Che Cosa Fa Un Hippy A Nashville? Un Grande Disco! Jonathan Wilson – Dixie Blur

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Jonathan Wilson – Dixie Blur – Bella Union CD

Il secondo album di Jonathan Wilson, Fanfare https://discoclub.myblog.it/2013/12/14/recuperi-fine-anno-parte-4-jonathan-wilson-fanfare/  (seguito del positivo esordio Gentle Spirit https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ ), era stato per il sottoscritto il disco dell’anno 2013, un lavoro tra i più perfetti da me ascoltati nell’ultima decade, risultato di una miscela strepitosa di rock, folk, psichedelia e Laurel Canyon Sound: se i dischi potessero avere figli, il padre di Fanfare poteva senz’altro essere il mitico esordio solista di David Crosby If I Could Only Remember My Name. Jonathan era tornato tra noi nel 2018 con Rare Birds, un album spiazzante che sembrava invece ispirarsi alle sonorità techno-pop degli anni ottanta, anche se qualche traccia del Wilson che conoscevamo era rimasta: va bene l’idea di cambiare suono (il terzo disco di solito è il più difficile per un artista), ma le scelte di Jonathan mi avevano abbastanza deluso, anche se in questo blog la si pensava diversamente https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/il-gabbiano-jonathan-vola-sempre-alto-jonathan-wilson-rare-birds/ .

La curiosità su ciò che avrebbe fatto Wilson dopo Rare Birds era tanta, e sinceramente non mi aspettavo di trovarmi tra le mani un suo nuovo lavoro dopo solo due anni; Jonathan ha seguito il consiglio dell’amico Pat Sansone (membro dei Wilco) di andare a registrare le sue nuove canzoni a Nashville, insieme ad una crew di professionisti di gran nome (Russ Pahl, Mark O’Connor, Kenny Vaughan, Dennis Crouch, Drew Erickson, oltre allo stesso Sansone che ha prodotto le sessions): il risultato è Dixie Blur, un lavoro splendido che ci fa ritrovare il Wilson di Fanfare, con una serie di composizioni di prima qualità valorizzate da un suono spettacolare e da una serie di soluzioni strumentali da applausi. Dixie Blur inizia in pratica da dove Fanfare finiva, ma se là il suono ricordava appunto il rock “cosmico” californiano dei primi anni settanta, qua l’ispirazione trae spunto sempre dall’interno del Golden State ma più indirizzata verso un sound country-rock che all’epoca potevamo ascoltare nei dischi dei Byrds di fine carriera, dei Flying Burrito Brothers e dei New Riders Of The Purple Sage. Registrato nello Studio A del mitico Sound Emporium (che era di proprietà di Cowboy Jack Clement), Dixie Blur non è però un album country, anche se il country è presente in dosi massicce, ma piuttosto un lavoro di American Music a 360 gradi che mescola alla grande la visione cosmica da moderno hippy che ha Wilson della musica ed un background sonoro di altissimo livello suonato da alcuni tra i migliori sessionmen di Nashville, e che alla fine risulta ancora più immediato e fruibile di Fanfare.

Just For Love (unica cover presente, un pezzo di Dino Valenti title track del quarto album dei Quicksilver Messenger Service) inizia più o meno nel mood del disco del 2013, con sonorità raffinate ed eteree grazie anche all’uso del flauto come strumento solista ed un motivo di fondo rilassato ed affascinante: pochi minuti e Rare Birds è già un ricordo. 69 Corvette ha una intro strumentale molto evocativa a base di chitarra acustica, piano e steel, e Jonathan canta quasi sussurrando una melodia profonda e toccante, subito doppiato dallo splendido violino di O’Connor: canzone malinconica ma bellissima, con pathos a mille. Anche New Home è una ballata dal passo lento, con Wilson avvolto da un suono crepuscolare dominato da piano, mellotron e la magnifica steel di Pahl, ma sul finale inizia un crescendo sonoro splendido e di grande impatto emotivo. So Alive velocizza il ritmo e ci porta in territori country & western, ancora con il violino protagonista e con il nostro che intona un motivo decisamente intrigante circondato da sonorità molto roots; anche meglio In Heaven Making Love, una sorta di bluegrass elettrico dal ritmo vertiginoso e ricco di swing, con una melodia irresistibile che rimanda agli anni cinquanta: il CD sta mutando suono a poco a poco, quasi come se Wilson si avvicinasse prograssivamente dal Laurel Canyon a Nashville.

Un pianoforte struggente introduce la lenta Oh Girl, altra ballata dallo sviluppo splendido, un accompagnamento avvolgente ed un leggero gusto pop; Pirate è ancora uno slow, ma non ci si annoia per niente in quanto la strumentazione aggiunge sempre quel quid in più a canzoni già belle di loro: qui per esempio abbiamo una delle melodie più belle di tutto il CD. Enemies è un brano arioso, quasi maestoso e dall’arrangiamento “spectoriano”, caratterizzato da un refrain vocale di impatto notevole, Fun For The Masses è invece una ballatona intensa con piano e steel ancora in primo piano ed un suono che sembra provenire da un qualsiasi album californiano del triennio 1970-72, mentre Platform ha un’introduzione chitarristica che ricorda Everybody’s Talkin’, ma il resto è puro Wilson, stile “cantautore al crepuscolo” con tracce di Gram Parsons. Riding The Blinds è l’ennesima ballata toccante e bellissima, con la band che offre un accompagnamento perfetto ed una tensione emotiva molto alta, e con uno spettacolare cambio di tempo nella seconda parte quando il pezzo si trasforma in uno strepitoso country-rock per poi chiudersi come era iniziato: grande canzone. Finale con El Camino Real, puro e travolgente bluegrass elettroacustico con O’Connor formidabile (tra le più dirette del CD), la languida e soave country ballad a tempo di valzer Golden Apples e la sontuosa Korean Tea, sostenuta dal piano e da una bella chitarra spagnoleggiante.

Non so se Dixie Blur bisserà l’exploit di Fanfare nella mia personale classifica di fine anno, ma di sicuro sarà difficile per me lasciarlo fuori dalla top ten.

Marco Verdi

Toh, Chi Si Rivede: Un Altro Disco Che (Quasi) Non C’è! Jeff Black – A Walk In The Sun

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Jeff Black – A Walk In The Sun – Lotos Nile Music – Download + Streaming

Torna, dopo sei anni di assenza  https://discoclub.myblog.it/2014/04/28/cantastorie-la-chitarra-altro-jeff-black-folklore/ uno dei miei cantautori preferiti Jeff Black, un tipo che è sempre rimasto ai margini del panorama musicale, e che ora torna con un lavoro intimo e profondo, degno della sua lunga carriera iniziata con l’album d’esordio Birmingham Road (98) che vi consiglio vivamente, se non ne siete in possesso e si trovasse, di recuperare. Per questo ritorno il buon Jeff ha fatto le cose in grande, convocando in vari studi di Nashville, sotto la sua produzione, un manipolo di “players” di alto livello a cominciare da Sam Bush al violino e mandolino, Jerry Douglas alla lap steel, Jerry Roe alla batteria e percussioni, il fratello Dave Roe al basso, e il bravo Kenny Vaughan (Lucinda Williams, di cui a fine Aprile uscirà il nuovo disco Good Souls Better Angels), alla chitarra acustica e elettrica, per una decina di brani e una quarantina di minuti, come al solito di ottima musica cantautorale.

Il “cammino sotto i raggi del sole” inizia subito alla grande con Needed The Rain, un tipico brano dotato di una bella melodia di fondo (merito di Sam Bush e Jerry Douglas), a cui fanno seguito una Stumbling che sembra rubata dai CD del non dimenticato Bruce Hornsby, con il piano e la sezione ritmica che dettano il ritmo, e una “ballad” acustica, pianistica e notturna come la sognante Until I Learn How To Fly. Il “cammino” prosegue con Machine dove emerge la parte più rock di Black, con un arrangiamento potente con le chitarre e la batteria in spolvero, per poi tornare subito alla pianistica e rilassata Satisfied, forse il brano migliore del lavoro, una ballata sontuosa dove anima e cuore vanno a braccetto, mentre la successiva Calliope Song inizia sulle note del mandolino di Sam Bush, poi nel percorso entrano il violino e la lap-steel di Jerry Douglas, e diventa una musica che mischia il “country” e la canzone d’autore, per poi proseguire con una How To Save The World, un’altra ballata che durerà a lungo nel vostro cuore, musica potente, la solita voce solida, cantata alla grandissima. Il cammino volge alla fine con la lenta e introspettiva The End, basata in particolar modo sul suono degli strumenti a corda, che ci consegna un Jeff Black più cantautore e meno rocker, con il sottile “fingerpicking” alla Bruce Cockburn di un’elegante The Best I Cant Do, e finire in crescendo con un’altra “rock-song” malinconica e pulsante come Always On My Way Back Home, che chiude degnamente un disco splendido, merce molto rara di questi tempi.

Dopo i fasti dei dischi iniziali (direi fino all’ottimo Tin Lily (05), Jeff Black è diventato uno di quegli artisti “fantasma”, come era successo con i dischi di Willy T.Massey, Doc Lawrence, Michael McDermott (che però negli ultimi anni è tornato alla grandissima), ora invece con l’uscita di A Walk In The Sun e anche del precedente Folkore (14) Black ha rimesso le cose a posto, dando nuovamente prova del suo talento e della sua personalità, continuando ad essere sé stesso nello sviluppare la sua musica. Devo ammettere che ero disposto a prescindere dal parlare bene di questo nuovo lavoro, ma solo per il piacere di farlo, in quanto comunque speravo di sentire un disco con le coordinate e i riferimenti del periodo iniziale, e così è stato, in quanto A Walk In The Sun emoziona ed affascina, dovete prenderlo con dolcezza, adagiarlo nel lettore (se trovate il CD) e lasciare che vi conquisti.

*NDT: Come al solito però purtroppo il CD è autodistribuito, costoso, e di difficile reperibilità, venduto solo sul sito http://www.jeffblack.com/ , ma con spese di spedizione esorbitanti (10 dollari il dischetto e altri 20 per l’invio dagli USA, almeno per noi italiani).

Tino Montanari

Lo Avevo Quasi Dato Per Disperso! Kevin Welch – Dust Devil

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Kevin Welch – Dust Devil – Dead Reckoning CD

L’ultima volta che Kevin Welch aveva pubblicato un disco (A Patch Of Blue Sky, 2010), il sottoscritto non collaborava ancora a questo blog. Eppure c’era stato un momento all’inizio degli anni novanta che il musicista californiano sembrava una delle “next big things” del cantautorato americano: l’omonimo esordio Kevin Welch (1990) era già molto bello, anche se ancora decisamente country, ma il seguente Western Beat era stato per chi scrive uno dei dischi più belli del 1992, uno splendido album di puro rockin’ country a stelle e strisce, in cui Joe Ely incontrava idealmente John Prine. Life Down Here On Earth (1995) era ancora un lavoro di grande livello, ma i due seguenti, Beneath My Wheels (1999) e Millionaire (2001), pur validi, erano qualche gradino sotto; la scorsa decade Kevin l’ha poi dedicata alla collaborazione con Kieran Kane (e Fats Kaplin), due album di studio ed uno dal vivo, ed è tornato appunto nel 2010 con il già citato A Patch Of Blue Sky, un passo avanti rispetto a Millionaire.

Otto anni di silenzio assoluto, ed ora finalmente Welch ritorna tra noi con Dust Devil (uscito lo scorso Ottobre, ma piuttosto difficile da trovare), un album di puro cantautorato in cui non solo il nostro dimostra di non aver perso il tocco, ma addirittura ci consegna il suo disco migliore da Life Down Here On Earth in avanti. Persona gentile e modesta (ve lo posso confermare dato che ho avuto la fortuna di viaggiarci a fianco durante un volo Milano-Atlanta proprio nel 2010, io per lavoro e lui tornava a casa da una breve tournée italiana: cortese, disponibilissimo, zero atteggiamenti da star, perfino onorato e stupito del fatto che lo avessi riconosciuto), Kevin è uno che non ha mai voluto fare il salto quando avrebbe anche potuto, ma ha scelto di fare la sua musica con i suoi amici, nel modo più rilassato possibile, senza pressioni. E, come dicevo, in Dust Devil, di ottima musica ce n’è a iosa: otto brani originali e due cover, Welch ispiratissimo ed una backing band davvero da leccarsi i baffi, che comprende il già citato Fats Kaplin al mandolino, steel, violino e banjo, Glenn Worf al basso, Harry Stinson alla batteria, il grande Matt Rollings al piano ed organo ed il chitarrista Kenny Vaughan, leader dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, oltre ai backing vocals di Eliza Gilkyson e dei figli di Kevin, Dustin e Savannah Welch (quest’ultima di professione attrice e ragazza bellissima, cercate le sue foto su Google e ne converrete con me).

La cadenzata Blue Lonesome apre bene il CD, un brano suadente e caratterizzato da un insistente riff di mandolino ed un ritmo crescente, con gli strumenti che a poco a poco si inseriscono fino a dare al pezzo un suono pieno e corposo (c’è anche un sax), il tutto per sei minuti di durata. Just Because It Was A Dream è una bellissima e toccante ballata dal sapore anni sessanta, leggermente country e cantata con grande intensità da Kevin, The Girl In The Seashell è una struggente slow song pianistica dalla melodia deliziosa, suonata in punta di dita e con un languido violino che sa d’Irlanda, mentre High Heeled Shoes è la cover di un vecchissimo brano del Kingston Trio, ripreso con uno squisito arrangiamento dixieland, con tanto di clarinetto e batteria spazzolata: grande classe. Splendida Brother John, una rock song elettrica dal ritmo quasi marziale, un motivo evocativo ed emozionante ed un tappeto strumentale dominato da chitarre (ottimo l’assolo di Vaughan) e fiati; Dandelion Girl è una ballatona che Kevin canta con il consueto approccio pacato, mentre intorno a lui il gruppo cuce un vestito sonoro perfetto, con la batteria in levare e la solita bella chitarra. Anche True Morning è tenue e limpida, una country ballad dal motivo molto diretto, cantato sempre con voce espressiva ed un delizioso sapore d’altri tempi, mentre Sweet Allis Chalmers è la rilettura di un pezzo dei Country Gazette, musicalmente spoglia ma dall’indubbio pathos, con il piano di Rollings che guida la melodia. Siamo quasi alla fine, il tempo per l’avvolgente A Flower, intenso talkin’ di stampo western, e per la folkeggiante title track (con un bell’intervento di corno francese, molto The Band), che chiude positivamente un disco pieno di belle canzoni.

Kevin Welch è finalmente tornato tra noi, e Dust Devil merita ampiamente lo sforzo per accaparrarselo.

Marco Verdi

Ma Anderson East Ha Un Fratello Gemello? Sam Lewis – Loversity

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Sam Lewis – Loversity – Sam Lewis CD

Sam Lewis è l’esempio vivente di come si possa vivere a Nashville e nello stesso tempo fare una musica non direttamente influenzata dall’ambiente che ti circonda. Spostatosi nel 2009 da Knoxville alla Music City del Tennessee in cerca di maggiori opportunità, Lewis ha inciso due album (più uno pre-Nashville, oggi introvabile), dei quali Waiting On You del 2015 si è fatto notare da più parti per la solidità del songwriting e per la sua miscela di influenze, che andavano dal country al soul. Ora esce il suo nuovo lavoro (in effetti è uscito maggio), dal titolo di Loversity, e Sam lascia da parte qualsiasi elemento di matrice roots e country, per proporci una stimolante miscela di soul ed errebi, con reminiscenze dei classici del genere, una serie di canzoni scritte benissimo e suonate ancora meglio da un manipolo di nashvilliani doc (Kenny Vaughan e Dan Cohen alle chitarre, Matt Coker  al piano ed organo, JT Cure al basso, Derek Mixon alla batteria, più una piccola sezione fiati), con la produzione di Brandon Bell.

Ed il disco è una vera sorpresa, uno scintillante album di vero blue-eyed soul, con Sam che dimostra di avere una bella voce “nera” ed un senso della melodia non comune: il genere è molto vicino a quello di Anderson East, e se Delilah è comunque di un livello superiore, Loversity non vale certo meno di Encore. Che Nashville sia solo la città dove il nostro risiede lo capiamo già da When Come The Morning, un limpido e gradevole esempio di puro white soul: bella voce, accompagnamento caldo a base di chitarre, piano elettrico e organo ed un’ottima melodia. Con Natural Disaster (una delle due cover del CD, è di Loudon Wainwright) il disco cambia leggermente registro, in quanto ci troviamo di fronte ad una vibrante rock song elettrica, dal bellissimo e prolungato intro di chitarra elettrica alla Neil Young, ma quando Sam inizia a cantare ci si sposta ancora verso il soul, merito anche della sua voce annerita (ma le chitarre continuano a ricamare sullo sfondo).

Great Ideas, introdotta da una bella slide, è uno splendido e solare errebi, davvero sorprendente in quanto sembra Johnny Rivers che canta un brano di Dan Penn: da godere dalla prima all’ultima nota; la title track è un altro pezzo a metà tra rock e soul, colorato da una sezione fiati, un coro femminile che dona un tocco gospel ed ancora un ottimo lavoro chitarristico, bellissima anche questa (sembra uscita da un vinile targato Atlantic dei primi anni settanta).Do It ha un leggero sapore funky, che la rende godibile ed immediata, ma Accidental Harmony (un brano del songwriter John Mann) è strepitosa, e non ho paura di venire deriso se dico che per un attimo mi è sembrato di sentire un inedito del grande Sam Cooke, con un motivo splendido e cantato magnificamente; deliziosa pure Talk About It, perfetta soul song dalla melodia diretta, suonata con grande classe.

Everything’s Going To Be Different mantiene lo stesso stile con un approccio più laidback, e gli strumenti ricamano con bravura dando un sapore squisitamente vintage. Some People è uno slow pieno d’anima, caldo ed intenso (sembra uscita dai FAME Studios), The Only One ha elementi blues al suo interno ed ottime parti di chitarra, Everything (Isn’t Everything) è fluida, distesa, e sembra provenire ancora dal passato. Il CD, un’ora di durata, volge al termine, ma c’è ancora tempo per One And The Same, puro soul, neanche tanto blue-eyed, la sensuale Living Easy, ennesimo pezzo dalla linea melodica deliziosa, per finire con la lunga (sette minuti) Little Too Much, altra canzone che mostra una classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=WOqPRu3Hxr4 , e che conclude al meglio un disco splendido e stupefacente.

Marco Verdi

Probabilmente Il Suo “Capolavoro”! Marty Stuart – Way Out West

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Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – Way Out West – Superlatone CD

La carriera di Marty Stuart è sempre stata legata a doppio filo a quella di Johnny Cash, a partire dai primi anni ottanta nei quali era il chitarrista della backing band dell’Uomo in Nero (e sposò pure una delle sue figlie, Cindy, anche se i due divorziarono dopo soli cinque anni). Poi Marty lasciò questo incarico, che comunque era servito ad insegnargli più di un segreto del mestiere, per intraprendere una remunerativa carriera solista all’insegna di un country molto energico, sulla falsariga di gente come Dwight Yoakam e Travis Tritt (con il quale incise più di un duetto). Poi, all’inizio del nuovo secolo (e dopo aver dato alle stampe il bellissimo concept The Pilgrim nel 1999), Marty fondò i Fabulous Superlatives, una band formidabile in grado di suonare qualsiasi cosa (formata da Kenny Vaughan alla chitarra, Chris Scruggs al basso e Harry Stinson alla batteria), ed iniziò a pubblicare una serie di dischi nei quali recuperava mirabilmente il vero suono country delle origini, opportunamente rivitalizzato dal suono tosto del suo nuovo gruppo, veri e propri dischi a tema che si rifacevano direttamente ai lavori che Cash sfornava negli anni sessanta, tra brani originali e qualche cover. Ecco quindi CD che parlavano degli indiani d’America (Badlands), altri costruiti intorno alla figura quasi mitologica del treno (Ghost Train), oppure album di puro country-gospel (Souls Chapel), tutte tematiche affrontate a suo tempo anche dal suo ex suocero.

Mancava forse un disco che affrontava il tema del vecchio west, mancanza oggi riparata con questo nuovissimo Way Out West, altro concept che, tra brani strumentali e cantati (quasi tutti originali, ci sono solo due cover e neppure così scontate), ci consegna un Marty Stuart in forma più che smagliante, che forse mette a punto il suo disco più bello ed intenso, grazie anche ad importanti novità dal punto di vista del suono. Infatti Way Out West non è solo un lavoro di country & western, ma per la prima volta Marty ed i suoi si cimentano anche con sonorità decisamente più rock, traendo ispirazione dal suono della California dei primi anni settanta (ed anche la copertina sembra quella di un album di quel periodo), tra Byrds, Flying Burrito Brothers e persino un tocco di psichedelia in puro stile Laurel Canyon. Il merito va senz’altro alla scelta vincente di avvalersi di Mike Campbell, chitarrista degli Heartbreakers di Tom Petty, come produttore e musicista aggiunto, il quale ha portato la sua esperienza di rocker all’interno del disco, fondendola in maniera splendida con le atmosfere decisamente western e desertiche create da Marty, e dando vita ad un album bello, stimolante e creativo, e che forse apre una nuova porta nella carriera di Stuart. Il CD si apre con un breve strumentale intitolato Desert Prayer, molto evocativo e con un canto indiano in sottofondo, che sfocia nella strepitosa Mojave, un western tune ancora strumentale, con echi di Ennio Morricone e Hank Marvin, chitarre a manetta e sezione ritmica subito in tiro.

Lost On The Desert è un vecchio brano poco conosciuto di Cash (ma non l’ha scritta lui), un valzerone classico ma suonato con piglio da rock band (si sente lo zampino di Campbell), davvero godibile, mentre Way Out West è il brano centrale del CD, e non solo perché gli dà il titolo (è anche il più lungo): inizio rarefatto, quasi alla Grateful Dead, poi entra la voce di Marty che un po’ parla e un po’ canta, mentre le chitarre ricamano di fino sullo sfondo, un pezzo country nelle tematiche ma decisamente rock nella struttura musicale. El Fantasma Del Toro è un altro strumentale guidato da una bella steel e da una chitarra flamenco, un tipo di brano che mi aspetterei di ascoltare in un western diretto da Quentin Tarantino; la delicata Old Mexico vede il ritorno di atmosfere country più canoniche, ed anche qui si nota che Marty è uno dei fuoriclasse del genere, un brano ancora figlio di Cash ma con l’imprimatur di Stuart, mentre Time Don’t Wait è uno scintillante folk-rock che ha il suono di Tom Petty: in questo disco Marty osa decisamente di più, e con risultati egregi.

Quicksand, ancora senza testo, ha un’andatura marziale e le solite grandi chitarre, Air Mail Special è la seconda cover, ed è il classico brano che non ti aspetti: infatti si tratta di un vecchio standard jazz (scritto da Benny Goodman e reso popolare da Ella Fitzgerald), ma il nostro lo trasforma in uno scatenato rockabilly, suonato alla velocità della luce. Torpedo, ennesimo strumentale, è ancora tra rock e surf music, eseguito al solito magistralmente, Please Don’t Say Goodbye è ancora decisamente bella, con la sua atmosfera d’altri tempi (quasi alla Chris Isaak) ed un quartetto d’archi che dona ulteriore spessore, mentre Whole Lotta Highway è un altro limpido folk-rock, orecchiabile, diretto e vibrante. Il CD si chiude con una ripresa vocale a cappella di Desert Prayer, con la fluida Wait For The Morning, ancora con echi di Tom Petty (ma stavolta quello più balladeer), ed una fantastica coda strumentale che riprende splendidamente il tema di Way Out West, il tutto affrontato con il solito approccio molto cinematografico.

Che Marty Stuart fosse sinonimo di qualità lo sapevo da tempo, ma che avesse nelle sue corde un disco di questo livello sinceramente no: imperdibile.

Marco Verdi