Usciamo Un Po’ Dal Seminato, Con Una Tripla Dose Di AOR! Journey, Toto E Foreigner.

journey live in japan 2017

Journey – Live In Japan 2017: Escape + Frontiers – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Toto – 40 Tours Around The Sun – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Foreigner – Live At The Rainbow ’78 – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – CD/DVD – CD/BluRay

Prima di cominciare vorrei ringraziare Bruno che ogni tanto mi permette di “svicolare” dagli argomenti trattati abitualmente sul blog per parlare di artisti che rientrano nella categoria “piaceri proibiti” (ogni tanto non significa che a volte pone il veto, ma sono io che cerco di non approfittare del suo buon cuore). Un genere musicale che non disdegno, anche perché quando è fatto bene a mio parere è tutt’altro che disprezzabile, è l’AOR, acronimo di “Adult Oriented Rock”, una definizione perlopiù giornalistica tesa a categorizzare un tipo di musica alla quale negli anni settanta non si riusciva a dare una collocazione precisa, un rock di forte appeal radiofonico caratterizzato da melodie ad ampio respiro, sonorità levigate ed eleganti e con le tastiere ad avere quasi la stessa importanza delle chitarre, un genere più adatto forse ad ascoltatori over 30. Negli anni parecchi gruppi e solisti sono stati associati all’AOR, a volte anche per un solo disco (penso ai Deep Purple di Slaves & Masters), a volte per una fase “commerciale” della carriera (come band dalle origini prog come Kansas, Rush e Styx), ma la cosiddetta “sacra triade” è formata indubbiamente da Journey, Toto e Foreigner (ci sarebbero anche i Boston, che però sono più una creatura di laboratorio di Tom Scholz). Ebbene, sembra che i tre gruppi si siano dati appuntamento, in quanto nel giro di un mese circa ognuno di essi ha pubblicato un disco dal vivo (quello dei Foreigner è però d’archivio), tutti usciti per la Eagle Rock nel solito insieme di combinazioni audio e video. Bando alle ciance dunque, e vediamo in breve (spero) di cosa si tratta.

Journey. Per molti il gruppo cardine del genere AOR, soprattutto da dopo la metamorfosi avvenuta in seguito all’ingresso del cantante Steve Perry (che, piacesse o meno il tipo di musica proposta, all’epoca Steve era una delle più belle voci d’America): Escape e Frontiers sono considerati dai fans la Bibbia dell’AOR, ed oggi quei due album vengono riproposti integralmente in questo Live In Japan 2017, registrato nello storico Budokan di Tokyo. I Journey sono per quattro quinti nella formazione che aveva inciso quei due album nel 1981 e 1983 (Neal Schon alla chitarra solista, Jonathan Cain alle tastiere, Ross Valory al basso e Steve Smith alla batteria): il problema è il cantante, che non è più Perry da anni ma un suo clone, tale Arnel Pineda, un filippino che militava in una cover band asiatica proprio del gruppo di San Francisco, e scritturato da Schon dopo aver visionato dei filmati su YouTube. Però se lasciamo perdere per un attimo l’effetto karaoke questo doppio ha il suo perché, in quanto è inciso benissimo e suonato anche meglio, con una potenza quasi da gruppo hard rock; e poi i Journey hanno a mio parere un repertorio superiore a quello delle due altre band di cui mi occupo in questo post. Il primo CD è occupato quindi da Escape, di gran lunga il miglior disco dei nostri a cominciare dal brano di apertura, la splendida Don’t Stop Believin’, una grande canzone da qualunque punto la si guardi (l’ultima volta che ho controllato deteneva anche il record di brano più scaricato di tutti i tempi).

Dopo un avvio così il concerto è in discesa, ma non mancano altri classici del gruppo come Stone In Love, altro pezzo di grande impatto, Who’s Crying Now, Open Arms e Mother, Father (Escape era un disco che somigliava molto ad un Greatest Hits). E la band suona che è una bellezza, dando risalto anche a brani come la toccante ballata Still They Ride, la potente Lay It Down o il rock’n’roll sotto steroidi di Dead Or Alive. Frontiers non era bello come Escape, ma un album comunque molto compatto al quale mancava però una hit che spaccasse come Don’t Stop Believin’: in questa rilettura live non mancano in ogni caso momenti di rock sontuoso come Separate Ways, Faithfully, Send Her My Love ed Edge Of The Blade. Come bis abbiamo La Raza Del Sol (un lato B dell’epoca di Frontiers), tramutata in una lunga jam di stampo progressive, e la quasi bluesata (peccato per quel synth) Lovin’, Touchin’, Squeezin’: sorprendentemente assenti due classici “da fine concerto” come Wheel In The Sky e Anyway You Want It.

toto 40 tours around the sun

Toto. Lo scorso anno la band di Los Angeles ha celebrato i quarant’anni di carriera con un’antologia ed un lungo tour, dal quale è stato tratto questo 40 Tours Around The Sun, registrato nel Marzo del 2018 allo Ziggo Dome di Amsterdam dalla formazione attuale del gruppo che comprende i membri fondatori Steve Lukather, David Paich e Steve Porcaro ed il cantante Joseph Williams (già con i Toto negli anni ottanta, anche se per molti fans la voce della band rimane Bobby Kimball). La scaletta non è scontata, in quanto a fianco delle prevedibili hits del gruppo (Hold The Line, Rosanna, la sempre coinvolgente Africa, Stop Loving You e Georgy Porgy entrambe acustiche, anche se manca stranamente I Won’t Hold You Back) ci sono parecchie scelte a sorpresa, i cosiddetti “deep cuts”, tra i quali segnalerei la roccata Lovers In The Night, dal ritornello orecchiabile, la bella ed intensa I Will Remember, con un bell’assolo di Lukather (che, va detto, è un chitarrista formidabile), la trascinante English Eyes ed anche una ripresa del Desert Theme dalla colonna sonora di Dune.

Non ci sono pezzi dalla loro ultima fatica di studio, Toto XIV (2015), ma sono presenti due dei tre brani nuovi del Best Of dello scorso anno, la vigorosa e ritmata Alone, che apre il concerto (tastiere un po’ troppo invadenti però) e la gradevole Spanish Sea, rock ballad fruibile ma non banale. Qualcosa avrei evitato, tipo le due cover (Human Nature di Michael Jackson, che però è stata scritta da Steve Porcaro, ed il classico di George Harrison – e dei BeatlesWhile My Guitar Gently Weeps, proposto da Lukather e soci in una versione raffinata ma con poca anima), ma direi che tutto sommato l’ascolto del doppio CD si rivela piacevole nonostante qualche pomposità qua e là.

foreigner live at the rainbow 78

Foreigner. Live At The Rainbow ’78 è la prima pubblicazione ufficiale di questo famoso concerto tenuto dalla band anglo-americana nel noto teatro londinese. All’epoca i nostri non avevano ancora raggiunto la popolarità che arriverà negli anni ottanta, in quanto avevano dato alle stampe un solo album, l’omonimo Foreigner di un anno prima, mentre il successivo Double Vision vedrà la luce dopo pochi mesi da questa serata. Dodici canzoni, tutto il primo album più una doppia anteprima dal secondo (i singoli Hot Blooded e la title track), per un concerto molto rock e poco AOR, dominato dalla chitarra di Mick Jones e dalla voce potente di Lou Gramm. Un gruppo quindi ancora abbastanza distante dalle sonorità patinate di canzoni future come I Want To Know What Love Is e Waiting For A Girl Like You (a parte la gradevole Fool For You Anyway, ballata che mostra i germogli dello stile più pop degli anni a venire). Basti sentire l’iniziale ed aggressiva Long, Long Way From Home o la riffata I Need You, che presenta elementi blues ed un ottimo assolo di Jones, le accattivanti Double Vision e Feels Like The First Time, o cavalcate rock come l’elaborata Starrider e la conclusiva Headknocker, dodici minuti ciascuna.

Quindi se anche a qualcuno di voi non dispiace il genere, accomodatevi pure: se dovessi fare una scelta, io privilegerei il live dei Journey, nonostante il discutibile cantante.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Anticipazione. Non Solo Un’Operazione Di Marketing, Ma Anche (Finalmente) Un Gran Bel Disco! Santana – Santana IV

santana iv

Santana – Santana IV – Santana IV Records/Thirty Tigers CD

Quando, sul finire dello scorso anno, ho letto la notizia che Carlos Santana aveva riformato la band dei suoi primi tre, storici album (Santana, Abraxas, Santana III) ho storto un po’ il naso, in quanto la cosa mi puzzava di espediente per rilanciare una carriera che aveva di nuovo preso una china discendente. Diciamo che sul chitarrista di origine messicana ero anche un po’ prevenuto, in quanto non sono mai stato un suo grande fan: dando per assodata la sua abilità con lo strumento (davvero formidabile) ed anche il fatto che con quei primi tre album aveva inventato un suono (mescolando ritmi latini, blues, psichedelia e rock, ricavandone un cocktail unico, rubando lo show, come si dice in gergo, anche a Woodstock, dove si esibì da totale sconosciuto), è anche vero che poi ha vissuto di rendita per tutto il resto della carriera (o almeno da Borboletta in poi), riciclandosi all’infinito senza più trovare l’ispirazione, ma anzi cercando sempre di più il successo commerciale, a discapito della qualità delle registrazioni.

Quasi relegato al ruolo di vecchia gloria per tutti gli anni ottanta e novanta, ha avuto un improvviso colpo di coda nel 1999 con l’album Supernatural, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, e che ha riportato in auge il suo nome, grazie anche a singoli perfetti come Smooth e Corazon Espinado (ma il disco era, a mio parere, discreto, non certo un capolavoro); il successivo Shaman vendette molto meno, e la qualità ricominciò a scemare, e non sono serviti altri quattro album (Guitar Heaven, per usare un’espressione cara a Bruno, era una tavanata galattica *NDB Infatti, inserito tra i peggiori dischi del 2010)) per rilanciarsi.L’interesse per questo nuovo disco (e per la reunion) era dunque molto alto: Carlos ha richiamato a sé il chitarrista Neal Schon ed il tastierista/organista e vocalist Gregg Rolie (entrambi, dopo la prima esperienza con Santana, hanno formato i Journey, nei quali Schon milita ancora oggi, mentre Rolie li ha lasciati nel 1981 tentando una poco fortunata carriera da solista, rientrando nei Santana per un paio di album, e militando in seguito in una delle mille line-up della All-Starr Band di Ringo), oltre al batterista Michael Shrieve ed al percussionista Mike Carabello; le uniche concessioni alla band attuale di Carlos sono il bassista Benny Rietveld (David Brown non è più tra noi da tempo) e l’altro percussionista Karl Perazzo. 

Santana IV, fin dal titolo (che si ricollega dunque idealmente al terzo album) e dalla copertina rimanda a quei giorni gloriosi ma, sorpresa delle sorprese, anche il contenuto musicale è notevole: Carlos, forse grazie anche alla rinnovata collaborazione coi vecchi amici, sembra aver ritrovato l’ispirazione, e tra i sedici brani del CD (non ci sono edizioni deluxe) non c’è una sola nota da buttare (solo un paio di leggeri cali). Il nostro è sempre un grande chitarrista, e questo lo sapevamo, ma l’intesa che ha con il resto del gruppo (specie con Rolie, altro grande protagonista del CD) è tale che sembra quasi che non si fossero mai separati. I brani sono tutti accreditati al gruppo stesso, e rappresentano tutto il mondo di Santana a 360 gradi, tanto rock, lunghi assoli, un suono caldo dominato da organo e percussioni, ma anche struggenti brani d’atmosfera, un cocktail che in certi momenti sembra far rivivere l’antico splendore, e che rende Santana IV di gran lunga il miglior disco di Carlos da quarant’anni a questa parte.

L’album si apre con la strana (ma interessante) Yambu, con la sua ritmica tribale e la chitarra wah-wah che duetta abilmente con l’organo di Rolie, ed il cantato che sembra un inno propiziatorio di qualche tribù ad una divinità: un inizio spiazzante, ma anche accattivante. Shake It porta il disco su territori più rock: ancora gran gioco di percussioni, Rolie canta con grinta e Schon fornisce un aggressivo background ritmico sopra il quale si staglia splendida la chitarra del leader. Anywhere You Want To Go è il primo singolo dell’album: dopo un intro in cui i musicisti sembrano accordare gli strumenti, parte una ritmica tipica del nostro, subito doppiata dall’organo, un suono caldo, chitarra stellare ed un motivo molto orecchiabile, un pezzo dalla struttura simile a Oye Como Va. Un brano riuscito, radiofonico ma di sostanza allo stesso tempo. La lunga Fillmore East già dal titolo evoca l’epoca gloriosa della band (ed è anche un omaggio a Bill Graham che lo ha scoperto): inizio lento ed ipnotico, con la chitarra del nostro che sembra faticare a trovare una linea melodica, poi circa a metà il brano parte deciso anche se non ci sono cambi di ritmo. Non il brano migliore del CD, e forse con quel titolo si doveva fare meglio.

Love Makes The World Go Round (titolo non originalissimo) vede la presenza di Ronald Isley, leggendario leader degli Isley Brothers, alla voce solista: la base strumentale è tipica, il connubio chitarra/organo da manuale, ed il vocione di Ronald dona un sapore errebi solitamente estraneo al suono di Santana; Isley resta anche per il pezzo successivo, la potente Freedom In Your Mind, un rock venato di funky dal suono “grasso” e solita chitarra magistrale, che fa muovere volentieri il piedino. Da questi primi brani è lampante come Carlos sia maggiormente dentro al suono ed alle canzoni che nei suoi ultimi dischi, nei quali i suoi assoli risultavano posticci quando non appiccicati alla bell’e meglio, senza un minimo di feeling. La ritmatissima Choo Choo, con i suoi insistenti riff di organo ed il suo mood coinvolgente, è un tripudio di suoni e colori, ed è il Santana che tutti volevamo (e qui il chitarrista è meno all over the place del solito, infatti il vero protagonista è Rolie); il brano sfocia in una scatenata jam session intitolata All Aboard, che purtroppo finisce quasi subito.

Suenos è un lento d’atmosfera decisamente evocativo, nel quale il nostro sostituisce il furore elettrico con una splendida chitarra spagnoleggiante, una canzone sullo stile di classici come Europa e Samba Pa Ti: sarà anche auto-riciclaggio, ma avercene! Caminando è un festival di suoni e percussioni, anche se ogni tanto spunta un synth non proprio graditissimo ed il cantato è stranino, mentre Blues Magic è splendida, uno showcase per le due chitarre di Carlos e Neal, che si alternano con assoli liquidi ben supportati dalla voce di Rolie: grande pathos, uno dei momenti migliori del disco. Echizo è uno strumentale dai toni epici, solito magistrale gioco di percussioni e Santana e Schon che duellano alla grande (vince Carlos, ma Neal vende cara la pelle), chi ama i brani per chitarra qui troverà trippa per gatti; ottima anche Leave Me Alone, di nuovo il Santana più tipico, una canzone decisamente godibile e fluida, un potenziale singolo (anche meglio di Anywhere You Want To Go), mentre in You And I si riaffaccia il lato romantico del nostro, anche se c’è un sottofondo di tensione che dà un tono pinkfloydiano al pezzo (e Carlos nel finale fa i numeri). Il CD si conclude con la solare Come As You Are, ancora ritmo a mille ed un motivo godibilissimo (quasi un calypso caraibico, uno dei pezzi più immediati del disco), e con la lunga Forgiveness, solito inizio lento e fluido nel quale gli strumenti scaldano i muscoli, poi sia Carlos che Neal iniziano a far cantare le chitarre, ed il brano assume quasi le caratteristiche di uno space rock.

Sono il primo ad essere felice del fatto che Carlos Santana sia ancora tra noi, qualitativamente parlando: spero solo che Santana IV non sia un fuoco di paglia, e che non dobbiamo attendere altri quarant’anni per il quinto capitolo, perché non ce la possiamo fare, né noi, né soprattutto loro! Il disco esce il 15 aprile.

Marco Verdi

Quasi Meglio Degli Originali? Hayseed Dixie – Hair Down To The Grass

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Hayseed Dixie – Hair Down To My Grass – Nuclear Blast Records

Quando nel 2000 un gruppetto di amici decise di assumere la denominazione di Hayseed Dixie (anzi all’inizio l’omaggio doveva essere ancora più esplicito, AC/Dixie, ma quando intervennero gli avvocati della Sony, per una probabile causa, optarono per il nome che tutti conosciamo, a livello linguistico l’effetto è lo stesso, ma meno evidente), per pubblicare nel 2001 il loro primo album, A Hilbilly Tribute To AC/DC, venne coniato il termine rockgrass, che tuttora campeggia nella maglietta sulla copertina del nuovo disco. Il disco fu un sorprendente successo, vendendo più di 250.000 copie solo negli Stati Uniti, ma avendo un buon risultato in tutto al mondo, ad esempio 1° posto nelle classifiche australiane. Certo i musicisti che si celavano dietro i simpatici pseudonimi, Cooter Brown, Cletus, Barley Scotch, il leader, voce solista e strumentista tuttofare, tutt’ora in formazione e che all’anagrafe risponde al nome di John Wheeler, costoro probabilmente non immaginavano che nel 2015 la band sarebbe stata ancora in attività, avendo pubblicato nel corso degli anni la bellezza di 14, tra album ed EP, ognuno con un argomento più o meno definito, ma tutti eseguiti in quello stile bluegrass tipico, avendo come tratto unificante il fatto di riprendere brani celebri della musica rock (e non solo) per riproporli, con chitarra, violino, mandolino, banjo,  e contrabbasso, in versioni rigorosamente acustiche.

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Ovviamente la formula alla lunga è diventata un po’ risaputa (anche se ci sono stati, soprattutto negli ultimi anni, dischi interamente cantati in norvegese, singoli in finlandese e tedesco, e altre amenità del genere, usciti a livello autogestito), ma con questo album, il primo pubblicato da una etichetta come la Nuclear Blast, dopo che il gruppo negli anni aveva pubblicato per la Dualtone e la Cooking Vinyl, pare che avendo deciso di affrontare delle canzoni, quasi tutte, non politically correct, o se preferite alla romana (detto da un milanese), “nun se possono vede”, sembrano avere riacquistato una freschezza e una piacevolezza che sembrava mancare da qualche anno. Gridare al capolavoro è indubbiamente difficile, ma Don’t Stop Believin’ dei Journey è una bella partenza, in un tripudio di pickin’ a velocità frenetica di mandolino, banjo e strumenti acustici vari, oltre alla bella voce di Wheeler e dei suoi soci, Jake Bakesnake Byers, Johnny Butten e Hippy Joe Hymas, questa volta in trasferta in Cumbria, Regno Unito, anziché nei soliti studi di Nashville, Tennessee. Se poi nella successiva Eye Of The Tiger, “indimenticabile” tema di Rocky III, si aggiunge il violino ed una citazione di Ghost Riders of The Sky, quantomeno il divertimento è assicurato. Violino e banjo che duettano anche in un’altra rivisitazione alla velocità del suono di Final Countdown https://www.youtube.com/watch?v=VbZ8yMgQ6uk : a questo punto avrete capito quale è il genere che non si può nominare, il cosiddetto AOR, lite metal, rock duro ma non troppo, come volete chiamarlo, caro ai capelloni in giro per il mondo, come da titolo del disco.

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Non vi rimane che mettervi comodi in poltrona e sentire cosa combinano i nostri amici, non c’è limite al peggio, mi riferisco agli originali: We’re Not Gonna Take It dei Twisted Sister https://www.youtube.com/watch?v=TjkVwzON5IE , Summer of ’69 di Bryan Adams (questa per essere sinceri non era brutta, il nostro amico è riuscito recentemente a fare molto di peggio all’incontrario, nel suo ultimo disco di cover), Pour Some Sugar On Me dei Def Leppard https://www.youtube.com/watch?v=Z9nW3kOAEk4 , Dude Looks Like A Lady degli Aerosmith, senza voler essere offensivi verso chi ama il genere, diciamo che non è quello che prediligo, per usare un eufemismo. Livin’ On A Prayer dei Bon Jovi https://www.youtube.com/watch?v=GmihSQ8XNC0 , Wind Der Veranderung (sarebbe Wind Of Change degli Scorpions nella versione tedesca), tutti brani famosissimi e non così orribili, però non in cima alle mie preferenze, anche se una gagliarda We Are The Road Crew dei Motorhead aveva un suo perché. Gli ultimi due brani mi piacciono anche nella versione originale, Comfortably Numb dei Pink Floyd e Don’t Fear The Reaper dei Blue Oyster Cult, e quindi anche il trattamento bluegrass con spirito rock degli Hayseed Dixie, non rovescia troppo il fascino degli originali. Simpatico, spesso frenetico e divertente ancora una volta, ma forse siamo arrivati alla frutta? Vedremo!

Bruno Conti

30 Anni Di Carriera Come…Jimmy Barnes – Hindsight

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Jimmy Barnes – Hindsight – Provogue/Edel

Jimmy Barnes è uno dei più bravi, longevi e popolari musicisti australiani, non necessariamente nell’ordine. Volendo non è neppure veramente australiano, in quanto è nato a Glasgow in Scozia nel 1956, però essendosi trasferito con la sua famiglia ad Adelaide nel 1961 lo possiamo certamente considerare un prodotto della scena down under. Il più popolare e di successo lo è certamente, con 27 album nei Top 40, nove numeri 1, di cui 14 con i Cold Chisel e 13 come solista. Come molti sapranno l’album originale si intitola 30:30 Hindsight, in quanto il doppio album uscito in Australia (ma ne esiste anche una versione Deluxe tripla di cui potete leggere i 40 brani, qui sotto) contiene 30 brani che festeggiano 30 anni di carriera solista, quindi niente Cold Chisel.

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E qui sta in parte il suo limite perché quel gruppo forse, anzi sicuramente, rappresenta quanto di meglio, in ambito musicale, Barnes abbia prodotto: il sottoscritto in particolare lo ha conosciuto grazie a quel bellissimo doppio album dal vivo, Swingshift, uscito nel 1982, che, oltre al meglio della loro produzione fino a quel momento, conteneva, tra le tante, anche due versioni strepitose di Long As I Can See The Light e Knockin’ On Heaven’s Door https://www.youtube.com/watch?v=JnlciLtRR7U , oltre alle loro Conversations e Khe Sanh, per ricordare un paio dei rockers più intemerati. James Dixon Swan, Jimmy Barnes per tutti, nel 1984 ha iniziato anche una carriera solista, senza tralasciare parecchie rimpatriate con il suo gruppo, mai definitivamente sciolto: il primo album solo, Bodyswerve, è un esempio tipico della dicotomia che è sempre stata presente nella musica di Barnes. Un amore per una sorta di pub rock, con ampie venature soul e R&B, mescolato ad un hard rock sguaiato e tamarro, ai limiti dell’AOR meno nobile, che peraltro non gli ha mai consentito di entrare nei primi 100 posti delle classifiche di Billboard: quindi anche se sembrerebbe difficile trovare degli album validi dal profilo qualitativo, al di là di quella voce stentorea e potente, sempre usata ai limiti, nella sua discografia non è difficile viceversa trovarne, oltre alle singole canzoni, nel giudizio di chi scrive, alcuni dischi notevoli ci sono, a partire dall’ottimo Soul Deep, Flesh And Wood, Soul Deeper, The Rhythm And The Blues, oltre a parecchi dischi dal vivo.

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Questo disco nuovo, nella versione europea (dove è ancora meno famoso che negli USA) esce in una versione singola ristretta, e ci presenta alcuni dei suoi maggiori successi rivisitati, in nuove versioni, quasi tutte sotto forma di duetto. Comunque il CD, che manco a dirlo è andato direttamente al primo posto delle classifiche australiane https://www.youtube.com/watch?v=imZlx0K6wO4 , è abbastanza piacevole, si lascia ascoltare e può essere propedeutico per fare la conoscenza di questo ottimo rocker, anche se i dischi da avere sono all’incirca quelli che vi ho citato e a meno che non siate dei fans sfegatati, per cui forse avrete già la versione tripla di questo album. Per tutti gli altri, il disco si apre con una energica versione di Lay Down Your Guns, dove Barnes accompagnato dai Living End, terzetto influenzato dagli Stray Cats, quanto dal punk, dai Clash come dalla colonna sonora di Rock Around The Clock, provvede a “deliziarci” subito con il suo rock ad alta componente di ottani, reiterato in Time Will Tell con i Baby Animals, altra band australiana hard a guida femminile, l’energia non manca, ma giusto quella. Good Times, con Keith Urban (Mr. Nicole Kidman) è un eccellente brano rock che permette a Barnes di sfoderare tutta la sua potenza vocale, in una canzone che potrebbe ricordare Mellencamp quando si faceva chiamare ancora Cougar, ottima. Anche Ride The Night Away, con l’aiuto di Little Steven, è un efficace esempio di rock classico, con l’aggiunta dei fiati a rafforzare la grinta del brano e un ficcante assolo di Mr. Van Zandt, sembra quasi un vecchio pezzo di Bruce https://www.youtube.com/watch?v=fIxkej2fR_U

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Affare di famiglia per Stand Up, con Mahalia Barnes+The Soul Mates che ci presentano il lato più rock’n’soul di Barnes, uno dei suoi migliori https://www.youtube.com/watch?v=PU9vr0qYUi8 , non male anche I’d Die To Be With You con i bravi Diesel, sempre dal lato “giusto” del Rock https://www.youtube.com/watch?v=mYaRHhZ64yc , e pure Stone Cold, con Tina Arena, che praticamente non si sente, è un bel soul blues lento, con l’immancabile Joe Bonamassa, ispiratissimo alla solista, grande versione https://www.youtube.com/watch?v=D99LZg18OWg . Accoppiata rock per Working Class Man, ballatona mid-tempo di buona qualità con Jonathan Cain e Ian Moss, vecchio socio nei Cold Chisel, alla solista https://www.youtube.com/watch?v=jzWHwjfS8E0  e in Going Down Alone, con i Journey, quasi bluesata https://www.youtube.com/watch?v=QJNKeHIkuo4 . Durissima Love And Hate con i neozelandesi Shihad e sempre piacevole No Second Prize, versione 2014, marginali gli altri pezzi, a parte un altro piacevole duetto con il cantante country-roots Aussie Troy Cassar-Daley, in The Other Kind. Nell’insieme meglio di quello che pensavo e va a completare, come promesso, il trittico delle uscite australiane

Bruno Conti

Un dvd (anche due) in dieci parole (anche qualcuna di più): Journey – Live In Manila

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Journey – Live In Manila – 2DVD Universal

Registrazione del concerto tenuto nel marzo 2009 con il nuovo cantante, il filippino Arnel Pineda. I cantanti precedenti sono stati Steve Perry e Greg Rolie! Pare che i fans siano contenti.

Come sono attualmente.

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Se era un problema di voce potevano prendere Alighiero Noschese o qualche concorrente di X-Factor.

Bruno Conti