante, sia come tecnica che come bravura di interprete. Varrebbe la pena solo per questo brano, se il resto non fosse comunque buono, per consigliarvi questo CD. Senti che roba!

6° brano) Teardrops è più moderna, si tratta di un brano degli anni ’80 scritto da Womack & Womack, l’avevano fatta anche Elton John e Kd Lang nell’album di duetti del 1993, ma non c’è paragone con questa versione, soul music di classe cristallina con quell’organo e gli archi che si insinuano nelle pieghe della canzone. Che è anche orecchiabile come è giusto che siano le grandi canzoni pop(olari) e cantata ancora in modo perfetto, senza esagerazioni inutili, con un finale da grande interprete.

7° brano) Stoned Out Of My Mind è un altro super funky (ditemi chi è il bassista? James Alexander) scritto da Barbara Acklin ancora per i Chi-Lites, di cui appaiono due brani nel CD, versione da manuale.

8° brano) The Love We Had (Stays On My Mind), scritta da Terry Callier per i Dells è un’altra slow ballad fantastica, mi sarebbe piaciuto ascoltarla cantata da Aretha o da Dionne Warwick, armonie vocali femminili da sballo e un’altra interpretazione magnifica di Joss Stone, “accontentiamoci”!

9° brano) The High Road, introdotta dalla chitarra spaziale di Ernie potrebbe essere uno di quei brani magici degli Isley Brothers futuribili del periodo Epic dei primi anni ’70, ma in effetti è un brano contemporaneo firmato da James Mercer (Shins) e Brian Burton (aka Danger Mouse) per il loro progetto come Broken Bells. Dovrebbe essere uno dei singoli dell’album come era stato per la cover del brano dei White Stripes, Fell In Love With A Boy, nelle precedenti Soul Sessions.

10° brano) Pillow Talk è un vecchio successo del 1973 di Sylvia (Robinson) che poi sarebbe stata la fondatrice a fine anni ’70 della Sugar Hill Records. La canzone in origine era stato scritta per Al Green, e il brano, in quella versione, oltre a tutto, anticipava, con i suoi gemiti e lamenti e un groove molto scandito, di un paio d’anni, la Donna Summer di Love To Love you Baby e la disco. Con le sue percussioni, il wah wah, un organo magico, la giusta dose di riverbero e gli urletti mirati, questa versione della Stone è una piccola lezione su come fare del funky di classe senza scadere nello scontato. La base ritmica del brano è stata usata anche da Kate Bush per Running Up That Hill, per la serie non si butta via niente.

11° brano) Then You Can Tell Me Goodbye è un brano scritto in origine da John D. Loudermilk per Don Cherry nel 1962, poi è diventato un brano doo-wop nella versione dei Casinos, molti anni dopo il boom di questo genere e infine, in versione country, un successo per Eddy Arnold. Questa versione di Joss Stone la fa diventare una dolcissima ballata con l’accompagnamento di una chitarra acustica pizzicata e una sezione archi, nonché le immancabili voci femminili di supporto e come tutti i brani lenti è manna dal cielo per la voce di Joss  Stone, forse un filo di melassa di troppo ma comunque molto buona.

Varrebbe già la pena per questi 11 brani, ma nella versione Special del disco ce ne sono altri quattro ancora più oscuri e goduriosi: una First Taste Of Hurt scritta da tale Wilson Turbinton, che sarebbe il mitico Willie Tee dei grandi Wild Magnolias, una delle formazioni cardine del suono di New Orleans, One Love In My Lifetime era un brano del repertorio della Diana Ross degli anni ’70 e in generale in questo album di Joss Stone ci sono quei momenti “panterati” tipici dell’ex cantante delle Supremes. Nothing Take The Place of You è addirittura da “archeologi” del soul, un brano firmato da Toussaint McCall, altro genio minore della musica soul della Louisiana, mentre la conclusiva (1-2-3-4-5-6-7) Count The Days è stato un brano minore di Inez & Charlie Foxx che sono passati alla storia del pop per quella Mockingbird che quasi tutti conoscono però nella versione di James Taylor e Carly Simon.

Questa volta mi sono cimentato un poco nell’arte delle citazioni e dei richiami che è uno dei piaceri nascosti del parlare della musica pop e soul ma l’argomento trattato lo consentiva. Se poi vi viene voglia di andare alla ricerca anche delle versioni originali, non sarebbe una cattiva idea. Ripetiamolo, sarà musica retrò come poche, ma fatta un gran bene, insieme a quello di Rumer uno dei migliori dischi di cover dell’anno, casualmente belle voci entrambe! Adesso aspettiamo il terzo capitolo fra una decina d’anni.

Bruno Conti

Non Solo “Superheavy”, SuperReggae & Bollywood Ma…

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Superheavy – Normal & Deluxe Editions – A&M/Universal 20-09-2011

Ma…Lo ammetto, dopo il primo ascolto di questo CD dei Superheavy nella versione Deluxe (16 brani), la mia prima tentazione sarebbe stata quella di prendere a calci nel culo (si può dire calci?) tutti i componenti della “Superband” e rispedirli nei rispettivi stati e continenti, India, Giamaica, Inghilterra e Stati Uniti (anche quelli di adozione)! Poi mi sono detto, prima di scrivere qualsiasi cosa proviamo un secondo ascolto, magari con le cuffiette dei Walkman, che è probabilmente il supporto con il quale questo album verrà ascoltato con maggiore frequenza e poi di nuovo con l’impianto per scorgere eventuali particolari sfuggiti nei primi giri. E la pazienza ha dato i suoi frutti, il disco, che paventavo “una cagata pazzesca” di dimensioni fantozziane, non dico che mi piaccia moltissimo, ma aldilà dei quattro o cinque brani con cui avrei potuto fare un discreto EP ed archiviarlo a futura memoria insieme a tutta la discografia solista di Mick Jagger, ha “svelato” un suo progetto unitario, democratico, commerciale ma migliore di quello semplicemente “supermodernista” di Goddess In The Doorway, che, come avrebbe detto dell’Ignazio Larussa Fiorello, era veramente brutto.

Il disco veleggia in un ambito sonoro Super reggae e Bollywood, sostenuto dalla sezione ritmica abituale di Damian Marley, i cosidetti Distant Relatives, Courtney Diedrick e Shiah Coore, che assieme alla violinista Ann Marie Calhoun e alle tastiere di A.R. Rahman (il “Morricone indiano”, ma mi faccia il piacere!), viene mitigato dal plotone occidentale capitanato da Jagger e Stewart, che sono i due produttori e dalla voce soul “della madonna” (non alla Madonna o Nicole Scherzinger come nella versione dance del soundtrack del Milionario) di Joss Stone, che come direbbe la Marchesini è anche una “bella faiga”!

Alla fine ho raggiunto un compromesso con me stesso: non sarà quel capolavoro che molti quotidiani, soprattutto italiani, vi vorranno far credere ma rimane un dignitoso lavoro, commerciale e piacevole da ascoltare, soprattutto se vi piace il reggae, nelle sue forme più moderne e contaminate con rap e hip-hop, con la presenza del “toaster” (che non è la macchinetta per fare i toast, ma tradotto all’impronta per i profani si potrebbe definire un incrocio tra un dj e un rapper, quelli che “cantano parlando”, e allora dillo!) Damien Marley, che a mio parere, ma a me il reggae non piace molto, lo riabadisco, è tra i figli di Bob uno dei meno talentuosi, e non è che gli altri abbiano incendiato il mondo della musica. Anche la Bollywood dance ha una sua forte presenza, ma rock, soul e ballate, mescolate a tutto quanto cercano di emergere dall’impasto democratico del gruppo, con le voci di Jagger e Joss Stone (con il suo cognome quasi predestinata)che spesso si incrociano efficamente in una tradizione che da Lisa Fischer, passando per Tina Turner risale fino a Merry Clayton tra quelle che hanno misurato le loro ugole frenetiche con Mick.

Si parte con una Superheavy corale caratterizzata dal toasting di Marley, dal cantato della Stone, dall’ipnotismo indiano di A.r. Rahman, ma anche dagli intermezzi rock della chitarra di Dave Stewart (che dalla sua residenza giamaicana è stato l’istigatore di questa “operazione) per uno stile dancehall rock-reggae che poi si perpetua in Unbelievable cantata da Mick Jagger che in questo disco ha abbandonato quello stile vocale “finto” giamaicano che aveva adottato per le collaborazioni anni ’70 con Peter Tosh, passi per Joss Stone ma gli intermezzi vocali falsamente etnoindiani li trovo un po’ fasulli. Miracle Worker, la conoscono un po’ tutti, è il singolo che da qualche mese si sente ovunque, un superreggaeone molto piacevole cantato a turno dai vari componenti del gruppo ma con la voce guida di Joss Stone, un esempio di pop music intesa nel senso di “popolare”, con il violino quasi country della Calhon e la chitarrina riffata di Stewart che si integrano alla perfezione con la sezione ritmica reggae e Damian che non rompe troppo le balle. Ma in Energy ci ammolla una lunga introduzione che poi, per fortuna, diventa un bel brano dal taglio rock con Jagger che si cimenta brevemente anche lui nel toasting sostenuto dalla voce a piena gola della Stone e dalla chitarra di Stewart e dall’armonica dello stesso Mick che cercano di ricreare sonorità alla Black & Blue piuttosto che alla Emotional Rescue, per fortuna!

Satyameva Jayathe è il famoso brano cantato in sanscrito con una introduzione vocale corale, poi una parte cantata (presumo da Rahman) fino all’ingresso della Stone che è la vocalist principale e l’immancabile Marley per convergere in una parte strumentale interessante dove le tastiere e il violino si mettono in evidenza prima della parte finale di nuovo corale. Questo è uno di quelli che al primo giro non mi era piaciuto per nulla e poi ho rivalutato. I due brani che seguono sono due delle migliori cose di Mick Jagger degli ultimi 30 anni, la prima One Day One Night, una ballata neo soul in crescendo ancora percorsa da un violino struggente e con delle tastiere di nuovo alla Black & Blue, che ci conferma che per quanti sforzi faccia (e noi apprezziamo) Damian Marley non è un cantante, come è confermato dallo strepitoso intervento vocale nella parte finale di Joss Stone. La seconda, una piccola perla dall’inizio acustico Never Gonna Change, che in alcune interviste Jagger ha paragonato a As Tears Go By, al sottoscritto ha ricordato molto brani come Far Away Eyes e non gli sta distante anche a livello qualitativo. Beautiful People è il secondo potenziale singolo dell’album, un bel duetto tra la Stone che la guida e Jagger che la segue con gran classe, con il terzo incomodo Marley che si intromette ogni tanto, comunque nel complesso un pezzo di pop-reggae commerciale che nella spazzatura radiofonica che si ascolta risalterà sicuramente. Rock me Gently, se si può dire, è un blue-eyed reggae-soul con Marley, Stone e Jagger che si integrano alla perfezione e piacciono pure a me che non amo il reggae, ripeto se non si era capito (ognuno ha i suoi gusti, o no, io ascolto tutti i generi come avrà capito chi legge questo Blog, ma il reggae non lo reggo). Bello l’assolo nella parte centrale della chitarra di Dave Stewart, che ove possibile si ritaglia i suoi spazi.

Introdotto da un “What The Fuck Is Goin’ On” urlato a gran voce dalla Stone, I Can’t Take It No More è il pezzo rock “politico” dell’album scritto e cantato da Jagger e ne potrebbe essere il manifesto anche a livello musicale: “Che caspita sta succedendo, cazzo!” (sempre se si può dire caspita) come definizione del genere dei Superheavy potrebbe andare! Un po’ ruffiano ma pieno di energia. Non male anche la simil-soul ballad I Don’t Mind ancora cantata in coppia con libidine dalla Stone e da Jagger che si intendono a meraviglia senza terzi incomodi se non il violino della Calhoun, o almeno si sperava perché nel finale la presenza di Marley è inesorabile con tanto di citazioni di Just my Imagination e Sweet Dreams nel classico stile toasting. World Keeps Turning è un altro ballatone cantato con gusto dalla Stone con gli altri, Jagger in testa, che la seguono coralmente, e lei ha una gran voce, magari non ancora un repertorio. E a questo punto finisce la versione normale, almeno per l’Italia, dove la versione Deluxe con 16 brani non verrà pubblicata. A proposito vorrei sapere chi è l’inventore di queste doppie versioni: a quelle con CD o DVD aggiunto ci eravamo abituati, ma questo fatto dell’album che esce in una versione, sempre singola prego notare, ma con alcuni pezzi in più, in questo caso 4, ad un prezzo maggiorato francamente non lo capisco. Se uno potesse scegliere chi direbbe “Vorrei quella con meno canzoni, grazie!”, misteri della discografia.

Di Mahiya un pezzo in puro stile Bollywood che uno si immagina con migliaia di indiani che si muovono a tempo con qualche coreografia pacchiana se ne poteva anche fare a meno. Il rock-reggae-dance-bollywood di Warring cantato da Mick Jagger col supporto della Stone è meglio ma non imprescindibile. Meglio il reggae-soul divertente di Common Ground cantato con voce potente dalla brava Joss Stone con l’immancabile Damian Marley che in questo brano mi ricorda molto (e anche in altri per la verità) l’ineffabile Shaggy, mi aspetto sempre, da un momento all’altro un “mister lovva lovva”. Buona anche la parte di Jagger e l’ottimo violino quasy country della Calhoun merito forse delle visite a Nashville del co-produttore Dave Stewart. Non mi piace la conclusione di Hey Captain, che è come come paventavo sarebbe stato l’album, una accozzaglia di dance, reggae, soul e rock con intermezzi “indiani”.

Non salverà il rock, ma forse, per il momento, con le sue vendite, la discografia sì, in definitiva un album commerciale e piacevole molto meno peggio di quello che mi aspettavo, da tre stellette, sei e mezzo, nel suo genere. Non so se lo comprerei ma ammetto che sbagliavo nel mio primo giudizio e quindi i fans degli Stones questa volta saranno forse costretti a sborsare. Comunque dal 20 sarà nei negozi e vi potrete fare la vostra idea.

I supergruppi di una volta erano un’altra cosa ma…

Bruno Conti