Un Altro Dei Tanti “Piccoli Segreti” Del Cantautorato Americano. David Olney – Don’t Try To Fight It

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David Olney – Don’t Try To Fight It – Red Parlor Records

Con sorpresa mi sono accorto che di questo signore, David Olney, oltre quarant’anni di carriera, ventisette album registrati (compreso questo ultimo lavoro) di cui sei dal vivo, dalla nascita di questo “blog” non abbiamo mai recensito un disco, e quindi è giunto il momento di colmare questa grave dimenticanza. Il giovane Olney (nativo di Providence nel Rhode Island), si fa notare a soli 19 anni come leader di un gruppo che gravitava nell’area di Nashville, gli X-Rays, e nonostante un look “da ribelle” e una voce e una grinta alla Bob Seger (che spopolava in quei tempi), il buon David non riuscì ad imporsi sulla scena discografica, costringendolo quindi ad intraprendere una carriera da solista (con alle spalle, come detto, numerosi dischi, incisi con regolarità fin dagli anni settanta), con alcuni pregevoli lavori d’impronta acustica come Eye Of The Storm (78) e Deeper Well (88), passando anche attraverso il rock-boogie vicino a New Orleans nei solchi di Top To Bottom (91), prodotto da Fred James (Freddie And The Screamers), e edito dalla meritoria etichetta lombarda Appaloosa Records. Con l’ottimo Live In Holland (94) arriva il primo disco dal vivo, a cui seguiranno negli anni lavori importanti come Real Lies (97), Trough A Glass Darkly (99), The Well (03), Migration (05), senza dimenticare l’intrigante boxset di 3 EP che comprende Film Noir, The Stone e Robbery & Murder (12), fino ad arrivare ai più recenti lavori in studio Predicting The Past (con un bonus cd retrospettivo sulla sua carriera (13), e When The Deal Goes Down (14).

Per questo Don’t Try To Fight It David Olney (chitarra acustica e armonica), affida la produzione al polistrumentista Brock Zeman (pedal-steel e chitarre acustiche), per una strumentazione per lo più acustica, dove si possono ascoltare echi di valzer, il folk e il blues, che vengono suonati da fior di musicisti locali tra i quali Blair Hogan al basso, chitarre e mandolino, Tyler Kealey alla fisarmonica e pianoforte, Dylan Roberts alla batteria e percussioni, Steve Dawson al dobro, Michael Ball al violino, Wayne Mills al sassofono e alle armonie vocali la brava Kelly Prescott, per una decina di brani composti come sempre da Onley con John Hadley, di cui anche due scritti a quattro mani con due cantautori di cui ho perso da tempo le tracce, Kieran Kane e Kevin Welch. Il disco si apre alla grandissima con l’ottima If They Ever Let Me Out, un bellissimo rock-boogie dai sapori sudisti, impreziosito dalla voce di Kelly Prescott, a cui fanno seguito le atmosfere messicane, con fisarmonica d’ordinanza, di una serenata come Innocent Heart, il blues spettrale e spiazzante di Don’t Try To Fight It (dove si sente lo zampino di Kieran Kane), cantato con voce sgraziata à la Tom Waits da David, per poi passare ad una bellissima ballata elettroacustica come Ferris Wheel. con un arrangiamento “irlandese”composto da violino, dobro, fisarmonica e pedal steel. Si prosegue ancora con un blues inciso come “Dio comanda”, Crack In The Wall, voce in evidenza e chitarra elettrica trascinante, mentre la seguente Situation è una divertente country song; viene rispolverato pure il rock-blues d’annata, con una trascinante Sweet Sugaree, dove si evidenzia la bravura di Wayne Mills al sax, per poi tornare alle dolci atmosfere di Evermore, caratterizzate da un inconsueto binomio tra fisarmonica e cello. Ci si avvia alla fine con il country “bucolico” di una Yesterday’s News, e il blues lievemente sgangherato di Big Top Tornado (che vede come coautore Kevin Welch), eseguito in stile quasi alla John Trudell e affini.

Questo più che arzillo quasi settantenne, deve essere stato scaraventato a sua insaputa nella piscina di Cocoon,  ha avuto nel corso degli anni il riconoscimento di colleghi del calibro di Steve Earle, Emmylou Harris, Johnny Cash, Linda Ronstadt, e anche il meno noto Del McCoury, che hanno inciso e cantato alcune delle sue canzoni, facendolo diventare un artista di “culto”, uno che ha sempre inciso per il piacere di fare musica, senza mai cercare il successo o la visibilità commerciale. Come accennato nel titolo del Post, David Olney rimane un altro dei “grandi dimenticati” della canzone d’autore americana, uno “storyteller” (o cantastorie se preferite) straordinario, un grande visionario dalla voce calda e dal gusto melodico, un “camaleonte” capace di mantenere  negli anni un livello qualitativo elevato nelle sue canzoni che, sono sicuro, molti altri cantautori sopravvalutati (che ci sono purtroppo in giro), farebbero carte false per avere nel proprio repertorio. Questo “artigiano” della canzone d’autore Americana, sebbene nella sua carriera abbia raccolto meno di quello che ha seminato, con questo nuovo Don’t Try To Fight It ha dipinto forse un suo piccolo capolavoro, un disco che merita assolutamente di essere ascoltato, sicuramente un lavoro che tocca svariati generi, ma sappiamo che la buona musica, oltre a non avere età ne tantomeno stagioni non è di solito legata a stili specifici , il che certifica senza alcuna ombra di dubbio che David Olney (uno  che non ha mai fatto un disco brutto), è uno dei tanti tesori nascosti del panorama musicale, e quindi, come diceva il famoso maestro Manzi, non è mai troppo tardi per scoprirlo.

Tino Montanari

Brava Anche Lei, Altra Voce Di Classe! Cathy Lemons – Black Crow

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Cathy Lemons – Black Crow – Vizztone

Cathy Lemons non è una “giovane pischella del bigoncio” è una veterana (“Mistress of The Blues” recita il suo sito) che da oltre 25 anni si muove in quel territorio che sta tra Blues (principalmente), soul, rock, funky e un pizzico di gospel. Nella sua carriera ha cantato con Stevie Ray Vaughan, John Lee Hooker (già nel lontano 1987), Tommy Castro, Anson Fundeberbergh, con cui ha mosso i primi passi, Doug James e Volker Strifler che appaiono anche come ospiti in questo Black Crow, il terzo album della sua discografia.

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Definita una sorta di Howlin’ Wolf in gonnella e dalla voce vellutata e ipnotica, ma le iperboli sono all’ordine del giorno, soprattutto nella critica blues, direi che si tratta “semplicemente” di una brava cantante, tanto per avere una idea potremmo essere più o meno dalle parti di una Janiva Magness (forse non così brava, per onestà): nativa del Wisconsin, ma cresciuta musicalmente in Texas (dove ha conosciuto Funderburgh e SRV), la Lemons, già dalla seconda metà degli anni ’80 opera soprattutto nella Bay Area, San Francisco e dintorni. Anche la brava Cathy, come altre donne nel blues, pure la Magness appena citata, è stata una “late starter”: il primo disco, Dark Road è uscito nel 2000, quando di anni ne aveva già 42 (sempre dire l’età delle signore, per par condicio). Il secondo, Lemonace, esce nel 2010, poi ha sciolto la sua partnership musicale ed affettiva con il bassista Johnny Ace, che durava da 17 anni ed è iniziata la parte tre della sua carriera, con dolori d’amore e nella vita che sono spesso l’oggetto di canzoni struggenti e ricche di pathos: la nostra amica Cathy ne ha scritte sei per questo nuovo album, registrato con la sua nuova band che vede Stevie Gurr alla chitarra, Paul Olguin al basso (che ha lavorato con Maria Muldaur e Bonnie Raitt, altre due donne che trattano bene l’argomento), Theron Person  alla batteria, Kevin Zuffi alle tastiere, tutti bravi ma non particolarmente conosciuti, più Doug James al sax (dalla band di Jimmie Vaughan e dai Roomful Of Blues).

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Il risultato è un disco solido e piacevole, uscito da poco per la Vizztone, una etichetta che ultimamente ha pubblicato i lavori di Bob Corritore, Candye Kane, della Ruff Kutt Blues Band, Dave Riley, in passato Bob Margolin, che è uno dei fondatori della piccola casa, ed è una certezza in questo ambito musicale. Il suono è bello pimpante, come la voce, quindi si parte con una I’m A Good Woman, scritta da Kim Wilson, un bel errebì dal groove poderoso, con ritmica e gli interventi delle due chitarre e del sax che sostengono la voce sicura e grintosa della Lemons https://www.youtube.com/watch?v=eWPlwi88c_w . Ain’t Gonna Do It ha un’aria più country got soul, porta la firma di Kieran Kane ed è più rilassata della precedente ma sempre ben arrangiata, con armonica e chitarre che si dividono la scena, nell’arrangiamento molto memphisiano. La title-track, Black Crow, è una bella ballata quasi di stampo sudista, potrebbe ricordare certe cose à la Lynyrd Skynyrd o Gregg Allman, rarefatte ma ricche di atmosfera, con quei crescendo tipici delle migliori cose del genere https://www.youtube.com/watch?v=ycrCDnswEDE . Stevie Gurr si divide tra chitarra ed armonica, come nell’ottima Hip Check Mama, a tempo di boogie, dove tutta la band ci dà dentro di gusto e la Lemons arrochisce la sua voce, tra Raitt e Magness, per rendere più rovente il tono della canzone.

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Non manca uno slow super classico come You’re In My Town Now dove Cathy gigioneggia come richiesto dal tipo di canzone, con Gurr alla chitarra e Zuffi al piano che la istigano nel giusto modo. Notevole anche la cover di It All Went Down The Drain un brano di Earl King che riceve nuovamente quel trattamento country-soul, tra New Orleans e Memphis anche grazie alla chitarra slide di Volker Strifler, che aggiunge quel pizzico di pepe alle procedure, molto bella, come la precedente peraltro. The Big Payback è proprio quella di James Brown, e quindi vai col funky, chitarrina con wah-wah, voci femminili di supporto, il sax di Doug James, il piano, tutti perfetti nel titillare la Lemons, che ci mette del suo https://www.youtube.com/watch?v=qMtrS6n2hfI . I’m Going To Try è un’altra ballatona di quelle emozionanti, un poco Etta e un poco Janis, con chitarra, organo e sax che disegnano le loro linee per permettere la migliore resa alla voce di Cathy Lemons. Texas Shuffle, come da titolo, è un omaggio all’arte di SRV, un bel blues con la chitarra di Volker Strifler che pompa alla grande. Ancora le dodici battute in evidenza con The Devil Has Blue Eyes, un brano che riprende le leggende dei classici di Robert Johnson, solo voce, acustica ed armonica, usati con gusto e perizia, che sono i tratti più evidenti di questo bel disco. Un altro nome da tenere d’occhio, prendere nota!

Bruno Conti