Il Texano Stavolta Ha Fatto Fiasco! Granger Smith – Country Things

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Granger Smith – Country Things – Wheelhouse/BMG CD

E’ già da qualche anno che seguo il cammino di Granger Smith, countryman texano di Dallas autore dall’inizio del nuovo millennio di una manciata di discreti album: niente di particolarmente innovativo, ma una musica di buona qualità caratterizzata da una valida scrittura e da un approccio sufficientemente elettrico, con in più una giusta dose di umorismo che lo ha portato a crearsi un alter ego, tale Earl Dibbles Jr., che è un po’ la parodia del cowboy “redneck” reazionario. Da qualche anno Smith ha iniziato anche ad assaporare un certo successo (i suoi ultimi due lavori sono entrati nella Top Three country), e questo lo ha portato a prendere la via di Nashville, non solo fisicamente ma anche come suono https://discoclub.myblog.it/2018/02/06/country-texano-buona-musica-non-sempre-granger-smith-when-the-good-guys-win/ .

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Country Things è il suo nuovo album, un lavoro lungo e, almeno sulla carta, ambizioso, ben diciotto canzoni per quasi un’ora di durata, con uno stuolo interminabile di sessionmen al suo servizio e ben sette produttori diversi. Un’operazione in grande stile quindi, peccato che però il risultato finale si allontani abbastanza dal vero country che piace a noi, e si posizioni in quella fascia di mercato rivolta all’americano medio che si accontenta di un pop annacquato che di country ha molto poco. Il suono è moderno e fin troppo ricercato quando non eccessivamente prodotto, ed anche i testi sono piuttosto stereotipati (famiglia, buoni sentimenti, Dio, il baseball, allegre bevute di birra ed un Messico da cartolina in Mexico): non siamo ai livelli delle schifezze di uno come Keith Urban solo perché qualche canzone piacevole c’è, ma siamo comunque di fronte al classico disco che, una volta ultimato l’ascolto, non ti lascia nulla.

photo jeremy cowart

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La title track è una country song pura ed abbastanza riuscita, bella voce e ritmo spedito https://www.youtube.com/watch?v=PamhiCVQeJE , Where I Get It From e Buy The Boy A Baseball sono orecchiabili e ben strutturate, ma brani come Hate You Like A Love You, I Kill Spiders, That’s What Love Looks Like e 6 String Stories https://www.youtube.com/watch?v=q2bSu04fszQ  sono decisamente pop, ed anche il finto southern Chevys, Hemis, Yotas & Fords non è il massimo https://www.youtube.com/watch?v=4X1EqzwZqqo . Perfino i cinque brani a nome Earl Dibbles Jr., che solitamente sono i più diretti e “texani”, qui sono altalenanti: se la robusta Country & Ya Know It ha dalla sua un refrain contagioso https://www.youtube.com/watch?v=qafB86EEfj0 , Workaholic è proprio brutta https://www.youtube.com/watch?v=9124xd6Rw1o  e la dura Diesel è tagliata con l’accetta. Peccato: fino ad oggi il nome di Granger Smith era sinonimo di musica country equilibrata e piacevole, ma in Country Things c’è davvero poco da salvare.

Marco Verdi

Un Bel Disco Country? Ma Anche No! Denny Strickland – California Dreamin’

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Denny Strickland – California Dramin’ – Red Star CD

Mi è successo più volte di iniziare l’ascolto di un CD senza particolari aspettative e ritrovarmi poi entusiasta della musica in esso contenuta, ma anche il caso opposto, cioè riporre fiducia in un particolare album che però poi si rivela una delusione. Il disco d’esordio (dopo un paio di singoli) del countryman dell’Arkansas Denny Strickland, intitolato California Dreamin’, rispecchia purtroppo la seconda ipotesi: avevo iniziato infatti l’ascolto di questo lavoro ben disposto e rassicurato dalla faccia del nostro stampata in copertina, che mi trasmetteva un non so che di autentico, unito al fatto che il CD è uscito per una piccola etichetta, ma ho dovuto ricredermi dopo appena un paio di canzoni. Nonostante non incida (ancora) per una major, Strickland è infatti uno di quei cantanti che sono country solo all’apparenza, ma con un suono decisamente radiofonico e molto più vicino al pop nashvilliano, ed in più con un fastidioso uso di programming e sintetizzatori vari. Denny è in possesso di una discreta voce, ed inoltre è l’autore di gran parte delle dieci canzoni del disco, ma il risultato finale è comunque deludente, almeno per chi come il sottoscritto ama la musica country vera e non quella plastificata e senza un minimo di anima.

Già il pezzo iniziale, California Dreamin’ (nulla a che vedere con il classico dei The Mamas & The Papas) mi lascia un po’ perplesso, a causa di sonorità un po’ troppo “rotonde” e poco country, oltre che piuttosto ridondanti nel ritornello. Stesso discorso per Whatever, che come ballata non sarebbe neanche male, ma risulta un tantino sovraprodotta e pronta per le radio più commerciali; Slo Mo è gradevole, ha un buon sviluppo melodico e le sonorità sono sotto controllo, ma Don’t You Wanna è abbastanza qualunque, e nettamente più pop che country. Proseguo nell’ascolto, nonostante abbia già capito dove vada a parare questo CD, che non si avvicina a brutture assolute come i dischi di Keith Urban ma resta ben distante dal tipo di musica che prediligo: We Don’t Sleep è pasticciata e con un inutile uso di synth, Damn Babe dovrebbe essere un rockin’ country di stampo simil-sudista, ma fallisce miseramente in mezzo a suoni beceri, Gimme Some Of That non ha nulla per cui valga la pena essere evidenziata. Inutile citare i pochi brani rimasti (fortunatamente l’album dura solo 33 minuti): anche la bonus track, versione acustica della conclusiva Close My Eyes, suona posticcia e senza un minimo di inventiva (sembra quasi la stessa take alla quale hanno tolto gli altri strumenti).

Pollice verso.

Marco Verdi

Sempre Dall’Australia, Una “Libellula” Di Prima Grandezza. Kasey Chambers – Dragonfly

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Kasey Chambers – Dragonfly – Warner Music Australia – 2 CD

Da quando è tornata “signorina” Kasey Chambers (con il suo ex marito Shane Nicholson aveva inciso due ottimi lavori Rattlin’ Bones (08) e Wreck & Ruin (12)), non sbaglia più un colpo. A distanza di due anni da Bittersweet, al solito puntualmente recensito su queste pagine, ritorna con questo nuovo Dragonfly, il suo undicesimo album di studio, composto da venti canzoni suddivise in due CD, e con la particolarità che i due dischetti sono prodotti,  il primo dal noto cantautore Paul Kelly (abituale cliente di questo blog), e il secondo dal fratello Nash Chambers, il tutto ulteriormente valorizzato dalla partecipazione come ospiti in vari  “duetti” di artisti noti, come lo stesso Kelly, Foy Vance, Ed Sheeran, Keith Urban, e i meno noti Harry Hookey, Grizzlee Train, oltre alle immancabili coriste Vika e Linda Bull.

Questo nuovo lavoro, Dragonfly, quindi prosegue sulle certezze del passato, e il primo battito d’ali avviene con le Sing Sing sessions. Prodotte, come detto, da Paul Kelly, con l’iniziale Pompeii che è la perfetta introduzione con il suono tradizionale del banjo a guidare la melodia; pezzo a cui fanno seguito una splendida ballata come Ain’t No Little Girl dove Kasey dà il meglio di se stessa, come pure nelle dolci note di violino che accompagnano la bella Summer Pillow, e ancora nel country-gospel di Golden Rails, e nella cantilena sussurrata di Jonestown. Con Romeo & Juliet (chiariamo subito che non è quella famosa dei Dire Straits) arriva il primo duetto, con il cantautore irlandese Foy Vance (musicista di cui abbiamo parlato in occasione dello splendido Live At Bangor Abbey), con un abbrivio solo voce, poi la canzone si sviluppa in una ballata che profuma di Irlanda, ed è seguita da una scanzonata e spiritosa Talkin’ Baby Blues, dalla grintosa You Ain’t Worth Suffering For, mentre Behind The Eyes Of Henri Young è un raffinato e delizioso brano acustico, che prelude alla chiusura del primo disco con la ritmata Hey (in duetto con il grande Paul Kelly), e alla tensioni roots-rock di This Is Gonna Be A Long Year, dove la Chambers si riscopre  “rockeuse”.

Il secondo battito d’ali di questo doppio è affidato alle Foggy Mountains Sessions:si parte con il moderno “spiritual” Shackle & Chain, dove un coro quasi da antica piantagione ricorda le profonde tradizioni del sud, mentre la title track Dragonfly è sicuramente il momento più cool e raffinato del disco, seguita dalla rumorosa e intrigante If I Died, dal duetto con Ed Sheeran in una autoironica canzoncina country-pop come Satellite, per poi tornare alla danza quasi popolare di No Ordinary Man con Harry Hookey e le sempre brave sorelle Bull, e ad una dolce e raffinata If We Had A Child con Keith Urban, che fortunatamente per l’occasione è meno “tamarro” del solito. Ci si avvia alla conclusione con il “modern folk” di una galoppante Annabelle, il talk-blues di The Devil’s Wheel con gli emergenti australiani Grizzlee Train, e, infine riproposta in una versione simil “lounge” Ain’t No Little Girl, perfetta da cantare nel famoso The Irish Times Pub di Melbourne.

Kasey Chambers è una stella di prima grandezza del continente Australiano (anche questo disco è arrivato al n°1 delle classifiche down under), fin dal suo esordio con The Captain ed il successo planetario del suo secondo album Barricades & Brickwalls, che vendette più di 7 milioni di copie, avendo comunque buoni riscontri di critica e l’apprezzamento manifestato da molti colleghi, e soprattutto la stima e l’affetto crescente del suo pubblico (anche se per chi scrive sia in parte uno svantaggio il suo passaporto australiano), continua a sfornare ottimi dischi come questo Dragonfly, dove il sound, grazie alle produzioni citate, è semplicemente perfetto, con tracce sia di pop-rock quanto di tradizione (con una vocalità squillante alla Patsy Cline), cosa che farebbe la fortuna di molte altre sue colleghe. Peccato che i suoi dischi non siano facili da reperire e piuttosto costosi per noi europei.

La Chambers non è  mai stata e non sarà mai la Lucinda Williams australiana (troppo alta l’asticella da superare, per chi scrive), ma il suo talento la rende una musicista inconfondibile e anche a distanza di anni, la pone ancora una spanna sopra la media. Accattivante, piacevole e talora struggente!

Tino Montanari

Un Disco Buono Per Un Nuovo Sport: Il Lancio Del CD. Nel Mercato Sottostante! Keith Urban – Ripcord

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Keith Urban – Ripcord – Capitol Nashville CD

Al mondo ci sono molti uomini fortunati (si potrebbe poi filosofeggiare su chi di essi si merita la fortuna e chi no), e tra di loro ce ne sono alcuni più fortunati di altri. Prendete ad esempio Keith Urban, countryman australiano trapiantato in America, che, oltre ad avere avuto un occhio di riguardo da madre natura, tutte le sere quando torna a casa trova Nicole Kidman ad aspettarlo. Poi c’è l’aspetto musicale, e anche lì non si scherza, in quanto ci troviamo di fronte ad uno dei musicisti più di successo nel mondo del country (e non solo), con sei dei suoi otto album pubblicati finora (dopo una partenza in sordina negli anni novanta) ad essere approdati o al primo posto in classifica o al secondo quando le cose sono andate male.

*NDB Questa volta è arrivato solo al n°4 nelle classifiche, ma n°1 in Australia e in quelle country (ma dove?!?). Ho inserito i video, ma li ascoltate a vostro rischio e pericolo!

Oggi Urban più che un musicista è un brand (un po’ quello che era David Beckham nel mondo del calcio), con una militanza come giudice nella versione americana di American Idol ed una linea di chitarre che portano la sua firma (se non altro è uno che alla sei corde ci sa fare, a differenza di molti colleghi che la usano solo per fare le fotografie): siamo dunque arrivati ad un livello tale di popolarità che la qualità della musica da lui proposta è quasi una cosa di secondo piano, tanto i suoi dischi vendono comunque a palate. Io però ho il compito di giudicare, e nello specifico sto parlando del suo nuovo album (il nono), intitolato Ripcord: diciamo tanto per cominciare che verso quelli come Urban sono un po’ prevenuto, in quanto di solito la musica da loro proposta di country ha ormai poco, ma è decisamente imparentata con quel soft pop che a Nashville va per la maggiore, una musica finta ed un po’ plastificata che gli amanti del vero country non vedono di buon occhio; in aggiunta, prima ancora dell’ascolto del CD i miei dubbi sono aumentati, in quanto Ripcord vede in azione ben sette produttori diversi (e questo di solito è sintomo di gran confusione), ben quattro sessionmen ai sintetizzatori (anche se tra i musicisti c’è pure il poderoso bassista rock Pino Palladino, già nel John Mayer Trio e nella live band degli Who), e tra gli ospiti la famosa, bella ma di poco talento Carrie Underwood, ma soprattutto il famigerato Nile Rodgers (ex Chic) ed il rapper Pitbull (?!?) insieme in un brano.

Se poi aggiungiamo che in sede di promozione questo album è stato definito il più sperimentale da quelli pubblicati da Keith finora, allora i miei dubbi si sono tramutati in puro terrore. I primi secondi di Gone Tomorrow (Here Today), con un bel strimpellare di banjo, sembrano promettere bene, ma è forse l’unico momento ascoltabile di tutto il CD, in quanto il brano prende subito una brutta piega, trasformandosi all’istante in un synth-pop con ritmica quasi dance, una porcheria in pratica. John Cougar, John Deere, John 3:16, bel titolo a parte, è da denuncia (e se fossi Mellencamp farei partire immediatamente una querela), il ritornello sarebbe anche orecchiabile ma l’arrangiamento è quanto di più finto possa esistere https://www.youtube.com/watch?v=Gdu8M2val_w , ed anche Wasted Time non migliora le cose, anzi se possibile le peggiora: canzone pessima, plastificata, insignificante, buona per chi di musica non capisce una mazza, il vero “tempo sprecato” del titolo è quello riservato all’ascolto di questo brano. Ed il pezzo con Rodgers ed il rapper? Una vera tragedia, avrei voglia di mettermi a piangere, ma tutto il disco è su questo livello, musicaccia fatta con i piedi (The Fighter, il duetto con la Underwood, è imbarazzante, pura pop-dance per ragazzini imberbi, roba che neanche gli One Direction).

E’ perfettamente inutile proseguire: non ho mai gettato un CD dalla finestra, ma questa volta sono fortemente tentato dal farlo.

Marco Verdi

30 Anni Di Carriera Come…Jimmy Barnes – Hindsight

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Jimmy Barnes – Hindsight – Provogue/Edel

Jimmy Barnes è uno dei più bravi, longevi e popolari musicisti australiani, non necessariamente nell’ordine. Volendo non è neppure veramente australiano, in quanto è nato a Glasgow in Scozia nel 1956, però essendosi trasferito con la sua famiglia ad Adelaide nel 1961 lo possiamo certamente considerare un prodotto della scena down under. Il più popolare e di successo lo è certamente, con 27 album nei Top 40, nove numeri 1, di cui 14 con i Cold Chisel e 13 come solista. Come molti sapranno l’album originale si intitola 30:30 Hindsight, in quanto il doppio album uscito in Australia (ma ne esiste anche una versione Deluxe tripla di cui potete leggere i 40 brani, qui sotto) contiene 30 brani che festeggiano 30 anni di carriera solista, quindi niente Cold Chisel.

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E qui sta in parte il suo limite perché quel gruppo forse, anzi sicuramente, rappresenta quanto di meglio, in ambito musicale, Barnes abbia prodotto: il sottoscritto in particolare lo ha conosciuto grazie a quel bellissimo doppio album dal vivo, Swingshift, uscito nel 1982, che, oltre al meglio della loro produzione fino a quel momento, conteneva, tra le tante, anche due versioni strepitose di Long As I Can See The Light e Knockin’ On Heaven’s Door https://www.youtube.com/watch?v=JnlciLtRR7U , oltre alle loro Conversations e Khe Sanh, per ricordare un paio dei rockers più intemerati. James Dixon Swan, Jimmy Barnes per tutti, nel 1984 ha iniziato anche una carriera solista, senza tralasciare parecchie rimpatriate con il suo gruppo, mai definitivamente sciolto: il primo album solo, Bodyswerve, è un esempio tipico della dicotomia che è sempre stata presente nella musica di Barnes. Un amore per una sorta di pub rock, con ampie venature soul e R&B, mescolato ad un hard rock sguaiato e tamarro, ai limiti dell’AOR meno nobile, che peraltro non gli ha mai consentito di entrare nei primi 100 posti delle classifiche di Billboard: quindi anche se sembrerebbe difficile trovare degli album validi dal profilo qualitativo, al di là di quella voce stentorea e potente, sempre usata ai limiti, nella sua discografia non è difficile viceversa trovarne, oltre alle singole canzoni, nel giudizio di chi scrive, alcuni dischi notevoli ci sono, a partire dall’ottimo Soul Deep, Flesh And Wood, Soul Deeper, The Rhythm And The Blues, oltre a parecchi dischi dal vivo.

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Questo disco nuovo, nella versione europea (dove è ancora meno famoso che negli USA) esce in una versione singola ristretta, e ci presenta alcuni dei suoi maggiori successi rivisitati, in nuove versioni, quasi tutte sotto forma di duetto. Comunque il CD, che manco a dirlo è andato direttamente al primo posto delle classifiche australiane https://www.youtube.com/watch?v=imZlx0K6wO4 , è abbastanza piacevole, si lascia ascoltare e può essere propedeutico per fare la conoscenza di questo ottimo rocker, anche se i dischi da avere sono all’incirca quelli che vi ho citato e a meno che non siate dei fans sfegatati, per cui forse avrete già la versione tripla di questo album. Per tutti gli altri, il disco si apre con una energica versione di Lay Down Your Guns, dove Barnes accompagnato dai Living End, terzetto influenzato dagli Stray Cats, quanto dal punk, dai Clash come dalla colonna sonora di Rock Around The Clock, provvede a “deliziarci” subito con il suo rock ad alta componente di ottani, reiterato in Time Will Tell con i Baby Animals, altra band australiana hard a guida femminile, l’energia non manca, ma giusto quella. Good Times, con Keith Urban (Mr. Nicole Kidman) è un eccellente brano rock che permette a Barnes di sfoderare tutta la sua potenza vocale, in una canzone che potrebbe ricordare Mellencamp quando si faceva chiamare ancora Cougar, ottima. Anche Ride The Night Away, con l’aiuto di Little Steven, è un efficace esempio di rock classico, con l’aggiunta dei fiati a rafforzare la grinta del brano e un ficcante assolo di Mr. Van Zandt, sembra quasi un vecchio pezzo di Bruce https://www.youtube.com/watch?v=fIxkej2fR_U

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Affare di famiglia per Stand Up, con Mahalia Barnes+The Soul Mates che ci presentano il lato più rock’n’soul di Barnes, uno dei suoi migliori https://www.youtube.com/watch?v=PU9vr0qYUi8 , non male anche I’d Die To Be With You con i bravi Diesel, sempre dal lato “giusto” del Rock https://www.youtube.com/watch?v=mYaRHhZ64yc , e pure Stone Cold, con Tina Arena, che praticamente non si sente, è un bel soul blues lento, con l’immancabile Joe Bonamassa, ispiratissimo alla solista, grande versione https://www.youtube.com/watch?v=D99LZg18OWg . Accoppiata rock per Working Class Man, ballatona mid-tempo di buona qualità con Jonathan Cain e Ian Moss, vecchio socio nei Cold Chisel, alla solista https://www.youtube.com/watch?v=jzWHwjfS8E0  e in Going Down Alone, con i Journey, quasi bluesata https://www.youtube.com/watch?v=QJNKeHIkuo4 . Durissima Love And Hate con i neozelandesi Shihad e sempre piacevole No Second Prize, versione 2014, marginali gli altri pezzi, a parte un altro piacevole duetto con il cantante country-roots Aussie Troy Cassar-Daley, in The Other Kind. Nell’insieme meglio di quello che pensavo e va a completare, come promesso, il trittico delle uscite australiane

Bruno Conti

Buddy Guy Non Lascia, Anzi Raddoppia! Il 30 Luglio Compie 77 Anni E Pubblica “Rhythm & Blues”.

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Buddy Guy – Rhythm And Blues – 2CD RCA – 30-07-2013

Nel 2010 l’ultimo album di studio di Buddy Guy, Living Proof, ha vinto il Grammy come miglior disco di Blues Contemporaneo. Questo di per sé è un segnale, ma non un marchio di garanzia assoluta, perché nel corso degli anni la statuetta è stata assegnata anche un po’ a casaccio ad album e gruppi che nulla c’entravano con il genere per cui venivano premiati, penso ai Jethro Tull miglior gruppo Heavy Metal!, o a dischi “veramente brutti” come avrebbe detto Fiorello/La Russa. Non è il caso di Guy che di Grammy ne ha vinti 6, meritatamente, nella sua carriera. Naturalmente per non smentire la sua fama il nostro amico Buddy, subito dopo, ad inizio 2013, ha pubblicato un CD, Live At Legends, registrato al suo famoso club di Chicago, con solo 7 pezzi dal vivo e tre brani in studio tratti dalle sessions di Living Proof. Non che fosse brutto, tutt’altro, ma se considerate che i concerti di Buddy Guy prevedono tutta una ritualità di gigionerie, dialoghi con il pubblico, numeri di acrobazia solistica e tutto il repertorio del grande performer, non rendeva neanche lontanamente l’idea di un musicista che ha praticamente “inventato” la chitarra rock nel Blues. Chiedete a Jeff Beck, Eric Clapton, Keith Richards o, se fosse possibile, ai compianti Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan dove hanno preso il loro armamentario di soli, riff, feedback, invenzioni pirotecniche alla chitarra e la risposta sarebbe. “B.G:”!

Ai puristi si arricciano i capelli (come quelli di Jimi), Marshall Chess ai tempi non gli ha fatto un incidere un disco, usandolo “solo” come chitarrista nei dischi di Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Walter e Koko Taylor, ma l’eco dei suoi concerti è stata pari all’effetto che ha avuto il 1° album dei Velvet Underground su qualche decina di migliaia di gruppi che sono nati negli anni a venire. Il British Blues Revival, il blues-rock e la nascita del power-trio, almeno per la quota chitarra solista, devono sicuramente molto a questo istrionico signore, che non ha mai avuto un riscontro discografico pari alla sua bravura, anche se nel corso degli anni ha pubblicato fior di dischi, da Hoodoo Man Blues con la band di Junior Wells, suo litigioso partner per moltissimi anni a A Man And The Blues primo album per la Vanguard nel 1968, passando per il super classico Buddy Guy & Junior Wells Plays The Blue del 1972, lo strepitoso Stone Crazy per la Alligator del 1981 e “rinascite” varie, come i pluridecorati Damn Right I’ve Got The Blues (quanto è vero!) e Feels Like Rain, fino ad arrivare alla nuova partnership con il grande batterista (e produttore e autore) Tom Hambridge, che prima con Skin Deep del 2008 (dove suonavano Clapton, Tedeschi & Derek Trucks, Robert Randolph) e il successivo Living Proof ha fatto sì che vivesse la sua sesta o settima vita artistica.

Perché Buddy Guy è un artista, non solo un artigiano del Blues, una delle ultime Leggende, non solo del Chicago Blues a cui spesso viene accostato. Questo nuovo doppio Rhythm And Blues ribadisce la grande classe di questo musicista e lo fa con 21 nuovi pezzi, quasi tutti scritti da Hambridge (con vari pard, tra i quali lo stesso Guy) che hanno la statura di piccoli classici, sembrano brani blues familiari, già sentiti, e in questo caso è inteso come un complimento, ravvivati da una piccola ed usuale pattuglia di ospiti, quasi sempre presente nei dischi dell’artista di Lettsworth, Lousiana, suonati come Dio comanda da un gruppo di musicisti guidati da Tom Hambridge, che ancora una volta si conferma un piccolo Re Mida del (Rhythm) & Blues, il suo tocco dà vita a questa canzoni, perché possono dire quel cazzo che vogliono ma un buon produttore è già metà dell’opera, aggiungigli dei musicisti come David Grissom, Reese Wynans, Tommy McDonald, i redivivi Muscle Shoal Horns ed il gioco è fatto.

Kid Rock (e Keith Urban) ce li potevano risparmiare, ma il primo serviva per il gioco di parole con Messìn’ With The Kid, una delle due cover scritte da Mel London, l’altra è Poison Ivy posta in chiusura. Buddy Guy (e la sua chitarra) hanno ancora una grinta incredibile come dimostrano brani come la pirotecnica Justifyin?, il duetto spaziale con una sempre più lanciata (e incredibile) Beth Hart in una poderosa What You Gonna Do About Me dove Guy risponde colpo su colpo, il duetto con Gary Clark Jr. nella scoppiettante Blues Don’t Care e con 3/5 degli Aerosmith (Tyler, Perry & Whitford) nella “cattivissima” Evil Twin. Fiati e voci femminili arricchiscono il sound, il giochetto del primo disco Rhythm ed il secondo Blues non c’entra molto con i contenuti che si dividono equamente tra i due stili, e tanto rock, con la chitarra che viene strapazzata, con slide e senza, con wah-wah e pura e semplice, accarezzata o lancinante, sempre entusiasmante. Esce il 30 luglio, lo stesso giorno in cui Buddy Guy compirà 77 anni. Quindi Buddy non lascia, ma raddoppia!

Uno dei dischi Blues(rock) dell’anno. Semplicemente consigliato!  

Bruno Conti    

Sempre Le Stesse Canzoni…Ma Che Belle! – John Fogerty – Wrote A Song For Everyone

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John Fogerty – Wrote A Song For Everyone – Vanguard Records

Recentemente, parlando delle ultime ristampe di Jeff Lynne, ho coniato il termine “barrel bottom scratching” (letteralmente: grattare il fondo del barile), espressione che si potrebbe applicare anche per l’ultima parte della carriera di John Cameron Fogerty. L’ex Creedence infatti negli ultimi dieci anni ha pubblicato solo due dischi di canzoni nuove (Deja Vu (All Over Again), 2004, ottimo, e Revival, 2007, buono ma meno riuscito), un’antologia, due DVD dal vivo ed un disco di covers (lo splendido The Blue Ridge Rangers Rides Again).

Pochi brani nuovi dunque e, nell’antologia e nei due album live, un po’ sempre le stesse vecchie canzoni: in più, ora esce finalmente questo Wrote A Song For Everyone (finalmente perché era già dato in uscita lo scorso ottobre, con una copertina diversa da quella attuale, poi John ha pensato bene di lavorarci ancora un po’ e di aggiungere delle canzoni), un album auto celebrativo nel quale il nostro ripercorre alcune tappe fondamentali della sua carriera insieme ad una lunga lista di ospiti. Ancora le stesse canzoni dunque? Beh…sì, ed in più proposte in duetto con altri cantanti (raramente ho vibrato per un disco di duetti, di solito c’è sempre qualche episodio che abbassa il valore complessivo dell’opera), quindi un alto rischio per John di esporsi a critiche non proprio benevole.

Ebbene, Wrote A Song For Everyone si rivela invece essere un grandissimo disco: pochi al mondo possono vantare un songbook come quello di Fogerty, ed in più la scelta di riarrangiare alcuni brani su misura per l’ospite di turno si rivela vincente, dando nuova linfa a canzoni ormai ben fisse nella storia della musica (ci sono però anche due brani nuovi di zecca). Non dico che queste versioni siano superiori agli originali, ma (quasi) tutte le collaborazioni danno nuova vitalità ai brani, e John si trova particolarmente a suo agio, con in più l’ottimo stato della sua voce, ancora limpida e forte a dispetto dell’età.

La house band è formata da Bob Malone al piano, David Santos al basso, il grandissimo Kenny Aronoff alla batteria, oltre naturalmente a Fogerty alla chitarra.

Apre il disco la vigorosa Fortunate Son, nella quale John si fa accompagnare dai Foo Fighters di Dave Grohl: versione tosta, potente, quasi hard, perfetta per la band dell’ex Nirvana, ma nella quale anche Fogerty ci sguazza che è un piacere (e poi dal punto di vista della voce tra i due non c’è proprio paragone…meglio Grohl!…scherzo…).

La gioiosa Almost Saturday Night (con Keith Urban) è meno rock e più country dell’originale, ma mantiene intatta la sua melodia solare, ed Urban, oltre ad avere la fortuna di trovare tutte le volte che rientra a casa Nicole Kidman ad aspettarlo, ha anche una gran bella voce.

Lodi vede John cantare da solo, in quanto qui gli ospiti sono i figli Shane e Tyler, che suonano la chitarra ma non cantano: una versione più rock’n’roll dell’originale, che però non riserva grandi sorprese.

Mystic Highway è uno dei due brani nuovi presenti, con John che canta ancora in perfetta solitudine: una canzone tipica, con quell’andamento tra rock e country presente in molti suoi pezzi, una melodia solare e coinvolgente ed un bell’intermezzo sul finale per sole voci.

La title track è uno dei pezzi forti del disco: già l’originale era uno dei miei cinque brani preferiti dei Creedence, e qui la scelta della brava Miranda Lambert è più che azzeccata, il contrasto tra le due voci è perfetto, e poi c’è anche un assolo davvero strepitoso di Tom Morello che fa salire decisamente la temperatura. L’originale dei Creedence era forse più drammatica, ma qui siamo davvero solo un gradino sotto.

Bad Moon Rising ha il suono della Zac Brown Band, e indovinate chi è l’ospite? Esatto: la Zac Brown Band! Grande canzone e grande versione, tra country e southern.

Long As I Can See The Light è un’altra grande ballata di John, qui accompagnato dai My Morning Jacket: Jim James e soci se la cavano benissimo in queste situazioni (il tributo a Levon Helm lo dimostra), e John lascia loro quasi la piena luce dei riflettori, intervenendo solo alla terza strofa.

Kid Rock non è certo un fenomeno, e quasi ce la fa a rovinare la splendida Born On The Bayou: per fortuna c’è John che riesce a limitare i danni (ma invitare un altro, che so, John Hiatt, no?).

Train Of Fools è il secondo brano nuovo: un rock blues annerito, con Fogerty che lavora di slide, una canzone forse non memorabile ma che non sfigura affatto.

La bella Someday Never Comes (il singolo finale dei Creedence) vede John accompagnato dai Dawes, buona versione, molto aderente all’originale, mentre con Who’ll Stop The Rain, che vede la partecipazione di Bob Seger, abbiamo il capolavoro dell’album.

Già il brano è uno dei migliori dei Creedence (forse IL migliore), e poi Seger è uno dei grandissimi: la canzone viene arrangiata alla maniera di Bob (ricorda quasi Against The Wind), ed il barbuto rocker di Detroit giganteggia a tal punto da mettere in ombra anche Fogerty, il che è tutto dire.

(NDM: non mi dispiacerebbe un disco simile anche da parte di Seger, con Bob che rilegge i suoi brani storici accompagnato da una serie di ospiti, e John che gli rende il favore, magari proprio con Against The Wind).

Hot Rod Heart è il brano più recente di quelli riletti nel disco, un rock’n’roll irresistibile con Brad Paisley che duetta sia alla voce che alla chitarra con John, mentre Have You Ever Seen The Rain? è un’altra delle grandi canzoni di Fogerty, che qui coinvolge Alan Jackson e la sua band: versione rilassata, molto più country dell’originale, ma sempre bellissima.

Chiude l’album, e non poteva essere altrimenti, la celeberrima Proud Mary, con Allen Toussaint & Rebirth Brass Band e soprattutto la grande voce di Jennifer Hudson: arrangiamento metà gospel e metà cajun, dal ritmo irresisitibile, con John che si mantiene quasi nelle retrovie per lasciare spazio alla strepitosa ugola della Hudson, una vera forza della natura.

Fine di un grande disco: se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, ho notato l’assenza di Bruce Springsteen, che in passato ha duettato più di una volta con Fogerty (Rockin’ All Over The World sarebbe stata una scelta perfetta).

Ma sono quisquilie: Wrote A Song For Everyone è un album imperdibile.

Adesso però voglio un disco di canzoni nuove.

Marco Verdi