(Quasi) Perduto Ma Ottimo. Langhorne Slim – Lost At Last Vol.1

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Langhorne Slim – Lost At Last Vol.1 – Dualtone Music Group  

Langhorne Slim è il nome d’arte di Sean Scolnick, nome mutuato dalla piccola cittadina della Pennsylvania da cui viene il nostro, e questa era abbastanza facile (di lui avevo parlato anni fa, quasi agli inizi del Blog, poi lo avevo perso un po’ di vista http://discoclub.myblog.it/2009/11/20/piccoli-gioiellini-dagli-states-langhorne-slim-maldives-e-co/)! Più difficile è inquadrare lo stile musicale in cui incasellarlo: mi sa che ci dovremo rivolgere al generico ma utilissimo Americana Music (odiato da alcuni musicisti, per esempio Dan Stuart non ne vuole sentir parlare) ma assai in voga per descrivere un genere che, a sua volta, ne incorpora molti altri. Se poi, come nel caso di questo Lost At Last Vol.1 anche il suo autore non si attiene rigidamente alle coordinate che lo definiscono, diventa difficile raccapezzarsi: questa volta Langhorne Slim non parrebbe accompagnato dal suo gruppo The Law, ma poi, leggendo i nomi dei musicisti, sono più o meno quelli soliti che suonano con Scolnick, anzi, oltre ai cinque della band abituale, ci sono la bellezza di altri dodici ospiti che appaiono in queste registrazioni.

Eppure, per certi versi, mi sembra che anziché usare il solito “less is more”, si sia utilizzato l’esatto opposto, “more is less”: ovvero, considerando che in tutto nel disco suonano ben 18 musicisti, in molti brani sembra di sentire un suono molto scarno e raccolto, quasi lo-fi, creato da tre/quattro persone al massimo. In quanto al genere si viaggia tra folk rurale, country, roots music, un pizzico di zydeco qui, un tocco di dixieland là, in definitiva un disco molto eclettico. Langhorne Slim ha una voce delicata, sottile, senza tempo, quasi da “antico” cantautore folk classico. Prendete l’iniziale Life Is Confusing, dove un organo, un violino, una chitarra acustica e poco altro, oltre alle voci di Langhorne e Casey Jane, creano un ambiente sonoro delizioso (ri)pescato da qualche vecchio album di folk(rock?) degli anni ’60. Old Things aggiunge un mandolino alla chitarra acustica pizzicata, sempre la seconda voce della Jane, un contrabbasso, per un sound che ricorda degli Avett Brothers o degli Old Crow Medicine Show ancor più minimali (infatti tra gli ospiti c’è Willie Watson, ex OCMS), anche nelle durate delle canzoni,  circa1:45 ed è già finito tutto. House Of My Soul (You Light The Rooms) è più mossa e divertita, con effetti dixieland portati dai fiati, trombone e clarinetto in particolare, un pianino sottotraccia e anche una sezione ritmica, sempre minimale ma presente, per quanto un po’ confusa nel suono volutamente (?) lo-fi del brano https://www.youtube.com/watch?v=p_hgKjdVfks ; Ocean City sembra un pezzo di Paul Simon, folk, musica etnica, un ritmo incalzante, scandito dal basso tuba, un vibrafono, la fisarmonica, delle percussioni appena accennate, con risultati molto piacevoli e coinvolgenti.

Diciamo che anche l’album nel suo insieme è estremamente gradevole, forse un filo frammentario a tratti, ma molti brani meritano più di un ascolto: Private Poverty sembra un pezzo dell’era della Depressione, tipo Woody Guthrie, ma cantato alla Simon & Garfunkel, con una pedal steel e un mandolino che la impreziosiscono, Money Road Shuffle è un intermezzo che pare provenire da un vecchio 78 giri di Jelly Roll Morton, Never Break è una delicata canzone d’amore sotto forma di ballata, tra due persone che cercano, con difficoltà, di… “Let’s fall in love with our telephones off”, Bluebird, un incrocio tra zydeco, bluegrass e old time music, Alligator Girl un intenso blues elettrico con retrogusti gospel and soul quasi à la Ray Charles, Funny Feelin’ (For Jumior Kimbrough And Ted Hawkins), come dice il titolo, è un sentito ed affettuoso omaggio a due personaggi di culto che ci sono molto cari, un country blues elettroacustico caratterizzato dalla particolare voce di Langhorne Slim. Zombie (non quella dei Cranberries) è il singolo/video dell’album, parte come una canzone dei Mamas And Papas per trasformarsi subito in una specie di country-rock “strano” e deragliante, con una pedal steel che cerca di dare una ragione e un senso all’alternative indie folk-rock, tutto molto“alternativo”, del brano; Lost This Time è un altro esempio di folk minimale ed asciutto, con le voci di Langhorne e Casey Jane ad armonizzare https://www.youtube.com/watch?v=0mWlfPb-w8w , mentre la conclusione è affidata a Better Man, una traccia che, arrangiata in modo meno spartano e rustico a livello sonico, sarebbe un piccolo gioiellino, i fiati e gli archi si “intuiscono”, ma il musicista della Pennsylvania lascia intravedere le sue potenzialità già delineate nei precedenti cinque album. Da ascoltare.

Bruno Conti

Piccoli gioiellini dagli States: Langhorne Slim, Maldives e Cory Chisel & the Wandering Sons

Brevemente, come direbbe Biscardi ( e poi vai con uno sproloquio di venti minuti), altrimenti mi sgridano per le lunghezze dei post.

maldives.jpgPartiamo dalle Maldive, anzi dai Maldives (se digitate su google, 27.500 sulle isole, una decina sul gruppo): per ora se ne è parlato poco; sono di Seattle, o perlomeno hanno la loro sede a Seattle, se no mi bacchettano subito, sono in nove (pronto?!?), 3 chitarristi, banjo, violino, pedal steel, basso, batteria più il leader e voce solista Jason Dodson. Per loro si sono scomodati accostamenti a nomi importanti: Neil Young, Band, tra i contemporanei Drive -by-truckers e Old ’97, esageriamo! No, tutto vero, anzi io rilancerei con i Jayhawks, il primo brano Goodbye, me li ha ricordati moltissimo.

Il disco si chiama Listen to the thunder, alternative country-rock può andare bene, ma anche il vecchio southern rock rende bene l’idea, quando la band prende l’abbrivio con le tre chitarre soliste. pedal steel e violino, mi hanno ricordato i gloriosi “sudisti” Outlaws senza scomodare i Lynyrd Skynyrd – Time is right now ne è un ottimo esempio. Non manca il classico country-rock che ci riporta a Gram Parsons, primi Eagles e Poco, ma anche brani epici come la lunga, oltre dieci minuti, Walk Away.

Ottimi e abbondanti! Poi il disco è edito dalla famosa Mt. Fuji Records, quindi reperibilità che ve la raccomando (per fortuna che c’è l’Ird).

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Langhorne Slim è ovviamente un nome d’arte. Be set free è il titolo dell’ album, il terzo ufficiale per questo musicista della Pennsylvania e segna una svolta nella sua produzione discografica: il suono si fa molto più ricco, espansivo, con l’aiuto del chitarrista dei Decemberists gli arrangiamenti sono molto più curati, confluiscono mille colorazioni sonore, si va dai Waterboys meets Van Morrison dell’iniziale Back to the wild dai profumi celtici,e quanti hanno incontrato la musica dell’incazzoso irlandese, che non perde occasione nelle rare occasioni in cui parla e non manda a quel paese il giornalista della situazione, per ricordare, a ragione, quanti hanno preso a piene mani dalla sua musica (senza raggiungere i suoi vertici, ma si sa, il grande Van da piccolo ha ingoiato un microfono e quindi hai voglia!); notevoli anche l’ottima I Love you but Goodbye, Be Set Free, la marcetta rock’n roll di Cinderella che ricorda i Violent Femmes (il batterista viene da lì, figlio di… ), i sapori country di Land of Dreams ma tutto l’album è molto valido, completo, con sonorità seventies che ricordano, anche vocalmente, il miglior Cat Stevens, assolutamente da sentire.

La discografia non è molto aggiornata, ma qua ci sono parecchi video (è andato anche da Letterman).langhorne%20slim

Last but not least, come diciamo noi che parliamo le lingue, vorrei parlarvi anche di tale Cory Chisel & the Wandering Sons, l’album si chiama Death Won’t send a letter e in Italia direi che non so lo è filato proprio nessuno. Peccato perché è veramente bravo, l’album in America è uscito con la distribuzione Sony/Bmg in una sottoetichetta della Rca, è prodotto da Joe Chiccarelli (Shins e White Stripes, quindi le credenziali migliori), ci sono molti ospiti di quel giro, ma anche la sua band ufficiale dove spicca la bionda e bravissima organista e vocalist, Adriel Harris, anche l’occhio vuole la sua parte, veramente carina.

Sin dall’iniziale singolo Born Again con un riff d’organo inconsueto per il rock di oggi ( e che ha fatto scomodare nei paragoni addirittura gli Animals di Eric Burdon), la voce di Cory Chisel si libra sicura e potente, su un tappeto marcato da basso e batteria, ma anche nei momenti più riflessivi, come la successiva Calm Down che mi ha ricordato uno Springsteen più vulnerabile o nel rock riffato alla Replacements di Longer Time At Sea si sente che siamo di fronte ad un musicista di sicuro talento al massimo delle sue capacità, anche commerciali, perchè si tratta di musica che potrebbe avere un potenziale di vendita, e la casa discografica ci crede (per il momento) e gli ha finanziato un paio di video e io ve li infilo così potete giudicare da soli, ma tutto l’album vale, fidatevi.

Bruno Conti