Tre Album Da Riscoprire E Rivalutare. The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968

everly brothers down in the Bottom

The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968 – RPM/Cherry Red 3CD

Nel 1966 la popolarità degli Everly Brothers era in deciso calo, specie se rapportata ai fasti di fine anni cinquanta/primi sessanta, in cui i fratelli Don e Phil Everly erano stati giustamente indicati come uno degli acts più influenti della loro epoca (per dirne una, senza di loro forse Paul Simon avrebbe intapreso lo stesso la carriera di cantautore, ma probabilmente senza Art Garfunkel): infatti i due non portavano un singolo nella Top 40 da ben tre anni, e addirittura da cinque se si passava agli LP. Il loro ultimo disco, Two Yanks In England, era praticamente un album degli Hollies (che erano autori di gran parte delle canzoni e comparivano anche come backing band) cantato dagli Everly, e non ebbe successo come i precedenti: i nostri pensarono quindi di operare qualche piccolo cambiamento nel loro suono, ed i tre dischi interessati da tale rinnovamento (The Hit Sound Of The Everly Brothers, The Everly Brothers Sing e Roots) sono riuniti in questo triplo CD in digipak targato Cherry Red ed intitolato Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968, tutti quanti con una buona dose di bonus tracks in parte inedite.

In effetti il sottotitolo di questa ristampa è leggermente inesatto, in quanto solo Roots si può definire propriamente country-rock: diciamo che i due lavori precedenti, che pur presentano qualche sonorità countreggiante anche se mescolata alle consuete pop songs del duo e perfino a qualche accenno di psichdelia, sono da considerare come una graduale transizione verso Roots, che uscendo nel 1968 tenterà di inserirsi nel filone country-rock allora in voga e che aveva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta.

The Sound Of (1967, ma le sessions risalgono al ’66, da qui dunque il titolo dell’antologia) è formato da cover di brani più o meno noti, con la produzione di Dick Glasser e l’ausilio di diversi membri della famosa Wrecking Crew, tra cui Larry Knechtel, Hal Blaine, Terry Slater e Glen Campbell, già noto quest’ultimo come artista in proprio. L’album non vendette molto, ma vide i nostri proporre arrangiamenti raffinati e con le solite splendide armonie vocali di classici del rock’n’roll (Blueberry Hill, riletta in veste countreggiante, Oh, Boy! e Good Golly, Miss Molly), del country (I’m Movin’ On, Sea Of Heartbreak, che sembra scritta su misura per loro, e (I’d Be A) Legend In My Time), due brani associati a Ray Charles (Let’s Go Get Stoned e Sticks And Stones), un po’ di “British Invasion” (Trains And Boats And Plains, di Burt Bacharach ma portata al successo da Billy J. Kramer & The Dakotas, e The House Of The Rising Sun, incisa tenendo presente l’arrangiamento degli Animals ed indicando addirittura Alan Price come autore del pezzo). Poi ci sono brani scritti da autori esterni apposta per Don & Phil, come la beatlesiana Devil’s Child e la melodiosa She Never Smiles Anymore, opera di un giovane ed ancora sconosciuto Jimmy Webb. Tra le cinque bonus tracks del primo CD spiccano Even If I Hold It In My Hand, unico pezzo a firma Don Everly, un’altra canzone scritta da Webb (When Eddie Comes Home) ed il demo di Bowling Green, che sarà il brano di punta del disco successivo.

Proprio Bowling Green, uno splendido e scintillante folk-rock, apre il secondo dischetto nonché l’album Sing (1967), prodotto ancora da Glasser e con più o meno gli stessi musicisti del precedente (ma con in più il grande James Burton, all’epoca chitarrista di Elvis), ed un approccio più spostato verso il pop psichedelico, termine da prendere comunque con le molle in quanto stiamo pur sempre parlando degli Everly. Quasi metà dei pezzi sono scritti dal bassista Slater, i migliori dei quali sono la già citata Bowling Green, A Voice Within, il cui sound è influenzato dalle band britanniche, e le psichedeliche all’acqua di rose Talking To The Flowers e Mary Jane; ci sono poi un paio di originali di Don (l’orecchiabile I Don’t Want To Love You, scritta insieme a Phil, e l’eterea ballata It’s All Over, già incisa in passato dai due), un pezzo roccato e coinvolgente (Deliver Me, di Danny Moore) ed il rifacimento di Somebody Help Me, grande successo dello Spencer David Group di Steve Winwood,  pubblicata l’anno prima su Two Yanks In England. C’è anche la scelta bizzarra di includere una versione del superclassico dei Procol Harum A Whiter Shade Of Pale (non adattissima ai nostri), mentre è invece ottima Mercy, Mercy, Mercy, scritta dal non ancora leader dei Weather Report Joe Zawinul per il Cannonball Adderley Quintet. Le bonus tracks qui sono ben nove, tra cui sei sono brani usciti solo su singolo: da non perdere la bella rilettura della classica Love Of The Common People e la squisita Nothing But The Best di Rick Kemp.

E veniamo a Roots (1968), il migliore dei tre album presi in esame e quello che rappresenta la vera svolta nel suono dei fratelli, un disco che è anche una delle prime produzioni di un giovane Lenny Waronker, che nei seventies diventerà uno dei nomi più richiesti in cabina di regia, e che vede ancora i membri della Wrecking Crew con l’aggiunta delle tastiere di Van Dyke Parks. L’album vede dunque Don & Phil perfettamente calati nei panni di novelli cantanti country-rock, con cristalline versioni di classici come Mama Tried e Sing Me Back Home (le due canzoni più celebri di Merle Haggard), Less Of Me di Glen Campbell, T For Texas di Jimmie Rodgers e You Done Me Wrong di George Jones; un paio di pezzi sono scritti da Ron Elliott, leader dei Beau Brummels e collaboratore del disco (le folkeggianti Ventura Boulevard e Turn Around), mentre l’unico brano originale dei due fratelli, I Wonder If I Care As Much, è quasi psichedelico e non imperdibile (c’è anche una canzone, Living Too Close To The Ground, scritta dall’attrice Venetia Stevenson, all’epoca moglie di Don). Completano il quadro una pimpante rilettura del traditional Shady Grove in puro stile bluegrass ed un inedito del giovane Randy Newman, Illinois, brano già con l’impronta futura del pianista e cantante di Los Angeles. Sette le tracce bonus tratte dalle sessions, la maggior parte delle quali sono canzoni originali di Phil & Don (Omaha è la migliore), completata da due preziose cover di Mr. Soul (Neil Young) e In The Good Old Days (Dolly Parton) e da una bluesata e grintosa Down In The Bottom di Willie Dixon.

Con Roots, nonostante il perdurante insuccesso del disco, gli Everly Brothers sembravano lanciati verso una nuova carriera all’insegna del country-rock, e nessuno all’epoca poteva immaginare che come duo (quandi escluse le peraltro poche fatiche soliste) avrebbero pubblicato soltanto più cinque album durante il resto della carriera, due negli anni settanta e tre negli ottanta: un motivo in più per riscoprire le registrazioni incluse in questo triplo CD.

Marco Verdi

La Decade Migliore Di Un Vero Maestro Della Canzone. Gordon Lightfoot – The Complete Singles 1970-1980

gordon lightfoot complete singles

Gordon Lightfoot – The Complete Singles 1970-1980 – Real Gone/Warner 2CD

Quando si pensa a cantanti o gruppi provenienti dal Canada la mente va subito a gente come Neil Young, The Band, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Bruce Cockburn magari anche Bryan Adams, fino ai Cowboy Junkies, ma spesso ci si dimentica di Gordon Lightfoot, grandissimo songwriter che non merita di certo una posizione subalterna ai nomi citati poc’anzi. Attivo da più di 50 anni, Lightfoot è un cantautore classico, che basa le sue canzoni su melodie semplici ma dirette, costruite attorno a pochi accordi di chitarra e con uno stile che, partendo dal folk dei suoi primi lavori degli anni sessanta, si è spostato via via verso sonorità più country. Ormai in studio è inattivo da parecchi anni (Harmony, il suo ultimo album, è del 2004), ma dal vivo è ancora in grado di dire la sua nonostante gli 80 anni d’età. Lightfoot è un grande della canzone, ed è stato fonte di ispirazione per legioni di cantautori venuti dopo di lui e non solo: lo stesso Bob Dylan ha detto più volte di provare una smisurata ammirazione per lui, al punto che nel 1986 si è concesso una delle rare apparizioni pubbliche per introdurre di persona Gordon nella Canadian Hall Of Fame (il filmato si trova facilmente su YouTube, e c’è un esilarante momento in cui Bob si incanta letteralmente a fissare una parete di monitors dietro di lui, come se non avesse mai visto un teleschermo in vita sua).

Dopo qualche successo minore negli anni sessanta, il suo meglio Lightfoot lo ha dato nella decade seguente, con una serie di dischi uno meglio dell’altro, arrivando ad avere anche una certa popolarità, con dietro di lui produttori del calibro di Lenny Waronker e Russ Titelman e con l’accompagnamento da parte di musicisti come Ry Cooder, Van Dyke Parks, David Bromberg, Jim Gordon, il fidato chitarrista Red Shea oltre ai leggendari “Nashville Cats” (Kenneth Buttrey, Charlie McCoy, Hargus “Pig” Robbins e Vassar Clements). Ora la benemerita Real Gone riepiloga quel periodo con questo bellissimo doppio CD intitolato The Complete Singles 1970-1980, che come suggerisce il titolo raggruppa tutti i 45 giri pubblicati in quegli anni dal nostro. Lightfoot non è mai stato propriamente un artista da singoli, lui pensava in termini di album, ma non si può negare che alcuni suoi brani abbiano ottenuto un buon successo proprio nel formato ormai in disuso, soprattutto canzoni come If You Could Read My Mind o Sundown, che era andata addirittura al numero uno.

The Complete Singles 1970-1980 non è certo la prima antologia dedicata a Lightfoot, ma è di sicuro una di quelle fatte meglio: 34 canzoni, 17 singoli completi tra lato A e B, senza veri e propri inediti su CD (le B-sides erano comunque brani presi dai vari album) ma con alcune rare single versions, quindi più corte. Il primo CD (1970-74) inizia curiosamente con l’unico pezzo della raccolta non scritto da Gordon, vale a dire il classico di Kris Kristofferson Me And Bobby McGee, all’epoca già un successo per Roger Miller e non ancora per Janis Joplin (ma la versione della grande cantante texana uscirà postuma nel 1971): anche la rilettura di Lightfoot è decisamente bella, con un’atmosfera western e la splendida melodia sciorinata dal nostro con la proverbiale classe e finezza (ma la sua B-side, la folkeggiante The Pony Man, non è di molto inferiore). Non mancano chiaramente i pezzi più noti del songbook del canadese, a parte le già citate If You Could Read My Mind e Sundown (davvero magnifiche), ma anche i lati B non sono di certo meno belli: un esempio è la straordinaria It’s Worth Believin’, una delle mie preferite in assoluto, un toccante country-folk contraddistinto da una melodia strepitosa.

E poi ci sono l’emozionante Poor Little Allison, con una bella steel ed orchestrata con grande gusto, la deliziosa Talking In Your Sleep, tre accordi in croce ma feeling immenso, la maestosa Summer Side Of Life (ma chi scrive ancora canzoni così oggi?), l’intensa e pianistica That Same Old Obsession, ottimo esempio di brano minore che tanto minore non è, il puro folk della cristallina Don Quixote, tra le più belle del repertorio del nostro, la vivace country song You Are What I Am, irresistibile, o la limpida e distesa Carefree Highway, una canzone quasi perfetta. Non posso citarle tutte, ma vi basti sapere che non ce n’è mezza brutta, e ciò vale anche per il secondo CD (1975-80), che contiene la famosa The Wreck Of The Edmund Fitzgerald, ma anche la vibrante Cherokee Bend, strumentazione country ma melodia tipicamente folk, la poco nota ma squisita The House You Live In, un piccolo capolavoro di equilibrio, l’ariosa ed orecchiabile Race Among The Ruins, la strepitosa The Circle Is Small (I Can See It In Your Eyes) dal refrain corale splendido, la languida Sweet Guinevere, il quasi rock’n’roll di Hangdog Hotel Room o la bella Dream Street Rose, altro pezzo di discreto successo, con uno stile leggermente più elettrico del solito.

The Complete Singles 1970-1980 è un doppio CD imperdibile, specie se siete dei neofiti per quanto riguarda Gordon Lightfoot, anche se l’unico appunto che si può fare è che come tutti i prodotti targati Real Gone non costa pochissimo.

Marco Verdi

Un Esordio Fulminante: Garantisce La “Regia” Di Dwight Yoakam! King Leg – Meet King Leg

king leg meet king leg

King Leg – Meet King Leg – Sire/Warner CD

Devo essere sincero: mi sono avvicinato a questo disco solo quando ho visto che il produttore era Dwight Yoakam, cosa resa ancora più interessante dal fatto che colui che io considero il miglior countryman degli ultimi trent’anni solitamente non presta i suoi servizi su album altrui (perfino i suoi ha iniziato a produrli da poco, cioè da quando ha interrotto la sua lunga collaborazione con Pete Anderson). King Leg è una band proveniente da Los Angeles, ma può benissimo essere considerato anche il nome d’arte del suo leader Bryan Joyce, un rocker originario del Nebraska che del gruppo è cantante solista, autore dei brani e chitarrista ritmico (gli altri membri rispondono ai nomi di Stefano Capobianco – dalle chiare origini – alla chitarra solista, Kelly King alla batteria, Daniel Rhine al basso e tastiere e Dylan Durboraw al calliope, una sorta di strano organetto vintage che fa molto Tom Waits). Dopo aver mosso i primi passi a Nashville, Joyce/King Leg si è spostato a L.A., dove è stato notato dal leggendario Lenny Waronker, uno che nella sua carriera credo abbia imparato a riconoscere il talento, che lo ha voluto nei Capitol Studios ad incidere il suo debut album per la Sire, altra etichetta dal glorioso passato.

Ed il disco, Meet King Leg (uscito lo scorso Ottobre) è una piccola bomba, un concentrato davvero stimolante di rock’n’roll, pop, atmosfere vintage ed un vago approccio punk in alcuni brani: la presenza di Yoakam ha garantito il fatto di avere un suono perfetto (ed infatti è davvero scintillante), molto basato sulle chitarre, anche se lo stile di Bryan non è per niente country (tranne che in un pezzo), ma piuttosto una fusione di puro rock californiano alla Tom Petty con atmosfere alla Byrds, qualcosa dei Ramones ed un grande amore per Roy Orbison (anche dal punto di vista vocale ci sono dei riferimenti, ed anche una certa somiglianza con Morrissey, ed infatti a Nashville il nostro per un periodo ha guidato una cover band degli Smiths). Capisco che letti così questi nomi potrebbero fare anche a pugni, ma credetemi se vi dico che, come inserirete il CD nel lettore, tutto si amalgamerà subito alla perfezione: per certi versi questo disco mi fa venire in mente l’esordio degli Shelters (lì il produttore era Petty), la stessa bravura, lo stesso tipo di canzoni dirette (anche se in quel caso erano più rock), la stessa freschezza nella proposta musicale. E Dwight, che non è uno sprovveduto, ha addirittura voluto che Joyce e compagni aprissero i suoi concerti. Apre il CD Great Outdoors (che è anche il primo singolo), un brano tra rock’n’roll e power pop, con un gran ritmo, chitarre jingle-jangle ed un motivo molto diretto, condito dalla caratteristica voce tenorile di Bryan.

Cloud City è una rock ballad decisamente particolare: dopo un inizio acustico ed attendista il suono si elettrifica di brutto, con la sezione ritmica che pesta alla grande ed il nostro che gorgheggia da par suo. La deliziosa Walking Again è un honky-tonk elettrico, unico pezzo vicino al sound di Yoakam, guizzante e chitarristico, mentre Another Man è una ballata gentile e squisita, puro folk cantautorale, che ci fa capire che i nostri hanno parecchie frecce al loro arco. Your Picture è un coinvolgente pop’n’roll ancora con il suono ruspante delle chitarre ben in evidenza (ed un bellissimo ancorché breve assolo di slide), Comfy Chair è uno slow profondo, fluido e toccante, ma con la sua bella dose di rock che entra sottopelle, con una chitarrina molto anni sessanta (in pratica una grande canzone), ed è unita in medley alla tersa A Dream That Never Ends, uno splendido brano in puro stile vintage, alla Orbison, cantato molto bene e col solito bellissimo tappeto di chitarre, una delle migliori e più evocative del CD. Wanted è ritmata, limpida ed orecchiabile ancora tra The Big O e Tom Petty, con una melodia deliziosamente fruibile, Loneliness è un’ottima e solare pop song, anch’essa potenzialmente un singolo di grande presa: più va avanti e più mi sento di metterla tra le meglio riuscite. Il disco si chiude con la cristallina Seeing You Tonight, decisamente pettyiana e con il consueto splendido suono di chitarra, la strepitosa Moaning Lisa Screaming, con il suo bel chitarrone alla Duane Eddy, una rock song strumentale nella quale però Bryan si produce in suggestivi vocalizzi, e con la cover di Running Scared, proprio il classico di Orbison: materia pericolosa, ma Joyce e compagnia se la cavano alla grande, e senza fare il verso al leggendario rocker texano, senza sfigurare neppure nel famoso crescendo finale.

Ci sarà stato anche l’aiutino dalla regia (Dwight Yoakam), ma i King Leg si dimostrano un gruppo coi controfiocchi e Bryan Joyce un frontman con carattere, personalità e talento: alla faccia di chi pensa che il rock’n’roll sia morto o morente.

Marco Verdi

Eccolo Qua, Puntuale Come Sempre, Per Fortuna Ogni Nove Anni Ritorna! Randy Newman – Dark Matter

randy newman dark matter

Randy Newman – Dark Matter – Nonesuch/Warner

Undici album di studio, compreso il nuovo, in circa cinquanta anni di carriera discografica, visto che il primo album omonimo risale al 1968 (ma già nel 1962 pubblicava un primo singolo), forse non sembrano molti: ma in mezzo ci sono stati anche due album dal vivo, i tre volumi della serie Songbook dove ha rivisitato parte del suo repertorio con nuove versioni incise per solo voce e piano, 3 antologie, un musical, Faust e una miriade di colonne sonore di film, si parla di almeno 24 film o serie televisive che hanno goduto delle delizie della penna di Randy Newman, perché di lui stiamo parlando, componente di una delle dinastie musicali più importanti proprio nell’ambito delle colonne sonore, con tre zii e quattro cugini impiegati a pieno regime dall’industria cinematografica per creare gli scores di una una infinita serie di film delle più disparate tipologie. Non a caso lo zio Alfred Newman ha vinto nove Oscar, l’altro zio Lionel un Oscar, e il terzo zio è stato “solo” nominato una volta, mentre tra i cugini solo nominations, con Randy che però due Oscar li ha vinti, per le canzoni di Monsters & Co Toy Story 3. Come ricordo nel titolo, casualmente, o forse no, gli ultimi tre album di Randy Newman sono stati tutti divisi da un arco temporale di nove anni: Bad Love uscito nel 1999, Harps And Angels uscito nel 2008, e ora questo Dark Matter nel 2017. Ancora una volta a produrre il disco ci sono Mitchell Froom e il veterano Lenny Waronker (ex presidente della Warner Bros Records e della Dreamworks), nonché, per l’occasione, anche l’ingegnere del suono David Boucher, mentre nel disco, come sempre, suona una pattuglia di eccellenti musicisti: oltre a Newman al piano e Mitchell Froom alle tastiere, Blake Mills alla chitarra, David Piltch al basso e Matt Chamberlain alla batteria, ma anche molti musicisti impiegati per le parti orchestrali e fiatistiche, e pure vocali, eleganti e complesse come di consueto: Ne consegue quindi un disco che è l’ennesimo gioiellino, raffinato e variegato, come d’uso nella discografia dell’occhialuto musicista di Los Angeles, uno dei più geniali, ironici, a volte sardonici, intelligenti e per certi versi, imprevedibili, artefici della musica popolare americana.

Nonostante questo curriculum strepitoso Randy Newman rimane fondamentalmente un artista di culto: solo Little Criminals, il suo disco del 1977 (e forse anche il migliore in assoluto, certo il più popolare, quello con Short People https://www.youtube.com/watch?v=8bfyS-S-IJs), è entrato nei Top 10 delle classifiche americane arrivando fino al nono posto, anche se la colonna sonora di Cars, che illustra il suo lato più ludico e divertente (insieme a molte altre realizzate per la Walt Disney/Pixar), è giunta nel 2006 fino al 6° posto delle charts. Ma questo ci interessa relativamente, quello che importa è che i suoi dischi siano belli e, salvo rare eccezioni, lo sono sempre stati e questo Dark Matter non fa eccezione. Il nostro amico plasma la “materia oscura” per renderla ancora una volta una opera di superbo artigianato, come vogliamo definirlo, pop cameristico, ricco di melodie, ma anche di sorprese, cinico ma con punte di sentimentalismo non bieco, piccoli racconti surreali (e manca quello sul “coso” di Trump, che si doveva chiamare What A Dick e così forse non sapremo mai se ce l’ha più grande di Putin, che invece nell’album la sua canzone ce l’ha, come pure i fratelli Kennedy e Sonny Boy Williamson); insomma, per fortuna, il “solito” Randy Newman. Si parte con The Great Debate, una sorta di mini-suite di oltre otto minuti, dai continui cambi di tempo e di atmosfera, con fiati in stile New Orelans, elementi blues, momenti sospesi tra “buie” esplosioni di archi quasi classicheggianti, improvvise scariche di neo-dixieland, gospel, intermezzi per voce e piano in cui dialoga con sé stesso sui grandi sistemi della religione, dei cambi climatici, dell’astrofisica, della politica, della scienza in generale, poi improvvise ripartenze gospel-soul degne del miglior Allen Toussaint o Dr. John, ma anche di Mister Newman, con i suoi musicisti sempre senza limiti di sorta nella loro calibrata e “scientifica” inventiva sonora.

Brothers è un dialogo immaginario tra i fratelli John e Robert Kennedy che parlano dell’invasione della Baia dei Porci, con il primo che poi confessa di un suo particolare amore per la musica di Celia Cruz (?!?), con la musica che si dipana su temi quasi da musical, tra archi e fiati sontuosi, mentre la voce partecipe e quasi affettuosa di Randy ci narra di queste vicende di Jack e Bobby, inventate ma assai verosimili, con un finale a tempo di rumba o salsa dedicato alla Cruz, che parte quando viene nominata, il tutto di una raffinatezza quasi impossibile da qualcuno che non sia Newman. E siamo solo al secondo brano. Poi tocca a Putin, una satira-canzone pare ispirata da una “rara” foto del leader russo a torso nudo, che rimugina sul suo potere e quello della sua nazione, mentre la canzone miscela temi popolari simil-russi al pop raffinato tipico di Newman, passando di nuovo per il musical, questa volta in puro stile Broadway, mentre Randy declama e le voci femminili, le Putin Girls (ricorda qualcosa?), gli rispondono in un classico call and response giocato sul “Putin if you put it Will you put it next to me?”. Questo dovrebbe essere il singolo dell’album ed in effetti è uno dei brani più “spensierati”. Lost Without You è una delle due canzoni che trattano il tema della famiglia, una ballata malinconica e crepuscolare, con solo la voce e il piano di Newman sottolineati da una sezione di archi.

Sonny Boy è la storia di Sonny Boy Williamson, il grande bluesman nero, anzi dei due “grandi bluesmen” neri, perché quando Rice Miller viaggia verso il Nord scopre che ne esiste già uno: ma mentre il primo, che è la voce narrante, viene ucciso in una rapina nel 1948, il secondo trova fama e fortuna arrivando fino in Inghilterra dove viene omaggiato da band come gli Yardbirds e gli Animals che incidono con lui, ma nella canzone di Newman, tra marcetta e blues canonico fiatistico, quello che va in Paradiso, pare il primo bluesman ad entrarvi, è il primo dei due, perché leggenda vuole che le sue ultime parole furono “Lord have mercy e il Signore ricordò. It’s A Jungle Out There è uno dei brani più vivaci e tipici del canone sonoro più disimpegnato del cantautore californiano, piacevole ma forse non memorabile, anche se il piano comunque viaggia alla grande; She Chose Me è un’altra ballata orchestrale in cui come è noto il nostro eccelle, per una volta niente cinismo, ma solo una romantica melodia ,sempre ricca di raffinata melancolia e dedicata alla “most beautiful girl that I’ve ever seen”. Anche On The Beach ha quell’aria retrò ed old fashioned, un po’ jazz e un po’ café-chantant, con cui Newman di solito riveste le sue vignette, questa volta la storia di un vecchio “surfer” ormai fuori di testa che non si è mai mosso dalla sua spiaggia e ricorda ancora i Beatles e un passato nebuloso, forse perduto, ma mai dimenticato del tutto. Chiude l’album l’ultima delle ballate romantiche e tangenti, surreali persino, almeno nel testo, Wandering Boy, un’altra delle composizioni senza tempo, solo per voce e pianoforte, che sono da sempre la cifra stilistica del grande cantautore di LA, che ancora una volta a 73 anni conferma di non avere perso il suo speciale “magic touch”. Prossimo appuntamento nel 2026!

Bruno Conti

Who Is Tom Northcott, E Da Dove Diavolo E’ Sbucato Fuori?

tom_northcott_colors_small_0.gif

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tom Northcott – Sunny Goodge Street: The Warner Bros Recording – Rhino Handmade 21-02-2012

Periodicamente nella posta (elettronica) ricevo degli aggiornamenti sulle prossime uscite ed altre interessanti iniziative della Rhino Handmade. Oggi è arrivata questa missiva che parla della imminente (?) uscita, il 21 febbraio, di questo, come al solito, lussuoso e costoso manufatto dedicato a tale Tom Northcott. E infatti l’oggetto della mail era “Who is Tom Northcott?. Ho seguito il link e mi sono andato a sentire i canonici 30 secondi per brano che si possono ascoltare come anteprima. Ma, allo stesso tempo, visto che il nome mi diceva qualcosa, sono andato alla ricerca nei miei “potenti archivi” e qualcosa è saltato fuori. Intanto in rete ho trovato che in Canada nel 2010 è uscito addirittura un libro su di lui, però allargando l’immagine della copertina si legge ” High Quality Content by WIKIPEDIA articles!”, e allora ditelo sono capace anch’io di fare un libro cosi che costa, tra l’altro, oltre 60 dollari!! Nel frattempo ho trovato nell’hard disk i due dischi di Tom Northcott in mio possesso virtuale – The Best Of Tom Northcott pubblicato dalla Warner Canada nel 1970 e Upside Downside uscito l’anno successivo e candidato ai Juno Awards – e mi sono dato all’ascolto. Il Best raccoglie anche materiale antecedente al periodo Warner e che non sarà nel CD della Rhino (20 brani in tutto, con i 10 brani del Best originale, qualche singolo e versione alternativa): i brani registrati nel 1965 come Tom Northcott & The Vancouver Playboys e Tom Northcott Trio sono tipici del sound British Invasion di quegli ann, beat e qualche tocco di psichedelia.

Ma il materiale registrato per la Warner tra il 1966 e il 1969 è altra cosa: intanto i produttori sono Leon Waronker e Leon Russell, e il materiale potremmo definirlo folk-pop-baroque-psichedelico. Ci sono cover di due brani di Harry Nilsson, 1941 e The Rainmaker, con gli arrangiamenti orchestrali di Jack Nitzsche e la voce di Tom Northcott ha dei punti in comune con quella del grande cantautore e, mi ci sono scervellato tutto il giorno, soprattutto nei brani più intimisti, con Jim Croce. Tra questi brani ci inserirei una cover di Girl Of The North Country di Dylan che ha anche tocchi tra Beatles e Beach Boys e quella di Sunny Goodge Street di Donovan. Molto belle anche una poetica ed acustica And God Created Woman e la ricercata (per i tempi) Who Planted Thorns In Miss Alice’s Garden con accenni psych.

Nel disco successivo, il leggendario, in quanto introvabile, Upside Downside, ci sono anche versioni eccellenti di I Think It’s Going To Rain Today di Randy Newman e Suzanne di Leonard Cohen (ci torniamo tra un attimo). Nel 1973 si ritira dalle scene e fonda a Vancouver i Mushroom Studios (qualche residuo psichedelico è rimasto attaccato ai capelli) dove negli anni hanno registrato anche le Heart, Bachman-Turner Overdrive, Sarah Mclachlan, Jane Siberry, Tegan & Sara e si dice siano passati anche i Led Zeppelin e Diana Ross. Ma… nel 1997 ha inciso un ulteriore album Joyful Songs Of Leonard Cohen (di questo ho solo sentito dei frammenti) con l’approvazione e il beneplacito del grande collega canadese che si è fatto anche riprendere senza l’immancabile cappello con pelata a vista di entrambi.

northc.jpg

 

 

 

 

 

E questo è quello che appare nel sito northc.html :


Tom Northcott
Canada 1997

l.  The guests
2.  Dance me to the end of love
3.  I left a woman waiting
4.  Paper thin hotel
5.  True love leaves no traces
6.  If it be your will
7.  Tower of song
8.  I’m your man
9.  Tonight will be fine
10. Hallelujah

Tom Northcott and his band: Daryl Burgess – drums, Norm Fisher – bass,
Robbie Steininger – electric guitar, Michael Creber – piano, organ, synth


Dear Tom,

..and thank you for your gifts, the red wine, the brandy, and especially your CD “Joyful Songs of Leonard Cohen”. I am grateful to you for the title and for the understanding behind the title. Thank you for your honest voice, your musical and technical skills, and for this fraternal gesture.

We haven’t been drinking much up here since you left, but I think we’re going to open that red wine tonight.

Here’s to you, Tom.

Mt.Baldy Zen Centre, July 26, 1997. Leonard

Leonard and Tom at the Rinzai Zen Center on Mt. Baldy, July 1997. The photo was taken by Tom’s son, Dan Northcott.

 

Il disco della Rhino Handmade di Tom Northcott uscirà il 21 febbraio prossimo e costerà come al solito un pacco di soldi, presumo tra i 30 e i 40 euro, se vi ha interessato buon ascolto.

E ricordate che la ricerca prosegue, c’è sempre qualcosa di “nuovo” da trovare!

Bruno Conti