Ma Allora Qualche Disco “Fisico” Esce Ancora…E Che Disco! David Bromberg Band – Big Road

david bromberg band big road

David Bromberg Band – Big Road – Red House CD/DVD

Il maledetto Covid-19 ha completamente stravolto, oltre alle nostre vite, anche il mercato discografico, con album che dovevano uscire a breve e che sono stati rimandati ad estate inoltrata o a data da destinarsi ed altri che sono stati anticipati ma solo in formato download. Per quanto riguarda le uscite “fisiche” (almeno quelle che interessano a noi) il mese di aprile è stata un’ecatombe, con i nuovi lavori di Joe Bonamassa e Lucinda Williams come uniche novità di un certo livello (oltre al CD di cui mi occupo tra poco), e maggio non si presenta sotto i migliori auspici, con Willie Nile, Steve Earle e Jimmy Buffett tra le poche “release” di rilievo al momento confermate (oltre ai già recensiti Dream Syndicate, usciti il primo del mese corrente) https://discoclub.myblog.it/2020/04/21/un-album-spiazzante-sicuramente-difficile-ma-affascinante-the-dream-syndicate-the-universe-inside/ , mentre negli anni passati il bimestre appena citato necessitava di un extra budget per gli acquisti. Tra gli album pubblicati in questo periodo c’è anche questo Big Road, nuovissimo lavoro del grande David Bromberg e della sua band, il quinto da quando l’esimio musicista e musicologo nativo di Philadelphia si è rimesso a fare musica dopo quasi due decadi di assenza durante i quali si era reinventato come produttore e venditore di strumenti musicali a corda.

L’acustico Try Me One More Time del 2007 aveva sancito il ritorno di Bromberg a 18 anni da Sideman Serenade, ma la vera e propria rentrée David l’aveva fatta con gli elettrici e splendidi Use Me e Only Slightly Mad, due album ai livelli eccelsi dei primi anni settanta, mentre l’ultimo CD uscito nel 2016, The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues, era come da titolo un’ottima full immersion nelle varie sfaccettature delle dodici battute https://discoclub.myblog.it/2016/10/25/il-titolo-dice-quasi-poi-ci-pensa-david-bromberg-band-the-blues-the-whole-blues-and-nothing-but-the-blues/ . Il nuovo Big Road vede invece il nostro alle prese con i vari generi con i quali ci ha abituato a trattare, essendo lui una vera e propria enciclopedia ambulante in materia di folk, blues, rock’n’roll, country, bluegrass, gospel, R&B e chi più ne ha più ne metta, in pratica un tesoro nazionale per quanto riguarda la musica americana, che andrebbe salvaguardato nella Biblioteca del Congresso: ai suoi livelli di cultura e competenza musicali ho sempre visto solo Ry Cooder, ed infatti uno dei miei sogni nel cassetto (che temo rimarrà tale) è sempre stato un album collaborativo tra i due. Nel frattempo quindi “accontentiamoci” di Big Road, ennesimo lavoro splendido di una carriera che non ha mai visto una pubblicazione sottotono, anche se qui siamo parecchio vicini ai suoi album più leggendari come Demon In Disguise, Wanted Dead Or Alive e Midnight On The Water, e come minimo sullo stesso piano sia di Use Me che di Only Slightly Mad se non addirittura un gradino più in alto.

Per la terza volta consecutiva la produzione è nelle sapienti mani di Larry Campbell, ormai un nome sul quale contare ad occhi chiusi per quanto riguarda un certo tipo di musica roots, ed il gruppo che accompagna David è formato dai soliti musicisti formidabili che rispondono ai nomi di Mark Cosgrove (chitarre e mandolino), Nate Growler (mandolino e violino), Josh Kanusky (batteria) e Suavek Zaniesienko (basso), mentre contribuiscono al suono anche lo stesso Campbell alla steel, il pianista e organista Don Walker ed una sezione fiati di quattro elementi. Ma il vero protagonista è chiaramente Bromberg, che ci delizia per quasi un’ora con la sua proverbiale abilità di polistrumentista e con il consueto mix di brani originali (pochi, solo due su dodici) e cover di brani che hanno diverse decadi sulle spalle, non molto noti ma riletti in maniera straordinaria e con gli interplay strumentali tra i vari musicisti che sono uno spettacolo nello spettacolo. Il disco si apre con la title track, un brano di Tommy Johnson che Bromberg aveva già inciso su Try Me One More Time ma che sentiva il bisogno di rifare con una band alle spalle: aveva ragione, in quanto ci troviamo davanti ad un blues potente che in un certo senso riprende il cammino interrotto con l’album precedente, con il leader che canta con voce grintosa e la sezione ritmica che non manca di pestare con una certa forza, mentre violino e fiati aggiungono un sapore di old time music.

Di tenore completamente diverso Lovin’ Of The Game (brano di Pat e Victoria Garvey già inciso in passato da Jerry Jeff Walker e Judy Collins), splendida canzone country & western dal ritmo sostenuto e melodia deliziosamente tipica, con goduriosi assoli di steel, mandolino e fisarmonica: Bromberg non ha mai fatto un disco totalmente country, ma sono convinto che se lo facesse il risultato finale si avvicinerebbe molto alle fatidiche cinque stelle. Just Because You Didn’t Answer, scritta da Thom Bishop, è un lentaccio romantico e malinconico in puro stile sixties, un genere atipico per David che però se la cava alla grande (sembra quasi che la voce migliori col passare degli anni), rilasciando anche uno squisito assolo chitarristico subito doppiato dal violino di Grower e dal pianoforte di Walker: davvero brillante. George, Merle & Conway, uno dei due brani firmati da Bromberg (e dedicato ovviamente a George Jones, Merle Haggard e Conway Twitty), è uno strepitoso honky-tonk classico suonato con un feeling incredibile dalla DBB, con la steel di Campbell che si unisce al giubilo generale e David che canta con tono da consumato countryman e ci regala anche un efficace assolo acustico: uno splendore; Mary Jane è un traditional poco noto che vede il nostro esibirsi in perfetta solitudine, voce e chitarra, per una folk tune delicata ed intensa, mentre la breve Standing In The Need Of Prayer è un vecchio gospel per sole voci con Bromberg leader e gli altri quattro membri del gruppo ai cori e battito di mani ritmico, e per un attimo siamo trasportati in una chiesa del profondo Mississippi.

The Hills Of Isle Au Haut è un capolavoro: si tratta di un’oscura folk song di Gordon Bok che David trasforma in un fantastico country-rock elettroacustico guidato da un motivo splendido ed un train sonoro formidabile (Campbell si è davvero superato alla produzione), ottenendo una delle canzoni più belle uscite quest’anno. E’ la volta di un medley strumentale nel quale i nostri passano da Maiden’s Prayer, uno squisito honky-tonk dall’andamento malinconico e con ottimi assoli di mandolino, violino e chitarra acustica, a Blackberry Blossom e Katy Hill, due fiddle tunes che aumentano notevolmente il ritmo e portano il CD su territori bluegrass, con la particolarità che in Katy Hill il violino è sostituito da un trio di mandolini suonati all’unisono. E veniamo al “piece de resistance” del disco (e secondo brano scritto da David), ovvero Diamond Lil, un pezzo epico della durata di dieci minuti che il nostro aveva già pubblicato nel 1972 su Demon In Disguise ma che qui trova la sua veste definitiva: una rock ballad dal motivo toccante con chitarre, piano e violino in evidenza ed uno sviluppo fluido e rilassato, dove si nota il piacere del gruppo nel suonare ed improvvisare insieme (piacere che ovviamente si trasmette alle nostre orecchie).

L’album non molla un attimo, e con Who Will The Next Fool Be? (di Charlie Rich) siamo in una terra di mezzo tra blues e jazz, una raffinata ballata suonata con grande classe e potenziata dai fiati che qui assumono il ruolo di co-protagonisti, mentre Take This Hammer è una prison song scritta da Leadbelly che i nostri tramutano in un irresistibile e ritmato bluegrass, dandoci uno dei pezzi più coinvolgenti del CD; chiusura con Roll On John (canzone del 1946 che Bromberg ha imparato da John Herald quando era membro dei Greenbriar Boys), un incantevole brano che mescola folk e country e presenta due deliziosi interventi di mandolino e fisarmonica. Big Road è più di un grande disco, è un viaggio imperdibile nel cuore della musica americana, con una guida come David Bromberg a rendere la gita ancora più magica: avete presente le cinque stelle di cui parlavo prima? Bene, qui non siamo molto distanti.

Marco Verdi

P.S: il CD esce con allegato un DVD che comprende un documentario sulle sessions e la performance live in studio di cinque brani del disco: anche l’occhio vuole la sua parte!

 

Ecco Un Altro Gruppo Che Non Sbaglia Un Disco Neanche Volendo! Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

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Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes – Sage Arts CD

Quando si parla di gruppi che rielaborano la tradizione country, folk e bluegrass in chiave moderna la mente va subito a Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turles, ma spesso ci si dimentica di citare i Marley’s Ghost, sestetto californiano in giro da più di trent’anni. Una band di veterani quindi, ed infatti i capelli dei membri sono ormai irrimediabilmente grigi (quando non del tutto assenti), ma la loro forza nel suonare ed abilità nel produrre grande musica è pari a quella dei gruppi citati sopra. I Marley’s Ghost (Mike Phelan, chitarre, dobro, basso, violino e voce, Ed Littlefield Jr., chitarre, steel, basso e voce, Jon Wilcox, mandolino, chitarre e voce, Dan Wheetman, basso, steel, chitarra e voce, Jerry Fletcher, piano e voce, Bob Nichols, batteria) sono meno rock sia degli Old Crow che dei Fratelli Avett, pur avendo una sezione ritmica ed usando qua e là anche la chitarra elettrica, ma si rifanno più direttamente a sonorità tradizionali di generi come country, bluegrass, folk, gospel e old time music, rilette comunque con grande forza ed eccellente perizia strumentale.

 

Non hanno inciso moltissimo in 32 anni, appena una dozzina di album, ma proprio per questo quando esce una loro pubblicazione si può stare certi che non sarà una delusione. I loro ultimi due lavori, i bellissimi Jubilee e The Woodstock Sessions, erano prodotti da Larry Campbell, uno che con questo tipo di musica va a nozze, ed infatti i nostri lo hanno voluto a bordo anche per questo nuovissimo Travelin’ Shoes, un album davvero splendido, forse ancora più bello dei precedenti, in cui il sestetto rivisita a modo suo una serie di brani della tradizione gospel, con l’aggiunta di appena due brani originali. Il risultato è di altissimo livello, una strepitosa collezione di brani che rivedono il gospel aggiungendo cospicue dosi di ritmo, passando dal country al rock al bluegrass con estrema disinvoltura, e senza un attimo di tregua. Che non ci troviamo di fronte ad un disco qualsiasi lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, che inizia per voce e banjo, poi entra il resto del gruppo ed anche la sezione ritmica comincia a farsi sentire: il binomio tra l’accompagnamento grintoso e la melodia tipicamente folk è vincente, in gran parte grazie alla fusione delle varie voci. Hear Jerusalem Moan è un traditional molto noto, ed è eseguito con uno splendido arrangiamento tra gospel e bluegrass, con alternanza tra parti vocali ed assoli strumentali (particolarmente belli quelli di violino e pianoforte);You Can Stand Up Alone, dopo un lungo intro a cappella, è eseguita in maniera cadenzata e con una deliziosa veste doo-wop anni sessanta (e la chitarra è elettrica), rilettura irresistibile, tra le più belle del CD.

Someday è scritta da Campbell, ed è un saltellante country-gospel contraddistinto da una performance in punta di dita ed all’insegna della classe sopraffina di cui i nostri sono provvisti in grande quantità. So Happy I’ll Be è un vecchio pezzo di Flatt & Scruggs, un coinvolgente gospel sullo stile di brani come Will The Circle Be Unbroken e Amazing Grace, superbamente eseguito e cantato alla perfezione; nell’insinuante Shadrack i nostri sembrano degli epigoni di Tennessee Ernie Ford, con quel tipico approccio old style ed un bel botta e risposta tra voce solista e coro, il tutto con un vago sapore jazzato. Run Come See Jerusalem è un capolavoro, sembra uscita di botto da un disco anni settanta di Ry Cooder, dall’intro di chitarra elettrica, all’atmosfera a metà tra Hawaii e Messico (c’è anche una fisarmonica), ed il coro fa la parte che fu di Bobby King e Terry Evans: magnifica. Judgement Day, unico pezzo originale dei nostri (ad opera di Wheetman), è un altro highlight assoluto, una splendida western ballad elettrica che sarebbe piaciuta a Johnny Cash, vibrante e dalla melodia epica, When Trouble’s In My Home richiama ancora Cooder (quello di Boomer’s Story), canzone tra folk, gospel e blues, con slide acustica ed intesa vocale perfetta, mentre Standing By The Bedside Of A Neighbor è uno scintillante e ritmato western swing con il grande Bob Wills come riferimento principale. Chiudono l’album la cristallina A Beautiful Life, puro country con un tocco di gospel, e con Sweet Hour Of Prayer, un toccante slow pianistico e corale che ha quasi il sapore di un brano natalizio.

Con Travelin’ Shoes i Marley’s Ghost hanno aggiunto un altro gioiello ad una collezione già preziosissima: tra i dischi più belli di questa prima parte di 2019, almeno nel genere country e derivati.

Marco Verdi

Jorma Kaukonen E Gli Hot Tuna: 50 Anni Tra Blues E Rock, Parte II.

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Seconda parte.

Il disco “acustico”.

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Quah – Grunt 1974 ***1/2

Registrato in un lungo arco di tempo, tra l’ottobre del 1972 e il maggio del 1974, Quah doveva avere una facciata di canzoni dedicate a Jorma Kaukonen e la seconda a Tom Hobson, chitarrista e cantante molto meno noto, che fu il motivo per cui molti dei brani della seconda facciata, con l’eccezione di due, furono reincisi aggiungendo i contributi di Jorma. Il risultato è comunque quello di un altro piccolo classico, un disco dove alle chitarre acustiche in molti pezzi vengono aggiunti violini, violoncelli, viole, anche sezioni archi complete, senza rendere il disco troppo baroccheggiante o zuccherino. Nella ristampa rimasterizzata in CD del 2003, per arricchirlo ulteriormente, vengono aggiunte quattro tracce extra con Tom Hobson. Un album tra folk e blues, prodotto da Jack Casady, dove spiccano la malinconica e bellissima Genesis, gli immancabili blues del Rev. Gary Davis, I’ll Be All Right e l’ondeggiante In Am The Light Of This World, ma anche la sognante Song For The North Star, che grazie agli arrangiamenti di archi sembra quasi un brano di Nick Drake. Tra i contributi di Tom Hobson spicca il country di Sweet Hawaiian Sunshine, con un bel dobro aggiunto al picking delle due acustiche.

La svolta elettrica 1974-1977.

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Nei quattro anni successivi, arriverà in formazione un nuovo batterista, Bob Steeler, e il suono si farà decisamente più duro, quasi hard-rock atratti, a parte nell’ancora ottimo The Phosphorescent Rat ***1/2, uscito a gennaio del 1974, l’ultimo registrato con Piazza alla batteria, ed un sound meno granitico, album di cui si ricordano l’ottima I SeeThe Light, la deliziosa Letter To the North Star, già registrata come Lord Have Mercy per Quah, la tirata Easy Now, la lirica Corners Without Exit, con fiati e archi aggiunti, l’eccellente In The Kingdom, un paio di strumentali acustici, tra cui l’immancabile brano del Reverendo Gary Davis. America’s Choice ***1/2 del 1975 , anche se più “lavorato” come suono è comunque ancora un buon disco, l’iniziale Sleep Song, la tirata Funky #7 con Steeler che picchia come un ossesso e Kaukonen che va di wah-wah , la cover di Walkin’ Blues, Invitation che ricorda vagamente i pezzi rock di Lou Reed e l’hendrixiana I Don’t Wanna Go non sono male.

Yellow Fever *** ancora del 1975 alza ulteriormente la manopola del volume, la cover di Baby What You Want Me To Do è durissima, mentre Hot Jelly Roll Blues non è male, in Free Rein torna il sound da power trio, più West,Bruce & Laing che Cream, Sunrise Dance With The Devil vira decisamente sull’hard rock e anche in Bar Room Crystal Ball sembrano quasi i Black Sabbath, e in Half-Time Saturation i Thin Lizzy, niente di male perché Kaukonen e Casady sono due musicisti con i fiocchi, però… Hoppkorv **1/2 del 1976, oltre ad essere ancora più duro, ogni tanto sfocia anche nel banalotto, anche se qualche brano che si salva c’è sempre, per esempio la delicata Watch The Noth Wind Rise.

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Hot Tuna – Double Dose 1978 ***1/2

Invece nel 1978 esce il doppio dal vivo Double Dose, registrato a San Francisco nell’agosto del 1977, durante il loro ultimo Tour, prima di sciogliere la band e si tratta di un grande Live, uno di quelli “storici” degli anni ’70. Prodotto da Felix Pappalardi (con l’aiuto di un esordiente Don Gehman), che fece molti overdubs in studio, anche con notevoli ritocchi delle parti vocali di Kaukonen, con la prima facciata del vecchio vinile acustica, e le altre tre con la formazione elettrica, aumentata dal solito Nick Buck alle tastiere. I quattro pezzi acustici sono Winin’ Boy Blues, Keep Your Lamps Trimmed And Burning, il bellisimo vecchio brano dei  Jefferson  Embrionic Journey e la rara Killing Time In the Crystal City.

Nella parte elettrica ottime versioni di I Wish You Would, Genesis che anche in versione full band non perde il suo fascino, Talkin’ About You di Chuck Berry, con il sound d’insieme che ricorda molto il Lou Reed di Rock’n’Roll Animal, Funky #7 molto migliore della sua controparte in studio, la sinuosa, come titolo, Serpent Of Dreams, la cover a tutto wah-wah di Bowlegged Woman, Knock Kneed Man di Bobby Rush, e l’uno-due con le sempre splendide I See The Light e Watch The North Wind Rise, oltre al finale blues-rock con I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters. Meno di 80 minuti in tutto ma comunque un grande album.

A questo punto Jorma Kaukonen inizia una carriera solista diciamo non esaltante, con qualche disco di buona qualità ma niente per cui entusiasmarsi.  Jorma del 1979, solo voce e chitarre acustiche ed elettriche se lo ricordano in pochi, Barbeque King, l’ultimo per la RCA del 1981, e poi una sequenza  di dischi poco significativi, tra cui si salvano l’acustico Too Hot To Handle del 1985, che contiene due canzoni reincise per la buona reunion omonima del 1989 dei Jefferson Airplane. A proposito di reunion, dignitosa quella degli Hot Tuna per Pair A Dice Found, che contiene una versione di Eve Of Destruction di Barry McGuire, e i due Live At Sweetwater registrati in California nel 1992, con Michael Falzarano alla seconda chitarra, fino al piacevole Steady As She Goes, prodotto da Larry Campbell, che suona anche nel disco, pubblicato dalla Red House nel 2011 (e nel 2019 ci sarà un tour per festeggiare i 50 anni del gruppo). Tra gli album come solista, molto bello Blue Country Heart, un disco del 2002 influenzato dal bluegrass dove suonano Sam Bush, Jerry Douglas, Byron House e Bela Fleck, River Of Time del 2009, ancora prodotto da Campbell, e registrato a Woodstock negli studi di registrazione di Levon Helm, che appare anche in due brani. A oggi l’ultimo disco di Jorma Kaukonen è l’eccellente Ain’t In No Hurry, uscito nel 2015 sempre per la Red House, che conferma la ritrovata forma del nostro.

Vedremo cosa ci riserverà il futuro.

Bruno Conti

Un Altro Ottimo Disco Per Questo “Fuorilegge” degli Anni Duemila. Whitey Morgan & The 78’s – Hard Times And White Lines

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Whitey Morgan & The 78’s – Hard Times And White Lines – Whitey Morgan/Thirty Tigers CD

Negli ultimi anni si è notata una rinascita di un filone all’interno del genere country che può essere equiparato al movimento degli Outlaws negli anni settanta, e che ha certamente le sue punte di diamante in Chris Stapleton e Jamey Johnson, con esponenti che rispondono ai nomi di Shooter Jennings (uno che un Outlaw originale ce l’aveva in casa), Cody Jinks, Sturgill Simpson (che però con l’ultimo disco ha deciso di esplorare altre strade) e Whitey Morgan. Proprio di quest’ultimo ci andiamo ad occupare oggi: country-rocker del pelo duro e con una grinta notevole, Morgan è uno dei migliori esponenti del genere venuti fuori nell’ultimo decennio, con già tre album di ottimo country elettrico (più uno acustico e cantautorale, Grandpa’s Guitar), un suono strettamente imparentato con il rock e con la musica del Sud. Ad ascoltarlo sembra un texano doc, ma in realtà viene dal profondo nord, esattamente da Flint, in Michigan (località nella quale ha registrato anche un eccellente live album, Born, Raised And Live From Flint, uscito nel 2014), una zona degli States che non è certo rinomata per la musica country. Hard Times And White Lines segue a tre anni di distanza il validissimo Sonic Ranch https://discoclub.myblog.it/2016/02/10/le-due-facce-moderno-outlaw-whitey-morgan/ , e si mantiene sullo stesso livello elevato, una musica grintosa, elettrica, forte e molto più rock che country, ricca di ritmo e feeling.

Morgan è accompagnato come sempre dai fidi 78’s (Joey Spina alle chitarre, Brett Robinson, bravissimo, alla steel, Alex Lyon al basso e Tony DiCello alla batteria), ed in questo disco è aiutato anche da altri sessionmen, tra i quali spiccano i nomi del bravo Jesse Dayton, già valido songwriter e chitarrista a proprio nome, del pianista ed organista Jim “Moose” Brown (di recente con Willie Nelson e Bob Seger), e soprattutto del noto polistrumentista Larry Campbell, qui impiegato alla steel e violino. Il suono di questo Hard Times And White Lines (ispirato dalle truckin’ songs, le canzoni per camionisti che occupano quasi un genere a parte nell’ambito del country made in U.S.A.) è davvero spettacolare, forte, nitido e potente, e le canzoni fanno il resto. Il disco si apre con Honky Tonk Hell, una possente ballata, lenta e cadenzata, che dà la misura dell’approccio musicale del nostro: un brano dalla struttura melodica chiaramente country ma suonata con piglio da vero rocker, ed un’intensità che si tocca quasi con mano, con chitarre elettriche e steel che vanno a braccetto. Con Bourbon And The Blues sembra quasi di sentire una outtake di Waylon degli anni settanta, una canzone in cui tutto, dalla melodia alla voce al ritmo, ricorda lo stile del grande texano: ottima ancora la steel ed anche il piano elettrico che aggiunge un sapore southern, e con la ciliegina di una splendida coda strumentale.

Ancora ritmo elevato con la goduriosa Around Here, un country-rock diretto e grintoso che conferma l’eccellente stato di forma del nostro anche dal punto di vista del songwriting, mentre Hard To Get High è una ballatona di stampo western, che non si muove da sonorità vigorose di chiaro stampo texano. La lenta ed evocativa Fiddler’s Inn fa venire in mente cowboys accampati al crepuscolo, con cavallo, falò, chitarra e whisky come unica compagnia (splendida anche qua la steel), ma Tired Of The Rain è ancora più intima e malinconica, con un feeling enorme, mentre con Wild And Reckless Whitey riprende in mano il pallino del puro country con una cristallina honky-tonk ballad alla George Jones. Nel CD trovano posto anche tre cover di varia estrazione, a partire dalla deliziosa What Am I Supposed To Do del poco conosciuto cantautore Don Duprie, una country song ariosa e solare dal motivo davvero bello ed immediato (anche quando non mostra i muscoli Morgan si conferma un musicista coi fiocchi), e seguita da una gustosa versione tra honky-tonk e rock di Carryin’ On di Dale Watson, uno che già di suo ha i cromosomi del countryman di razza. Ma la rilettura in un certo senso più inattesa è quella, decisamente robusta e bluesata, di Just Got Paid degli ZZ Top, che mantiene la tensione elettrica dell’originale aggiungendo un pizzico di country (ma neanche troppo), con strepitosi interventi chitarristici nel finale.

Gran bel disco, tra i migliori esempi di country elettrico usciti quest’anno.

Marco Verdi

Il Secondo Capitolo Di Un Narratore “Affascinante”. Ed Romanoff – The Orphan King

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Ed Romanoff – The Orphan King – Pinerock Records

Questo signore Ed Romanoff, si era fatto conoscere sei anni fa con lo splendido album omonimo d’esordio, pubblicato all’età di 53 anni, disco puntualmente come sempre passato quasi inosservato. La storia artistica di Romanoff (origini irlandesi e adottato da una famiglia russa), inizia sul finire degli anni ’90 ma poi deve la svolta della sua carriera anche all’amicizia con Mary Gauthier, che lo porta a scrivere a quattro mani con la stessa proprio il brano The Orphan King, apparso sul disco The Foundling, scoprendo quindi tardivamente di volersi reinventare “songwriter”.

Il risultato di questi ulteriori anni passati dopo il primo lavoro è il nuovo album, registrato a Palenville (NY), nello studio fienile del produttore Simone Felice (Felice Brothers, Lumineers), dove Ed voce e chitarra si porta appresso validi collaboratori come lo stesso Felice alla batteria, il fratello James Felice alle tastiere e fisarmonica, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell alle chitarre, basso, mandolino, cetra e violino, Lee Nadel al basso, Cindy Cashdollar alla steel guitar e lap steel, Kenneth Pattengale del duo Milk Carton Kids alle chitarre, e come coriste la sue colleghe Rachael Yamagata, Cindy Mizelle, e la moglie di Campbell, Teresa Williams, tutti einsieme danno vita a tredici canzoni piene di suggestioni, ma nello stesso tempo estremamente vive.

Fin dalla prima canzone Miss Worby’s Ghost, si percepisce l’abilità narrativa di Ed, bissata poi nella seguente Elephant Man (uno dei sei brani composti con Crit Harmon), una romanza musicata e cantata quasi alla Kris Kristofferson, dove spiccano sublimi armonie vocali, per poi passare al country-rock arioso di una A Golden Crown, dove si riconosce benissimo il violino di Campbell, e la pedal-steel della Cashdollar, priam di proporre la sua versione della citata pianistica title-track The Orphan King, con in sottofondo una intrigante tromba e Teresa Williams alle armonie vocali, mentre il moderno e delizioso “bluegrass” di Without You, vede brillare Kenneth Pattengale alla voce, chitarra e mandolino. Le narrazioni diventano ancora più briose con la melodia vivace di Leavin’ With Somebody Else, cantata in falsetto in stile Roy Orbison, mentre nella seguente Less Broken Now, le armonie femminile sono a carico di Cindy Mizelle, per poi passare alla “perla” del disco, la meravigliosa The Ballad Of Willie Sutton (una intensa storia alla Bonnie & Clyde), interpretata con trasporto dalla voce baritonale dall’autore, che poi si ripete nella tranquillità di ballate come l’acustica I’ll Remember You, e la riflessiva e notturna The Night Is A Woman (con le brave Yamagata e Mizelle alle armonie). Ci si avvia (purtroppo) alla parte conclusiva del lavoro con un’altra ballata di spessore (che pare evocare lo spirito di Cohen) come l’incantevole Blue Boulevard (Na Na Na), dove giganteggiano ancora una volta il violino celtico e il mandolino di Larry Campbell, ancora una intrigante e quasi recitativa “ode” come Lost And Gone, e infine a chiudere, come coronamento finale di un eccellente lavoro,  il “soul-blues” elettrico di una grintosa e narrativa Coronation Blues, dove spiccano le vari voci femminili in un nostalgico stile che rievoca il classico stile Stax.

Come già ricordato in altre occasioni, molto spesso capita di scoprire musicisti che, per una ragione o per l’altra, non hanno la giusta considerazione di tante altre acclamate “stars”, un tipo che dopo tutto il vagabondare per gli stati americani, si è impegnato a scrivere canzoni sulla in tarda età, avendo come “mentori” artisti del calibro di Darrell Scott, Beth Nielsen Chapman, Josh Ritter, e come la già citata grande Mary Gauthier. Ed Romanoff vive e lavora a Woodstock, nello stato di New York, e con questo The Orphan King merita ancora una volta segnalazione in virtù del suo (in)consueto stile narrativo, in cui ascoltando con attenzione il disco si possono scorgere punti di contatto con personaggi del livello di John Prine e Eric Taylor (di cui peraltro sembrano essersi perse le tracce), sicuramente un “cantautore-narratore” che vale la pena di conoscere https://www.youtube.com/watch?v=v-B1rrh6v0A , e spero che, prendendosi i suoi giusti tempi, continuerà a comporre canzoni e produrre album per gli anni a venire: in fondo come diceva il famoso Maestro Manzi, non è mai troppo tardi. Nel frattempo, fin d’ora, a parere di chi scrive, sicuramente una delle sorprese, e la canzone, dell’anno!

Tino Montanari

Questa Volta Non Si Scherza, Bentornati A Bordo. The Nighthawks – All You Gotta Do

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The Nighthawks – All You Gotta Do – EllerSoul

Imperterriti, più o meno una volta all’anno (anche se lo scorso anno avevano “bigiato”), tornano i Nighthawks, dalla loro base di Richmond, Virginia, tramite la piccola etichetta EllerSoul, continuano a sfornare piacevoli album di blues (con innesti, rock, soul e R&B) e anche se non hanno più il vigore delle loro prove migliori degli anni ’70, quando sotto la doppia guida di Jimmy Thackery e Mark Wenner, erano una delle più eccitanti formazioni di blues-rock del panorama americano, comunque non deludono gli appassionati. Thackery non suona con loro ormai da diverso tempo (facciamo 31 anni) e quei livelli ormai sono forse solo un bel ricordo, ma la band, come si dice negli States, è “still alive and well”, anche se, se mi passate un ardito gioco di parole, quella sorta di esperimento unplugged del 2015, Back Porch Party, non era poi troppo viv(ace), specie considerando che ne avevano già fatto un altro pure nel 2009. Questa volta la spina è riattaccata e il suono è più brillante, gagliardo a tratti: come dimostra subito That’s All You Gotta Do, un poderoso blues-rock dal repertorio di Jerry Reed, con Wenner, pimpante ad armonica e voce, Paul Bell  a tutto riff e Johnny Castle e Mark Stutso, che pompano di gusto su basso e batteria, e tutta la band che mette a frutto, quel lavoro vocale corale che hanno messo a punto negli ultimi anni e dà alle canzoni una patina rock gioiosa e frizzante.

Se c’è da suonare il blues comunque non si tirano mai indietro, come in una piacevole When I Go Away, scritta da Larry Campbell per i Dixie Hummingbirds, quindi anche con un deciso retrogusto gospel, o più “rigorosi” in una brillante e scandita Baby, I Want To Be Loved dal songbook di Willie Dixon, con Mark Wenner che soffia a fondo nella sua armonica. Let’s Burn Down The Cornfield di Randy Newman diventa un minaccioso blues a tutta slide, con Paul Bell che lavora di fino con il bottleneck con risultati eccellenti. Anche quando fanno da sé, come in Another Day, scritta e cantata da Johnny Castle, o in VooDoo Doll, dalla penna di Stutso, un’aura tra rock e R&B bianco alla Blood, Sweat And Tears, si respira nei rispettivi brani, con risultati che sembravano perduti da tempo. Ninety Nine di Sonny Boy Williamson permette a Mark Wenner di dimostrare nuovamente perché è tuttora considerato uno dei migliori armonicisti bianchi.

Pure Three Times A Fool, una bella ballata soul dell’accoppiata Nardini e Stutso, certifica della ritrovata vena dei Nighthawks, poi ribadita nell’eccellente cover di Isn’t That So di Jesse Winchester, un altro ottimo brano che aggiunge anche uno spirito swamp, quasi alla Tony Joe White o alla Creedence, grazie alla chitarra “riverberata” di Paul Bell. E la cover di Snake Drive di R.L. Burnside, con un micidiale call and response tra l’armonica di Wenner e la slide di Bell, è ancora meglio, veramente fantastica. Blues For Brother John, uno strumentale scritto da Mark Wenner, ha forti agganci con Spoonful e altri classici delle 12 battute, ma nel blues è sana usanza “prendere in prestito”, di solito non si offende nessuno. E come ciliegina sulla torta di un album che è il loro migliore da “illo tempore”, per concludere una versione sparatissima di Dirty Waters degli Standells, che sembra uscire da qualche vecchio vinile degli Stones o degli Yardbirds, pure citati a colpi di riff classici nella parte strumentale. Peccato si fatichi a trovare il CD, ma questa volta ne varrebbe la pena: bentornati “Falchi della Notte”!

Bruno Conti

Cantautore, Produttore E Straordinario Pianista! Kenny White – Long List Of Priors

kenny white long list of priors

Kenny White – Long List Of Priors – Continental Song City

Dopo il giusto spazio della scorsa settimana dato a David Olney, oggi ci riproviamo con un altro artista sconosciuto ai più (mi auguro come al solito di sbagliare, ma non penso), che risponde al nome di Kenny White. Nome assai noto nel “sottobosco” musicale newyorkese, White, cantautore ed eccellente pianista, produttore (nella sua scuderia sono passati Marc Cohn, Peter Wolf, Shawn Colvin, Cheryl Wheeler, Jonathan Edwards, e Judy Collins, per citarne solo alcuni tra i più noti),  una prima parte della vita spesa nel mondo della pubblicità (jingle man), torna a deliziare gli amanti della buona musica con questo sesto capitolo della sua carriera, Long List Of Priors, a distanza di sette anni dall’eccellente Comfort In The Static (10). E così il buon Kenny dopo aver viaggiato in lungo e in largo gli States, e aperto i concerti, oltre che dei suoi assistiti Shawn Colvin e Peter Wolf, anche di gruppi come i Cowboy Junkies e Rolling Stones, si guadagna in breve tempo una reputazione che lo porta ad esordire con Uninvited Guest (02), a cui fa seguire un EP Testing 1,2 (03), pescando il jolly con il successivo Symphony In Sixteen Bars (04), che finito nelle mani della brava Judy Collins (è stato un colpo di fulmine musicale), lo porta al contratto con la Wildflower l’etichetta americana fondata dalla “signora del folk”, seguito da un altro EP Never Like This (06), e dopo una pausa per le sue attività collaterali (dimenticavo, è anche saggista), torna in studio per incidere il citato Comfort In The Static,e gli amanti di cantautori come Chuck E.Weiss, Randy Newman e affini,  non dovrebbero lasciarselo scappare.

A dimostrazione che il nostro inizia a raccogliere quanto ha seminato, oltre alla sua eccellente band composta da Duke Levine alle chitarre, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, porta per il nuovo album negli At Sear Sound Studios di New York City artisti e colleghi illustri quali David Crosby, Peter Wolf, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell, senza dimenticare un superbo trio di voci femminili che rispondono al nome di Catherine Russell, Angela Reed e Amy Helm (cantante degli Ollabelle e figlia del mai dimenticato batterista della Band, Levon Helm). Come i precedenti dischi Long List Of Priors è composto interamente da brani originali, partendo subito alla grande con il brano iniziale A Road Less Traveled con David Crosby ai cori, su un tessuto musicale arricchito dal pianoforte di Kenny White e dal violino di Campbell, a cui fanno seguito la suggestiva Che Guevara dove spicca la chitarra di  Duke Levine https://www.youtube.com/watch?v=6eietccd58Y , per raggiungere una delle vette più alte del disco con Another Bell Unanswered (dove ritroviamo ai cori Crosby), una ballata pianistica quasi sussurrata da White, che se fosse stata scritta da altri (non facciamo nomi), sarebbe diventata un classico, mentre Cyberspace è un brano su un tema sociale, costruito su una musica gioiosa suonata al meglio.

Si continua con una ballata elegante come The Other Shore, su un arrangiamento quasi di musica da camera https://www.youtube.com/watch?v=yTXWg7iWaCs , per poi passare al brano più “rock” dell’album Glad-Handed, con la partecipazione speciale dell’amico Peter Wolf https://www.youtube.com/watch?v=XMtQVA6sBow , seguito da un brano solo pianoforte, tromba e cori come Lights Over Broadway, lievemente in chiave “jazz”, mentre la vibrante e profonda Charleston, racconta di un sanguinoso fatto di cronaca ed è cantata in duetto con la brava cantante soul Ada Dyer. Come sempre la parte migliore di Kenny si manifesta nelle ballate piano e voce, ad esempio The Moon Is Low (starei ore ad ascoltarlo), a cui fa seguire un’intrigante West L.A., un brano quasi teatrale (con un testo figlio del Tin Pan Alley sound) che inizia in modo scanzonato, poi nel finale irrompe una sezione fiati e l’arrangiamento si apre in perfetto stile New Orleans; e che dire della delicata Color Of The Sky, dove brilla il clarinetto di Dan Block? Una piccola meraviglia! Come pure 4000 Reasons To Run, una folk-ballad che ricorda per certi versi il primo Bob Dylan, mentre la chiusura di questo disco magnifico, con una sorta di romanza pianistica, è affidata a  The Olives And The Grapes (un omaggio alla Toscana che l’ha premiato con il Premio Ciampi), dove oltre al piano di White sono in evidenza una sezione d’archi, composta da violini, viola e cello.

Ognuna delle tredici canzoni di Long List Of Priors è un piccolo gioiello di raffinato artigianato musicale, con temi (amore, protesta, vita e morte), che White riporta in musica con una scrittura decisa, che si manifesta magistralmente sulla tastiera, con una tonalità vocale (che a tratti ricorda anche James Taylor, ma pure Cat Stevens) che lo rende credibile in ogni sua interpretazione, e con una bravura tale da far apparire semplice, quello che semplice non lo è affatto, confermandolo come uno dei rari autori che riescono in pochi minuti a condensare emozioni. Mentre il pubblico (purtroppo) tende ad essere attratto da parecchie false stelle del rock, un personaggio di talento come Kenny White, nonostante una carriera quarantennale, risulta ancora molto poco conosciuto dal pubblico, ma tutto questo non deve comunque far passare inosservato un lavoro come questo Long List Of Priors, anche se forse richiede più ascolti per essere apprezzato, è in ogni caso una raccolta basilare da aggiungere alla vostra discoteca, per scoprire un autore e pianista eccellente come Kenny White!

Tino Montanari

Sempre Pochi, Ma Sempre Buoni! Peter Wolf – A Cure For Loneliness

peter wolf a cure for loneliness

Sono passati altri sei anni dalla pubblicazione del precedente album di Peter Wolf Midnight Souvernirs, ma il titolo e il contenuto del Post che avevo usato per quel disco http://discoclub.myblog.it/2010/04/10/pochi-ma-buoni-peter-wolf-midnight-souvenirs/, rimangono sempre validi. L’ex cantante della J.Geils Band rimane fedele alla sua cadenza temporale (addirittura il terz’ultimo Sleepless risaliva al 2002), ma anche alla assoluta qualità dei suoi dischi. Al contrario di quanto era accaduto nel periodo precedente, quello che era venuto con i primi album solisti negli anni ’80 e fino all’incirca alla metà degli anni ’90, i dischi di Wolf si erano concessi, come pure gli ultimi con il suo suo gruppo, la citata J. Geils Band, ad un suono commerciale, tamarro ed inconsistente. Poi non so se il cantante di New York abbia trovato la “cura per la solitudine”, ma sicuramente quella per la buona musica sì.Il 7 marzo ha compiuto 70 anni ma, con i suoi ritmi tranquilli, continua a regalarci ottimi album: questo A Cure For Loneliness, che è solo l’ottavo in una carriera ultra trentennale, conferma l’eccellenza e l’eclettismo sonoro espressi con Midnight Souvenirs. Al solito nel menu troviamo rock, ballate suadenti tra il soul e lo stile da crooner, l’amato blues e tracce di pop raffinato e di gran classe, addirittura c’è una rivisitazione in chiave Appalachiana e bluegrass (come la presenta lui) del vecchio classico della J. Geils Band Love Stinks.

Sono solo 37 minuti di musica, 12 brani perfetti, non un secondo sprecato: il disco si apre sulla splendida Rolling On, una canzone soffusa e dall’atmosfera raffinata, scritta come altro quattro con il suo collaboratore da lunga pezza Will Jennings, ed arrangiata in modo sublime dal suo tastierista Kenny White, che è anche il co-produttore del CD, i tocchi di piano e delle tastiere, il lavoro della sezione ritmica, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, le note mirate dei due chitarristi Duke Levine Kevin Barry, il delicato sostegno delle armonie vocali di Jeff Ramsey Athene Wilson, tutto contribuisce a sostenere il cantato mirabile di Wolf e gli equilibri sonori di questo brano di grande fascino. It Was Always So Easy (To Find an Unhappy Woman) è una oscura cover di un brano dei primi anni ’70, dal repertorio di Moe Bandy, che pure ebbe qualche successo minore all’epoca (erano gli anni della J. Geils Band), ma la genialità di Wolf sta nell’averla trasformata in una canzone che sembra provenire dal Bob Dylan o dagli Stones più “campagnoli”, tra scivolate di organo alla Al Kooper, rintocchi di armonica, una slide malandrina e una solista pungente, e anche quell’aria vagamente honky-tonk country, e il tutto compresso nei 3 minuti scarsi del pezzo, geniale. Peace Of Mind, di nuovo dell’accoppiata Wolf/Jennings è una soul ballad deliziosa, tipo le cose più ispirate del Willy DeVille  romantico e newyorkese, omaggiato da Wolf nel precedente Midnight Souvenirs.

Dopo un trittico così uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, ma la successiva How Do You Know ci riporta al blues più canonico della prima J. Geils Band, con l’aggiunta della seconda chitarra di Larry Campbell, il pianino indiavolato di White, i fiati degli Uptown Horns, lo stesso Peter all’armonica, nel ruolo che fu del suo vecchio pard Magic Dick, ci dimostra come si suona il blues a tempo di boogie, con le due coriste Ada Dyer e Catherine Russell che lo spalleggiano alla grande, e non è una oscura cover, ma un brano nuovo scritto per l’occasione. Fun For A While è un’altra ballata splendida, con una “weeping pedal steel” e una fisarmonica che alzano il tasso malinconico della canzone, notturna e raccolta, non per nulla i musicisti della sua band, quando sono in tour, si fanno chiamare Midnight Travelers. E proprio a proposito di tour Wastin’ Time, il brano successivo, è registrato dal vivo, di fronte ad un pubblico selezionato, si è soliti dire, un’altra canzone eccellente, un pezzo rock che ci riporta al vecchio sound della J. Geils Band, di nuovo in un suono che è un misto tra Dylan e Stones, di cui nei gloriosi anni di inizio carriera la band di Boston era orgogliosa pari e controparte americana.

Some Other Time, Some Other Place, l’ultimo pezzo firmato dalla coppia Wolf e Jennings vira verso un approccio più acustico, con Larry Campbell alla pedal steel, ma anche al violino, la moglie Teresa Williams alle armonie vocali, Tony Garnier che fa una comparsata al basso e il pezzo, non esagero, lentamente assume uno svolgimento non dissimile da certe cose del Van Morrison più bucolico o dei Waterboys, c’è anche un mandolino sullo sfondo per confermare questo approccio quasi folk, altra canzone splendida. E pure la successiva non scherza: questa volta Peter Wolf ha chiamato Don Covay (quello che ha scritto, per citarne un paio, Mercy Mercy Chain Of Fools, nel frattempo scomparso nel gennaio 2015) per scrivere con lui un omaggio ad un altro grande della musica soul come Bobby Womack, che la doveva cantare in duetto con Peter, ma nel frattempo se ne era andato pure lui. Niente paura, la canzone è rimasta una meravigliosa ode alla soul music più pura e gioiosa, con una spruzzata di fiati e Wolf che canta splendidamente, come d’altronde nel resto dell’album, Non ho detto il titolo? Questo gioiellino si chiama It’s Raining.

L’altro pezzo registrato dal vivo è la cover a tempo di bluegrass di Love Stinks, il più grande successo della J.Geils Band, che se devo dire mi piace molto di più in questa versione che in quella originale, divertente ed irresistibile, con il mandolino di Duke Levine che viaggia a tutta velocità. Mr. Mistake sembra un pezzo alla Buster Poindexter (vi ricordate, David Johansen quando aveva deciso di rendere omaggio alla vecchia musica swing e big band?), e lo fa, senza fiati, ma con la consueta grinta e classe. Che non mancano anche nel pezzo da crooner Tragedy, altra oscura canzone, pure nel repertorio di Brenda Lee Fleetwoods, ma che fu un successo, l’unico, per tale Thomas Wayne & The DeLons, la versione del disco è piacevolissima, con Wolf circondato dalle voci femminili della due bravissime cantautrici Rose Polenzani Kris Delmhorst, qui in una veste insolita. E l’ultima cover è altrettanto “oscura”: una versione, brevissima, un minuto e mezzo, di un vecchio pezzo country, Stranger, dal repertorio di Lefty Frizzell (mi pare la facesse anche Rosie Flores): solo la chitarra acustica di Duke Levine e la voce di Peter Wolf. Diciamo che gli ultimi tre pezzi, anche se comunque piccole delizie sonore, abbassano lievemente la qualità dell’album, che sarebbe quasi da 4 stellette nel suo insieme, ma rimane ottimo, e pensate che pur essendo della major Concord/Unversal non è stato neppure pubblicato in Europa, è solo import dagli States. Adesso aspettiamo il prossimo, speriamo fra meno di 6 anni!

Bruno Conti.

Le Due Facce Di Un Moderno Outlaw! – Whitey Morgan

whitey morgan sonic ranch

Whitey Morgan And The 78’s – Sonic Ranch – Whitey Morgan CD

Whitey Morgan – Grandpa’s Guitar – Whitey Morgan CD

Prima di affrontare la recensione volevo fare una precisazione: non è che Whitey Morgan abbia pubblicato due dischi contemporaneamente, anzi, a ben vedere nessuno dei due è nuovo, ma siccome di Sonic Ranch (che è dello scorso anno) questo blog non se ne era occupato (ed è un gran bel disco) e che Grandpa’s Guitar è addirittura della fine del 2014, ma arriva solo ora dalle nostre parti, ed entrambi sono di difficile reperibilità, credo sia venuto il momento di omaggiare un countryman che sta contribuendo a rinvigorire, insieme a gente come Jackson Taylor, Jamey Johnson e Sturgill Simpson, il movimento Outlaw, in auge negli anni settanta. Morgan (vero nome Eric David Allen) è di Flint, Michigan, un posto che ben poco ha da spartire con la musica country, ma sembra un texano fatto e finito: fin dagli esordi (Honky Tonk & Cheap Motels del 2008 e soprattutto Whitey Morgan & The 78’s del 2010) il nostro ha infatti proposto un country robusto, chitarristico e maschio, diretto discendente di leggende quali Waylon Jennings (il suo riferimento più marcato), Willie Nelson e Merle Haggard, una musica non soltanto muscolare ma capace anche di far vibrare le corde giuste, grazie ad un songwriting maturo e ad una band solida e rocciosa (la line-up corrente vede Brett Robinson alla steel, Alex Lyon al basso, Joey Spina alla solista e Fred Eltringham alla batteria).

Sonic Ranch è stato pubblicato lo scorso anno, a ben cinque anni di distanza dal lavoro precedente (in mezzo, l’ottimo live Born, Raised And Live From Flint, uscito nel 2014 ma registrato nel 2011, ed il già citato Grandpa’s Guitar che però ha avuto una distribuzione, per usare un eufemismo, un po’ lenta), ma dimostra che Whitey non ha perso smalto, anzi è maturato e la gavetta on the road è servita, in quanto il disco è un ottimo esempio di vera country music, senza fronzoli e sdolcinature di sorta, arrangiato in modo diretto e con una bella serie di canzoni originali e qualche cover di vaglia: l’album è prodotto da Ryan Hewitt e vede tra gli ospiti, entrambi alla steel, Dan Dugmore e soprattutto l’ottimo Larry Campbell.  

Apre il disco Me And The Whiskey, robusto outlaw country con il vocione di Morgan a dominare, tempo cadenzato e chitarre in gran spolvero; Low Down On The Backstreets è puro Waylon, atmosfera leggermente più country, un piano da saloon che fa capolino ed una melodia decisamente anni settanta; Waitin’ Round To Die è uno dei brani più drammatici di Townes Van Zandt (uno la cui musica di solito non veniva suonata alle feste), e l’interpretazione del nostro è tesa ed affilata come una lama, e, grazie anche ad un arrangiamento rock, rende pienamente giustizia all’originale. Still Drunk, Still Crazy, Still Blue è una ballata distesa, ancora con Jennings (ma anche Willie) ben in mente (e pure il titolo fa molto Waylon), grande pathos e nessuna concessione “radiofonica” nel suono; Leavin’ Again è invece un honky-tonk classico, che si distacca da quanto sentito finora: il mood è meno teso, più rilassato (siamo più dalle parti di Haggard), ma Whitey risulta credibile, e godibile, anche in questa veste. La mossa Goin’ Down Rockin’ è proprio una delle ultime canzoni scritte da Waylon (insieme a Tony Joe White) prima di morire, ed è inutile dire che la memoria del barbuto texano è onorata al meglio; Good Timin’ Man è un intenso intermezzo di base acustica, poi entrano anche gli altri strumenti ed il brano si tramuta in una sontuosa ballata crepuscolare. L’album si chiude con due covers, Drunken Nights In The City di Frankie Miller, un altro slow pieno di feeling, e la splendida That’s How I Got To Memphis di Tom T. Hall, un brano terso e limpido, tra i migliori del CD, ed un pezzo originale (Ain’t Gonna Take It Anymore, un rockin’ country roboante e diretto).

whitey morgan grandpa's guitar

Grandpa’s Guitar è invece un album particolare: intanto è acustico (ma Whitey non è solo, ci sono anche Dugmore e Robinson alla steel e Jason Roberts al violino), ed è un lavoro che il nostro ha dedicato al nonno (musicista anche lui), del quale aveva trovato in cantina una cassetta con una serie di incisioni di brani da lui amati, un reperto che Morgan ha sempre custodito gelosamente tra i suoi ricordi più cari e che, parole sue, ha ispirato tutto quello che ha fatto negli ultimi quindici anni.    L’album contiene in maggioranza covers, a partire da una languida interpretazione della malinconica You’re Still On My Mind (un successo di George Jones), per poi mettere in fila una bella serie di classici, tra i quali spiccano il consueto omaggio a Waylon (Just To Satisfy You), uno Springsteen d’annata (la sempre splendida Highway Patrolman), un paio di pezzi di Haggard (I’ll Leave The Bottle On The Bar e la nota Today I Started Loving You Again), una bella ripresa del purtroppo quasi dimenticato Lee Clayton (If You Could Touch Her At All), e la grandissima Dead Flowers dei Rolling Stones, una canzone che farebbe bella figura anche nelle mani di Gigi D’Alessio (…forse ho esagerato…); per chiudere con due brani originali (le intense Grandpa’s Guitar e Another Wine) ed il traditional I Know You preso direttamente dalla cassetta del nonno William.

Se non avete nulla di Whitey Morgan forse Grandpa’s Guitar non è quello da cui cominciare (Sonic Ranch invece è indicatissimo), ma se già lo conoscete può essere un’aggiunta più che interessante.

Marco Verdi

Qui Di Strabico C’è Solo Il Cuore! Keith Richards – Crosseyed Heart

keith richards crosseyed heart

Keith Richards – Crosseyed Heart – Mindless/Virgin/Universal CD

Nella loro più che cinquantennale carriera i Rolling Stones hanno sbagliato ben pochi dischi (a mio personale giudizio solo tre – Their Satanic Majesties Request, Emotional Rescue ed Undercover – tra l’altro non brutti ma al massimo pasticciati), mantenendo anzi una media qualitativa sempre piuttosto alta, mentre diverso è il discorso quando si prendono in esame gli album solisti dei componenti delle Pietre. A parte i membri “di contorno” (e comunque Ronnie Wood qualche bel disco lo ha fatto, a differenza di Bill Wyman, di cui ho già detto cosa penso nel mio post sul suo ultimo disco http://discoclub.myblog.it/2015/07/11/speriamo-che-del-prossimo-disco-passino-altri-33-anni-bill-wyman-back-to-basics/ , mentre le avventure jazz del combo di Charlie Watts saranno anche impeccabili ma non sono il mio pane quotidiano); Mick Jagger è stato senza dubbio quello dal rendimento più altalenante: l’unico bel disco tra i quattro pubblicati dal cantante è Wandering Spirit, mentre sia She’s The Boss che Primitive Cool sono davvero brutti, e Goddess In The Doorway raggiunge la sufficienza di stima.

Keith Richards, invece, anche nei pochi episodi senza la sua band madre si è confermato personaggio di una coerenza esemplare, la vera anima rock degli Stones, sia con il discreto Talk Is Cheap del 1988 ma soprattutto con il roccioso Main Offender del 1993 (tra i due, anche un buon disco dal vivo con la sua band, gli X-pensive Winos), due lavori riusciti che però vengono messi in ombra dal nuovo CD di “Keef The Riff”, Crosseyed Heart, da qualche settimana nei negozi. Keith è sempre stato onesto fino all’autolesionismo (basta leggere la sua autobiografia, Life) e tutto ciò si riflette anche in questo bellissimo album, che ci presenta un musicista particolarmente ispirato alle prese con tutti i vari generi musicali da lui amati, proposti a modo suo, e cioè in maniera forse non formalmente perfetta ma ricca di pathos e con un cuore (strabico) grande così.

Tanto rock, un po’ di blues (meno del previsto comunque), una spruzzata di country e reggae ed una buona dose di soul fanno di Crosseyed Heart il miglior disco solista di Richards ed un ottimo surrogato in assenza di novità da parte del suo gruppo principale. Sono della partita musicisti da lui già utilizzati in passato (Waddy Watchel alle chitarre, Steve Jordan – che produce anche il disco con Keith – alla batteria, mentre il basso, e spesso anche il pianoforte, sono suonati dallo stesso Richards), con aggiunte quali Larry Campbell alla steel guitar, lo scomparso Bobby Keys al sassofono in un paio di brani (credo siano le sue ultime incisioni) ed alcuni ospiti di vaglia che citerò man mano. Un cenno lo merita la voce di Keith: sempre poco considerato come cantante (il minimo che ti può capitare se sei in un gruppo con Jagger), il nostro, che conosce i suoi limiti e quindi non esagera, sfodera in questo album una prestazione molto positiva, con il suo timbro non perfetto ma profondo e vissuto che dona alle canzoni quel quid in più.

La title track apre il disco in tono minore, un blues acustico, solo voce e chitarra, ma eseguito con una montagna di feeling: il pezzo è breve e confluisce nella martellante Heartstopper, una rock song elettrica, diretta e potente, con le schitarrate tipiche del nostro, voce minacciosa ed un tiro mica da ridere. Amnesia è rock’n’roll alla maniera di Keith, batteria e basso a stantuffo, un mood leggermente annerito ed il gradito intervento di Keys; Robbed Blind è invece una ballata toccante, con il piano (suonato da Richards) a svolgere un ruolo importante, un arrangiamento delicatamente country ed il nostro che non canterà come Pavarotti ma nelle rughe della sua voce si possono sentire tutte le tracce della vita vissuta nella corsia di sorpasso.

Trouble, che è il primo singolo, dimostra la fantasia e l’amore per il rischio delle case discografiche, in quanto ci troviamo di fronte al brano più stonesiano, classico, ed in un certo senso prevedibile del CD: avercene comunque di pezzi così; Love Overdue è un reggae, un genere molto amato da Keef (e meno dal sottoscritto), con Ivan Neville all’organo ed una sezione fiati a colorare il suono: c’è da dire che Richards risulta molto credibile in queste vesti e ci regala una melodia molto gradevole e solare, cantando anche piuttosto bene.

In Nothing On Me c’è il più famoso dei fratelli Neville, cioè Aaron, alle backing vocals, per una bella canzone, fluida e tersa, dal sapore soul-errebi sudista, un pezzo che con l’ugola istrionica di Jagger avrebbe spaccato, ma che anche così fa la sua porca figura; lo slow Suspicious, sempre molto soulful, riesce ad emozionare non poco, grazie anche al tono confidenziale della voce di Richards, mentre con Blues In The Morning siamo in pieno territorio rock’n’roll, ma quello puro, anni cinquanta, suonato ed arrangiato in modo volutamente vintage. Keith si diverte un mondo, e chi siamo noi per disapprovare? Something For Nothing è un curioso rock’n’roll, piuttosto Stones-style, con coro gospel alle spalle, non un gospel-rock, ma proprio rock’n’roll con coro: risultato decisamente intrigante, ed il gioco di chitarre è da applausi. Illusion, che si avvale della collaborazione di Norah Jones sia in sede di scrittura che di duetto vocale, è un lento pieno d’atmosfera con il piano a guidare le danze, e la strana coppia funziona. Just A Gift è uno degli highlights del disco, una splendida ballata elettroacustica cantata con il cuore in mano, con il piano ancora protagonista ed una melodia struggente; il famoso traditional Goodnight Irene diventa una sorta di valzer obliquo di grande fascino, con Keith che fa la parte del nonno ubriaco che canta la ninna nanna al nipotino. Chiudono Substantial Damage, un rockaccio nero, sporco e pericoloso (ma è quella che mi piace meno) e la deliziosa Lover’s Plea, altra ballata nel più puro filone country got soul, con un importante contributo all’organo del grande Spooner Oldham.

Un gran bel disco, con il quale Keith Richards conferma ancora volta di essere dalla parte giusta.

Marco Verdi