Quindi Se Vuole Anche Lui Sa Fare Buona Musica! Ronnie Milsap – The Duets

ronnie milsap the duets

Ronnie Milsap – The Duets – Riser House CD

Ronnie Milsap, classe 1943, in America è una specie di leggenda della musica country. Cieco dalla nascita, dotato di una grande voce, Milsap è uno che nella sua lunghissima carriera ha venduto vagonate di dischi: non è mai stato un mio beniamino, in quanto ha sovente adattato la sua musica alle esigenze delle radio di settore, annacquando spesso la sua musica con sonorità pop ed abbondanti dosi di zucchero. Però Ronnie, dall’alto della sua esperienza, quando vuole è perfettamente in grado di fare musica seria e senza scendere più di tanto a compromessi, e lo dimostra appieno con questa sua ultima fatica, The Duets, che non è un’antologia di duetti ma un disco nuovo di zecca, un album fortemente voluto da Milsap che lo ha preparato con grande pazienza durante gli ultimi anni. E The Duets si rivela un buon disco, un lavoro che non deluderà neppure chi, come il sottoscritto, non ha mai amato particolarmente la proposta musicale di Milsap: Ronnie ha scelto di collaborare con un gruppo molto eterogeneo di colleghi, rivolgendosi anche ad artisti che normalmente operano al di fuori dell’ambito country: non tutti i partecipanti sono allo stesso livello, ma anche chi solitamente non gode di una reputazione (musicale) impeccabile qui fa di tutto per non deludere.

Il suono è convincente e piuttosto energico in quasi tutti i brani: Ronnie tiene a bada la melassa (solo qualche sviolinata qua e là, ma poca roba) e ci consegna quindi un lavoro che non sfigurerà in nessuna collezione che si rispetti. Già il primo duetto, Southern Boys And Detroit Wheels, è inatteso, in quanto il nostro interagisce con Billy Gibbons, ed il contrasto tra la voce baritonale di Ronnie e quella roca del barbuto texano è già un motivo di interesse, ma anche il brano, un country-rock dal deciso sapore southern, ritmato e potente, è di buon valore, ed è ulteriormente impreziosito dalla ruspante chitarra del leader degli ZZ Top. Stranger In My House, che vede la partecipazione di Luke Bryan, è introdotta da un bel piano elettrico, ed è un cadenzato e coinvolgente pezzo più sul versante errebi che su quello country, ma in ogni caso decisamente buono; Smoky Mountain Rain è una toccante ballata pianistica resa notevole dalla voce cristallina di Dolly Parton, un timbro che nonostante l’età non ha perso un grammo di purezza: con l’ingresso di Ronnie il suono prende corpo ed il brano decolla letteralmente.

Avere Jason Aldean all’interno di un proprio disco non è certo motivo di vanto, ma per fortuna l’album non è nelle mani del countryman georgiano, che deve solo limitarsi a cantare, e Prisoner Of The Highway è un robusto rockin’ country elettrico ancora dal marchio sudista, mentre Willie Nelson è in grado di nobilitare qualsiasi brano, e non si smentisce neppure con la lenta A Woman’s Love, un pezzo che senza Willie sarebbe rimasta una canzone normale (ma l’assolo di chitarra spagnoleggiante da parte di Sam Hunter è perfetto). E’ la volta di due brani con ospiti femminili, prima con il trio delle Lucy Angel (il delizioso slow di sapore sixties Happy Happy Birthday Baby) e poi con la brava Kacey Musgraves (l’ottimo soul-pop di No Getting Over Me, dal suono caldo e melodia gradevole); Lost In The Fifties è un altro pezzo squisitamente vintage (come da titolo), una ballatona romantica che vede la partecipazione dei Little Big Town, e che fa da apripista per Houston Solution, una country ballad che più classica non si può, con Ronnie che canta insieme ad un’altra leggenda del settore, ovvero George Strait.

What A Woman Can Mean To A Man è un lento elegante e leggermente jazzato, nel quale ci sarebbe stato benissimo ancora Willie Nelson, ma invece troviamo la giovane Jessie Key; Misery Loves Company, vecchio brano di Jerry Reed e reso popolare da Porter Wagoner, vede Milsap duettare con il grande Leon Russell (probabilmente in una delle sue ultimissime incisioni), una ballatona tra country, soul e gospel dal feeling enorme, una delle migliori del CD. Finale con Steven Curtis Chapman che presta la sua ugola per You’re Nobody (Till You Love Somebody), gradevole ma piuttosto nella media, e con il duo Montgomery Gentry (quindi prima che Troy Gentry morisse in un tragico incidente) nella robusta e roccata Shakey Ground, che i fiati colorano di soul-errebi. Non cambio la mia opinione artistica su Ronnie Milsap, ma nello stesso tempo riconosco che The Duets è un lavoro riuscito ed indubbiamente piacevole.

Marco Verdi

The Best Of 2018: Una Panoramica Da Siti E Riviste Musicali Internazionali, Parte II

110881-be-the-cowboy

Concludiamo, come promesso, la panoramica sui migliori album del 2018, estrapolati da una miriade di siti e riviste musicali, oltre che che da qualche celebre quotidiano internazionale. Come vi dicevo nel complesso anche quest’anno ho trovato queste classifiche sconcertanti, sempre per i miei gusti personali, visto che privilegiano certi tipi di musica che per il sottoscritto non sono entusiasmanti, e quindi ho preferito andare al contrario a pescare solo alcuni dei dischi presenti nelle varie liste, per segnalarveli. Per curiosità vi indico i tre dischi che in base alla somma dei punti delle suddette classifiche sono risultati i migliori dell’anno.

Al n°1 c’è il disco di Mitski Be A Cowboy, di cui fino a pochi giorni fa ignoravo l’esistenza, e che vedete effigiato all’inizio del Post. Si tratta di una cantautrice nippo-americana, nata in Giappone e che ha vissuto a lungo a New York, con altri quattro album al suo attivo, che incide per la etichetta indipendente Dead Oceans, casa anche, tra gli altri, di Phosphorescent, Tallest Man On Earth, Kevin Morby, Riley Walker Marlon Williams. Devo ammettere che il disco non è neppure male, forse nelle mie personali classifiche non rientrerebbe neppure nei primi cento posti, ma l’album è comunque molto piacevole, bella voce, arrangiamenti complessi ed eterei, canzoni che viaggiano sui milioni di visualizzazioni su YouTube, uno stile abbastanza particolare, presentato come Indie Rock, ma anche con riferimenti classici come Cat Stevens, i Kinks, Isao Tomita, la musica delle colonne sonore dei Toto, Nile Rodgers, I Massive Attack, oltre a colleghe come St. Vincent, o a icone del passato come Joni Mitchell e Stevie Nicks. O almeno questo è quanto dicono di lei. Giudicate voi. Al n°1 solo della classifica di Pitchfork, ma presente in ben 53 liste di fine anno.

102710-dirty-computer

Al n°2 della classifica virtuale troviamo Janelle Monae Dirty Computer, e qui devo dire che fatico a trovare di mio gradimento questo nu soul (preferisco quello “vecchio” e classico) con elementi di art pop, dance, hip-hop, funky e R&B, oltre alla musica di Prince. Nell’album come ospiti appaiono Brian Wilson (?!?) e Stevie Wonder. Al n°1 nelle liste di NPR Music, Associated Press, oltre che nella classifica del critico del New York Times Jon Pareles, nonché in altre 69! Un bel mah mi sale sentito dal cuore!

103203-golden-hour

E al n°3 troviamo Kacey Musgraves Golden Hour, di cui avete letto la recensione del collega Marco Verdi https://discoclub.myblog.it/2018/05/22/dal-country-al-pop-senza-passare-dal-via-kacey-musgraves-golden-hour/. Piacevole e gradevole, come potete leggere, ma anche con qualche calo qualitativo e francamente nei primi tre dell’anno non mi pare ci rientri. Anche se è la n°1 di American Songwriter, Entertainment Weekly, Stereogum, People, e presente in una cinquantina di altre liste

E adesso ecco una carrellata di album apparsi nelle oltre 115 liste di fine anno, dischi che anche in base sempre ai gusti personali del sottoscritto mi sembra giusto segnalarvi, pescando tra decine di uscite francamente inutili: alcuni di questi titoli apparsi pure su questo Blog, altri comunque validi ed interessanti, il tutto rigorosamente alla rinfusa.

102546-tell-me-how-you-really-feel

Courtney Barnett – Tell Me How You Really Feel. La musicista australiana che nel corso dell’anno ha pubblicato anche un disco in coppia con Kurt Vile.

108218-gods-favorite-customer

Father John Misty – God’s Favorite Customer

https://discoclub.myblog.it/2018/05/30/un-altro-ottimo-lavoro-per-il-reverendo-josh-father-john-misty-gods-favorite-customer/

96963-historian

Lucy Dacus – Historian Interessante secondo album per una nuova cantautrice americana, al primo posto nella classifica di fine anno di Paste.

116815-true-meanings

Paul Weller – True Meanings

119172-bottle-it-in-1

Kurt Vile – Bottle It In Oltre a quello con Courtney Barnett, anche un album da solo.

107617-noonday-dream

Ben Howard – Noonday Dream

 

117495-look-now

Elvis Costello & The Imposters – Look Now

https://discoclub.myblog.it/2018/10/26/laltro-elvis-un-ritorno-alla-forma-migliore-per-mr-mcmanus-il-disco-pop-dellanno-elvis-costello-the-imposters-look-now/

112377-the-tree

Lori McKenna – The Tree Uno dei dischi migliori dell’anno in ambito voci femminili, cantautrici classiche.

118471-high-water-i

Magpie Salute – High Water I

https://discoclub.myblog.it/2018/08/13/il-primo-disco-ufficiale-di-studio-ma-anche-il-precedente-non-era-per-niente-male-magpie-salute-heavy-water-i/

131799-the-radio-winners

Madisen Ward And The Mama Bear – The Radio Winners

117550-from-when-i-wake-the-want-is

Kathryn Joseph – From When I Wake The Want Is Altra interessante voce femminile.

126522-negative-capability

Marianne Faithfull – Negative Capability

https://discoclub.myblog.it/2018/11/09/di-nuovo-questa-splendida-settantenne-che-non-ha-ancora-finito-di-stupire-marianne-faithfull-negative-capability/

117908-among-the-ghosts

Lucero – Among The Ghosts

95543-by-the-way-i-forgive-you

Brandi Carlile – By The Way I Forgive You

103432-the-future-and-the-past

Nathalie Prass – The Future And The Past

116879-third

Nathan Salsburg – Third

99931-now-only

Mount Eerie – Now Only

96039-see-you-around

I’m With Her – See You Around Un piccolo dischetto veramente delizioso.

95638-open-here

Field Music – Open Here

104318-the-horizon-just-laughed

Damien Jurado – The Horizon Just Laughed

118718-the-eclipse-sessions

https://discoclub.myblog.it/2018/11/05/per-contratto-dischi-brutti-non-ne-fa-anzi-e-vero-il-contrario-john-hiatt-the-eclipse-sessions/

107463-sparrow

Ashley Monroe – Sparrow Oltre al disco con le Pistol Annies, due volte nelle classifiche di fine anno https://discoclub.myblog.it/2018/07/28/non-male-molto-raffinato-anche-se-di-country-se-ne-vede-poco-ashley-monroe-sparrow/

122251-the-big-bad-blues

Billy F. Gibbons – The Big Bad Blues E per finire una delle leggende del rock (blues)

https://discoclub.myblog.it/2018/10/10/bluesmen-a-tempo-determinato-parte-1-billy-f-gibbons-the-big-bad-blues/

Direi che per le classifiche internazionali di fine anno è tutto, magari qualcuno di questi dischi attirerà la vostra curiosità. Per concludere manca solo l’aggiunta finale alla mia lista dei preferiti e con il meglio del 2018 secondo Disco Club abbiamo finito.

Bruno Conti

Dal Country Al Pop Senza Passare Dal Via! Kacey Musgraves – Golden Hour

kacey musgraves golden hour

Kacey Musgraves – Golden Hour – MCA/Universal CD

Terzo album, quarto se contiamo il CD natalizio, per la cantautrice Kacey Musgraves, gran bella ragazza ma anche brava artista, che di lavoro in lavoro mostra indubbi segni di crescita: Golden Hour dovrebbe nelle sue intenzioni essere il disco della definitiva affermazione, dopo che Pageant Material nel 2015 aveva fatto drizzare le orecchie a molti https://discoclub.myblog.it/2015/09/18/ultimi-ripassi-fine-estate-bella-brava-texana-kacey-musgraves-pageant-material/ . E con questa sua nuova fatica  Kacey spariglia le carte in tavola e cambia quasi completamente genere: infatti se prima la sua musica poteva essere definita country di qualità, con più di un rimando a sonorità vintage, con questo album la bruna cantante texana si reinventa come pop singer, ma un pop non da classifica (tranne un paio di casi), ma dai suoni raffinati, ben costruiti e spesso anche intriganti. Certo, tutti i brani presenti sul disco sono adattissimi al passaggio in radio, ma nel 90% dei casi sono in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Gran parte del merito va ai due produttori, Daniel Tashian (leader dei Silver Seas) e Ian Fitchuck, che hanno costruito intorno alla bella voce della Musgraves il vestito sonoro giusto, con un piccolo ma misurato (e non invasivo) aiuto dell’elettronica, hanno scelto musicisti solitamente country (tra cui Dan Dugmore e Russ Pahl) adattando il loro sound a quello del disco.

Il resto lo ha fatto Kacey, che ha scritto in collaborazione con i due produttori una serie di canzoni molto piacevoli e le ha interpretate al meglio, riuscendo secondo me a non far pesare più di tanto il cambiamento stilistico. Slow Burn è un inizio attendista (come da titolo), una ballata di ampio respiro che parte solo con voce e chitarra, poi ad uno ad uno entrano tutti gli strumenti ed il suono si fa pieno ma non ridondante: di country non c’è nulla, ma piuttosto siamo nel pop di fine anni sessanta, tipo i primi Bee Gees. Niente male Lonely Weekend, una pop song solare, quasi californiana, dal refrain orecchiabile e cori che rimandano ai Fleetwood Mac classici https://www.youtube.com/watch?v=Zr3gscRpAhA , ed anche Butterflies prosegue il discorso, un brano semplice e ben costruito, con Kacey che canta benissimo e dimostra anche una certa classe (e l’accompagnamento a base di piano, chitarre e steel è perfetto). L’eterea Oh, What A World è affrontata dalla nostra con il consueto approccio gentile, e l’arrangiamento pop le dona particolarmente, mentre Mother è bellissima, una toccante ballata pianistica che però dura poco più di un minuto; anche Love Is A Wild Thing non è da meno, un intenso slow acustico (spunta anche un banjo), che dopo la prima strofa acquista ritmo anche se sempre all’insegna della leggerezza.

Space Cowboy, ancora lenta e meditata, è un’altra ballata di gran classe, Happy & Sad è dotata di uno dei migliori ritornelli del CD, mentre Velvet Elvis è fin troppo radio friendly per i miei gusti, ma comunque non da buttare. Wonder Woman è tersa, limpida e solare, ed anche qui sulla melodia niente da dire, ma High Horse è l’unico pezzo veramente da pollice verso, un misto tra pop e dance piuttosto indigesto che andrebbe bene per Madonna o Taylor Swift, e che non rende giustizia a Kacey. Per fortuna sul finale il CD torna su lidi più vicini ai nostri gusti, con la fluida e raffinata Golden Hour https://www.youtube.com/watch?v=maONL_HfI20  e la bella Rainbow, solo voce e piano ma con una notevole carica emotiva. Forse non arrivo ad affermare che la Kacey Musgraves in versione pop mi piaccia di più di quella country, ma di certo la bella cantante con Golden Hour per il momento è rimasta più o meno dalla parte giusta della città.

Marco Verdi

Un Gradito Ritorno Alle Loro Atmosfere Più Consone. Zac Brown Band – Welcome Home

zac brown band welcome home

Zac Brown Band – Welcome Home – Southern Ground/Elektra CD

L’ultimo album della Zac Brown Band, Jekyll + Hyde (2015), pur avendo venduto molto, ha rappresentato una grande delusione per parecchi fans della prima ora del gruppo, in quanto, accanto alla consueta miscela di rock, country e musica del Sud, trovavano spazio anche i generi più disparati come pop, hard rock (con la presenza anche di Chris Cornell, a proposito R.I.P. Chris, non eri la mia “cup of tea”, ma la tua scomparsa non mi ha lasciato indifferente), reggae ed addirittura musica dance elettronica: un pasticcio stilistico che aveva fatto temere ai più che, in nome della fama e delle vendite, avessimo perso per strada un altro musicista di talento. Zac deve però essersi ravveduto, in quanto questo suo nuovo disco, dal rassicurante titolo di Welcome Home (ed anche la copertina fa pensare al meglio) è un vero e proprio ritorno alle sonorità grazie alle quali il nostro si è creato un nome, un country-rock dal sapore sudista, con accenni di soul e gospel, e che ci aveva portato dischi molto belli come The Foundation, You Get What You Give ed il live Pass The Jar, oltre alla raccolta di successi http://discoclub.myblog.it/2014/12/14/country-zac-brown-band-greatest-hits-so-far/

Intanto alla produzione troviamo l’uomo del momento, cioè Dave Cobb, uno che sta facendo passare come un fannullone anche Joe Bonamassa, che riporta Brown e soci nel giusto alveo, con sonorità magari un filo più “rotonde” e radio friendly, ma senza l’uso di computer, sintetizzatori, drum machines e diavolerie varie, e dando un sapore leggermente più country del solito, anche se stiamo parlando di un country robusto e suonato con il piglio da rock band da Zac e compagni, gli inseparabili Coy Bowles, Clay Cook, Daniel De Los Reyes, Matt Mangano, Jimmy De Martini, Chris Fryar e John Driskell Hopkins, che creano un vero e proprio muro del suono perfetto per le canzoni del leader, che in questo disco tornano ad essere ai livelli dei dischi citati sopra, e superiori quindi anche a quelle del discreto, ma non imprescindibile, Uncaged. Già l’iniziale Roots promette bene: introdotta da uno splendido pianoforte, vede poi l’entrata prepotente della sezione ritmica subito seguita dalla voce di Zac che intona un motivo molto interessante, con un crescendo elettrico e potente che trasforma il brano in una luccicante e tonica rock ballad. Real Thing è un’ottima rock song corale e dalla strumentazione molto ricca ma non ridondante (Cobb sa il fatto suo), con uno spirito soul che aleggia qua e là, spirito che si fa più concreto nella fluida Long Haul, altra canzone piena di suoni “giusti”, cantata benissimo e con una melodia decisamente vincente, un’altra conferma del fatto che la vera Zac Brown Band è tornata tra noi.

La tenue Two Places At One Time è più country, quasi bucolica, un brano vibrante che cresce ascolto dopo ascolto fino a diventare uno dei migliori, Family Table è sudista al 100%, sembra un incrocio tra la Charile Daniels Band e la Marshall Tucker Band più country, un pezzo terso e godibile, mentre My Old Man è un delicato e toccante bozzetto acustico che Zac ha dedicato a suo padre. Start Over è diversa, almeno per lo stile dei nostri, in quanto è una vera e propria Mexican song con un tocco anni sessanta, un brano molto carino che però ricorda più i Mavericks che la ZBB; la bella Your Majesty è caratterizzata da un’altra melodia diretta e vincente, un potenziale singolo, mentre Trying To Drive, ancora molto southern e suonata alla grande (e con la seconda voce femminile di Aslyn Mitchell, che è anche co-autrice del pezzo), va messa anch’essa tra le più riuscite, ed è perfetta per essere rifatta dal vivo (ed infatti era già presente su Pass The Jar, ma la versione in studio mancava all’appello). Il CD si conclude con l’unica cover, All The Best, uno splendido brano di John Prine (era sul bellissimo The Missing Years del 1991, uno dei migliori album del baffuto cantautore), riletto in maniera rispettosa ma personale allo stesso tempo, con l’aiuto della doppia voce di Kacey Musgraves.

Un bel disco, che ci fa ritrovare un gruppo che, personalmente, avevo dato in grave crisi creativa, se non proprio per perso.

Marco Verdi

Recuperi Di Fine Stagione: Un Altro Album Di Duetti, Molto Meglio Del Primo! John Prine – For Better, Or Worse

john prine for better, or worse

John Prine – For Better, Or Worse – Oh Boy CD

Sono sempre stato un grande estimatore di John Prine, uno dei più brillanti cantautori americani degli ultimi quaranta anni che, ad inizio carriera, ha pagato oltremisura il fatto di essere stato inserito dai media nella categoria dei “nuovi Dylan”, una specie di bacio della morte per gli artisti in questione (penso ad Elliott Murphy, Steve Forbert o Dirk Hamilton *NDB Anche Sammy Walker, che forse era quello che assomigliava di più al vecchio Bob) al quale l’unico ad essere sopravvissuto alla grande (nel senso di aver avuto successo di pubblico e commerciale) è stato Bruce Springsteen. Prine ha comunque sempre proseguito per la sua strada, costruendosi un bello zoccolo duro di fans, con il sue stile pacato ma profondamente ironico, e la sua capacità di scrivere grande canzoni con pochi accordi, attingendo al suo background folk e country. Ma John non è mai stato considerato un country artist vero e proprio, i suoi dischi andavano oltre le categorizzazioni (The Missing Years del 1991, uno dei suoi lavori più belli in assoluto, era invero abbastanza rock): il primo disco totalmente country John lo ha pubblicato nel 1999, In Spite Of Ourselves, un album nel quale collaborava con una serie di colleghe ed amiche, nella più pura tradizione dei duetti country tra uomo e donna (ed i brani erano tutte covers di classici). In Spite Of Ourselves era un buon disco, ma a mio parere non un grande disco: mancava la scintilla, la zampata, ed i duetti erano più o meno proposti in maniera scolastica e senza guizzi particolari, rendendo l’album un esercizio alla lunga abbastanza sterile.

A distanza di diciassette anni Prine decide di dare un seguito a quel disco, ma For Better, Or Worse è tutta un’altra cosa: c’è più passione, più convinzione, ed anche più feeling, e le alchimie fra John e le sue partners funzionano alla grande, facendo di questo album uno dei migliori country records dell’anno (e ve lo dice uno che non ama alla follia i dischi di duetti). Prine è in buona forma, la voce è diventata più fragile, un po’ per l’età ma anche per i seri problemi di salute che ha avuto (pare superati al meglio), ma la differenza la fanno proprio le performances delle cantanti invitate a far parte del progetto, tra l’altro in numero maggiore rispetto al precedente episodio (undici contro nove, e con solo due di loro in comune nei due dischi: Iris DeMent e la moglie Fiona Prine). Di nuovo il repertorio è costituito da covers (l’ultimo album di Prine con canzoni nuove risale ormai al 2005, il peraltro bellissimo Fair & Square), e John è assistito alla produzione dal veterano Jim Rooney, e con un’ottima band, che comprende tra gli altri il fedele (a John) chitarrista Jason Wilber, il noto steel guitarist Al Perkins e l’ottimo pianista Pete Wasner, un gruppo con un suono molto classico e discreto, senza interventi sopra le righe, anche perché giustamente le protagoniste del disco sono le voci di John e delle sue colleghe.

Il CD si apre con Who’s Gonna Take The Garbage Out, in origine un duetto tra Ernest Tubb e Loretta Lynn, proprio con la DeMent ospite (perché non proprio la Lynn invece? Dopotutto è ancora viva ed in ottima forma), una country song pimpante e fresca, con un bel contrasto tra la voce limpida di Iris e quella segnata dal tempo di John. Storms Never Last è un brano di Jessi Colter la cui versione originale era proposta con il marito Waylon Jennings: qui c’è Lee Ann Womack, ed il pezzo, una western ballad coi fiocchi, è riletta in maniera molto pacata dal duo. La tenue Falling In Love Again (Don Williams) vede la brava Alison Krauss al microfono, che impreziosisce la dolcissima melodia con il suo timbro cristallino; Color Of The Blues, di George Jones, è il capolavoro del disco, uno scintillante honky-tonk con una splendida Susan Tedeschi, che si adatta invero in maniera straordinaria ad un genere che non è il suo, al punto che mi viene da chiedermi come sarebbe tutto un disco country da parte sua. La brava Holly Williams si alterna con John nella frizzante e godibile I’m Tellin’ You, uno swing d’altri tempi che originariamente era cantato da sua nonna, Audrey Williams, moglie del grande Hank. Remember Me (Scott Wiseman) vede l’intervento di Kathy Mattea, una delle voci più belle tra quelle coinvolte nel progetto, per un brano malinconico e molto cantautorale, ma dal pathos notevole, mentre Look At Us, con Morgane Stapleton (moglie di Chris), è un honky-tonk che più classico non si può, anche se forse è il pezzo più recente tra quelli presenti, essendo parte del songbook di Vince Gill.

Dim Lights, Thick Smoke And Loud, Loud Music, pezzo che ha avuto decine di versioni, da Flatt & Scruggs a Dwight Yoakam (qui c’è Amanda Shires, l’attuale signora Isbell) , è ancora gustosa e swingata, una delle più mosse del CD, e molto bella è anche Fifteen Years Ago (Conway Twitty), ancora con la Womack protagonista. Cold Cold Heart è la canzone più famosa tra quelle presenti, essendo uno dei superclassici di Hank Williams, e John la interpreta in maniera rigorosa in compagnia di Miranda Lambert; anche Dreaming My Dreams è molto nota, una ballata tra le più belle di Waylon Jennings, con ancora la brava Kathy Mattea ad alternarsi con Prine. Kacey Musgraves è una delle country-rockers più dinamiche tra le emergenti del panorama attuale, e la vivace Mental Cruelty, di Buck Owens, è perfetta per lei, mentre Mr. & Mrs. Used To Be, ancora di Tubb & Lynn ed ancora con Iris DeMent, è un altro country tune terso e profondamente melodico, con un eccellente Wasner al piano. Il CD si conclude con la fluida My Happiness (Jim Reeves), nella quale John è raggiunto dalla moglie Fiona (che non è una cantante professionista ma se la cava egregiamente), e con Just Waitin’, un pezzo tra i meno noti di Hank Williams, che vede John chiudere in solitudine, con un talkin’ ironico che sembra più un brano suo che un classico del grande Hank.

Se In Spite Of Ourselves non vi aveva convinto del tutto, fate vostro senza problemi questo For Better, Or Worse, è tutta un’altra cosa. Adesso però mi piacerebbe rivedere John Prine alle prese con un album composto interamente da lui.

Marco Verdi

Ultimi Ripassi Di Fine Estate: Bella, Brava E …Texana! Kacey Musgraves – Pageant Material

kacey musgraves pageant material

Kacey Musgraves – Pageant Material – Mercury Nashville CD

Uno dei molteplici successi da Top Ten della carriera di Rod Stewart (e che in seguito ha dato il titolo ad una antologia a lui dedicata) si intitolava Some Guys Have All The Luck, e se questa frase certo si adatta benissimo al buon Rod, di sicuro è valida anche per molte ragazze. Una di queste è sicuramente la country singer Kacey Musgraves che, oltre a vantare una splendida presenza fisica (andate su Google Immagini e capirete), è texana ( cosa che in campo musicale sappiamo essere un punto di vantaggio), ha una bella voce e, da quando ha firmato per la divisione di Nashville della Mercury (i suoi album precedenti, autodistribuiti, sono pressoché introvabili) ha portato due album su due, compreso quello di cui mi accingo a parlare, in testa alla Country Top 100 di Billboard. Kacey però non è una pop star mascherata da cantante country come va di moda ora dalle parti di Nashville e, anche se i due produttori che si è scelta per il nuovo lavoro (Luke Laird e Shane McAnally) hanno in curriculum “gentaglia” del calibro di Lady Antebellum, The Band Perry, Reba McEntire e Carrie Underwood (non ce l’ho con loro, ma il country sta da un’altra parte), la nostra, da buona texana, ha saputo tenere in mano le redini.

Pageant Material è un disco di ballate d’altri tempi, suonate e cantate in modo raffinato ma senza eccessi di zucchero (un mezzo miracolo di questi tempi), con una serie di sessionmen di prim’ordine (ad esempio, la steel guitar, grande protagonista del disco, è suonata dal noto Nashville Cat Paul Franklin, (frequente collaboratore anche di Mark Knopfler) e con i due produttori che, oltre a scrivere con Kacey tutti i brani, intervengono con mano leggera ma sapiente. La Musgraves non è la tipica texana tutta grinta, chitarre e ritmo, anche perché le sue influenze sono classiche e tutte al femminile, dalla capostipite Patsy Cline fino alle famose honky tonk angels Dolly Parton, Loretta Lynn e Tammy Wynette (replicate talvolta anche nel look, con le cotonature tipiche di quegli anni): Pageant Material è dunque un disco di piacevole ascolto, che mostra che le doti di Kacey non riguardano solo l’aspetto.High Time inquadra benissimo lo stile della Musgraves, una country song d’altri tempi, cantata in maniera gentile e dominata dalla steel, con una sezione d’archi non invadente. Con Dime Store Cowgirl siamo più ai giorni nostri, una canzone pulsante, orecchiabile e dal buon ritmo; la delicata Late To The Party ha un retrogusto pop, ma è arrangiata con gusto e si lascia ascoltare con piacere (e la voce limpida di Kacey è uno dei suoi punti di forza).

La title track ha ancora un piede negli anni sessanta, ed è dotata di una melodia per nulla banale, This Town ha un’aria blues che non credevo fosse nelle corde della ragazza, mentre la vivace Biscuits, tra country e bluegrass, ha uno splendido ritornello corale ed è una delle più riuscite. Somebody To Love è una deliziosa ballad semiacustica molto classica (e qui sento echi della reginetta del genere negli anni settanta, cioè Linda Ronstadt), mentre la tenue Miserable ha un’aria malinconica; Die Fun e Family Is Family sono due riempitivi, comunque gradevoli. L’album (prima della sorpresa finale) si chiude con il buon uptempo di Good Ol’ Boys Club, dal refrain evocativo, la bucolica e solare Cup Of Tea e la languida e romantica Fine. Finito? No: dopo pochi secondi abbiamo una ghost track, una versione molto riuscita di Are You Sure?, un pezzo non molto noto di Willie Nelson (un valzerone tipico dei suoi) che, sorpresa, vede la partecipazione proprio di Willie stesso, con l’inconfondibile Trigger e la sua voce da brividi, una partecipazione che, nonostante la bravura di Kacey, fa salire di non poco la temperatura del CD. Un dischetto piacevole e ben confezionato, anche se per il futuro non disdegnerei una maggior dose di rock.

Marco Verdi