Un “Nuovo” Disco di Big Walter Horton, E Che Disco! Live At The Knickerbocker

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Big Walter Horton – Live At The Knickerbocker – JSP Records

Un nuovo album di Big Walter Horton, uno dei più grandi armonicisti del Blues, a circa 33 anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel dicembre del 1981? Quasi. Riprovo: una nuova versione in CD di un disco dal vivo che ha vissuto diverse incarnazioni nel corso degli anni? Già meglio. In effetti questo Live At The Knickerbocker è uscito varie volte nel corso degli anni: una prima volta, in vinile, nel 1980 (mi sa che ce lo avevo ai tempi, la copertina mi ricorda qualcosa), a nome Walter Horton e con il titolo di Little Boy Blue, sette brani e diversa sequenza degli stessi, con una traccia attribuita a Left Hand Frank.

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Stessa copertina e titolo, per una prima edizione in CD, sempre per la JSP, uscita nel 1989, i brani diventano nove, la sequenza è quella esatta ed i primi tre sono giustamente attribuiti a Sugar Ray & The Bluetones, che poi diventano la band di supporto del grande musicista di Horn Lake, Ms, per i restanti sei. Nel 2001 (qui vado un po’ a memoria, mi sembra), esce nuovamente, questa volta come Walter Horton Live At The Knickerbocker. E siamo al 2014, questa versione appare con il nome di Big Walter Horton Featuring Ronnie Earl-Sugar Ray, nuova copertina, nuove foto, con le vecchie liner notes dell’edizione 1998 (ebbene sì, ne era uscita una versione anche quell’anno), quello che non cambia è lo straordinario contenuto di questo concerto, forse l’ultimo registrato da Horton, nel 1980, un anno prima della sua morte, ma quando era ancora in grandissima forma.

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Ed i comprimari non sono da meno: tutti giovani e molto tempo prima di essere riconosciuti tra i grandi del blues bianco degli ultimi 30 anni. Sugar Ray Norcia, alla voce e all’armonica è già un grande talento e ancor di più, alla chitarra c’è un tale Ronnie Horvath, prima di acquisire il suo titolo nobiliare di Earl del blues. Gli altri tre accompagnatori sono “Little Anthony Geraci”, ottimo pianista, il bassista Michael “Mudcat” Ward e l’unica nera del gruppo (a parte Big Walter, ovviamete), la flemmatica e misteriosa batterista Ola Mae Dixon. Nella sua lunga carriera, Big Walter Horton, definito da Willie Dixon il più grande armonicista che abbia mai ascoltato, non è quasi mai stato un prim’attore, la sua discografia è abbastanza scarna, a differenza di quella di gente come Little Walter o Sonny Boy Williamson, però ha partecipato a molte delle registrazioni cruciali della storia del blues di Chicago, come spalla di lusso.

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In questa veste forse qualcuno se lo ricorda nel film Blues Brothers, dove era l’armonicista nel gruppo di John Lee Hooker. Ma dal vivo era una forza della natura, acustico od elettrico, a detta di tutti gli appassionati di blues e di armonica in particolare, quello in possesso di una tecnica unica e di una forza nel soffio che hanno influenzato intere generazioni di strumentisti negli anni a venire https://www.youtube.com/watch?v=FghNW94YUaM . Sentite proprio uno dei suoi discepoli, Sugar Ray, come si faceva semplicemente chiamare agli esordi, nella tripletta di brani che aprono questo concerto: una Cry For You dal repertorio di Billy Boy Arnold, con il gruppo che ricorda moltissimo i Bluesbreakers dei primi anni, seguita da uno slow eccellente come Lord Knows I Tried, dove Ronnie Earl dimostra già di essere quel chitarrista formidabile che abbiamo apprezzato nel corso degli anni, al sottoscritto sembra di ascoltare un giovane Michael Bloomfield, fantastico e Sugar Ray Norcia mi ricorda alla voce il giovane Peter Green. Country Girl era uno dei cavalli di battaglia della coppia Buddy Guy/Junior Wells e i “giovani” Norcia e Horvath fanno di tutto per non farli rimpiangere https://www.youtube.com/watch?v=N-6CqQz3ilI .

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E Big Walter non è ancora arrivato, quando sale sul palco stende subito tutti con una poderosa Walter’s Shuffle, con la band che attacca un groove micidiale ed il pubblico del piccolo Knickerboxer (un caffè nel mezzo del nulla a Westerly, Rhode Island, un posto che ancora esiste, il locale ovviamente) dimostra di apprezzare https://www.youtube.com/watch?v=ZHxo3APxurI . Little Boy Blue, che dava il titolo al disco originale, è un brano di Robert Lockwood Jr., Horton non ha una gran voce, ma tonnellate di feeling e quando inizia a soffiare nell’armonica è un grande trascinatore (fisicamente non era messo molto bene, come si vede dalla foto, ma la grinta non manca). It’s Not Easy è un altro dei pezzi da novanta del suo repertorio, in origine si chiamava Easy ed era una canzone di tale Jimmy Deberry, poi qualcuno gli ha fatto notare che il brano non era poi così “easy” nel suo intricato lavoro di armonica ed il nuovo nome è rimasto, sentire per credere. Two Old Maids viaggia ad una velocità molto più sostenuta dell’originale 78 giri pubblicato da Horton per la Sun nel 1953 e dimostra che il nostro amico era ancora in forma strepitosa, circa un anno prima della sua scomparsa. Altro slow blues ed altra occasione per mostrare la sua classe per un Ronnie Earl in grande spolvero, questa volta alla slide in una grandissima What’s On Your Worried Mind? dove l’interscambio con l’armonica è continuo. La conclusione è affidata ad un altro shuffle come Walter’s Swing in cui l’armonica viaggia ancora alla grande, caspita se viaggia.

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Questo CD, se amate il Blues, va preso e messo lì nella vostra discoteca accanto al recente Magic Sam, Live At The Avant Garde, dischi così non se ne fanno quasi più!

Bruno Conti

E Sono Tre Consecutivi, Uno Meglio Dell’Altro! Charlie Musselwhite – Juke Joint Chapel

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Charlie Musselwhite – Juke Joint Chapel – Henrietta Records

Charlie Musselwhite in questi ultimi anni sta vivendo una sorta di seconda o terza giovinezza, dopo l’eccellente The Well che nel 2010 lo aveva visto esordire per la Alligator e l’ottimo Get Up registrato in coppia con Ben Harper, e candidato ai Grammy nel 2013, il musicista di Kosciusco, Mississippi, probabilmente il più grande armonicista bianco vivente, e uno dei più grandi di sempre, pubblica un ennesimo album, uscito sul finire del 2013 per la piccola etichetta Henrietta Records e quindi non facilissimo da reperire http://www.youtube.com/watch?v=t1rtvFx9Ypo .

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Si tratta della registrazione di un concerto dal vivo tenuto nell’agosto del 2012 al Juke Joint Chapel, in quel di Clarksdale, Mississippi, uno dei luoghi di nascita del blues. Devo ammettere che il CD ad un primo frettoloso ascolto non mi era parso straordinario, “business as usual” per Musselwhite, un buon disco ma niente per cui stracciarsi le vesti. E invece, ascolto dopo ascolto, questo Live si rivela uno dei migliori della carriera di Charlie: fresco e pimpante, ancora con una voce in pieno controllo, con la consueta, innata, maestria all’armonica, accompagnato dalla propria band, che ormai lo segue da parecchi anni – Matthew Stubbs, chitarrista tra i migliori attualmente in circolazione in ambito Blues, l’eclettico June Core, batterista tra i più capaci tecnicamente, anche per il suo passato nel funk e nel jazz e il bassista Mike Phillips, solido e inesorabile nel tenere il ritmo, ma capace, di tanto in tanto, di virare le sonorità del suo strumento verso un walking bass di Motowniana memoria – Musselwhite sciorina il meglio del suo repertorio (e questo spesso fa la differenza, dal vivo o su disco) in un concerto ad alta gradazione e ricco di classici, ma non solo.

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L’apertura è affidata a Bad Boy, un brano scritto da Eddie Taylor, che è l’essenza delle classiche 12 battute del Blues, cantato con convinzione da Charlie che comincia a soffiare con forza nel suo strumento, mentre Stubbs, oltre ad accompagnare, con economia di suoni, inizia ad estrarre dal suo strumento una serie di solo subito efficaci. L’atmosfera si scalda subito e la band si lancia in una rivisitazione di Roll Your Moneymaker (non Shake!), con la chitarra pungente di Stubbs ancora in evidenza, e tutto il gruppo che risponde alle esortazioni vocali del leader con un arrangiamento corale di rara efficacia. Il primo momento topico del disco (già notevole fino ad ora) è una versione da train time di un brano di Tony Joe White, As The Crow Flies, che ben si adatta alle dodici battute, Core è prodigioso dietro i suoi tamburi e i due solisti si lanciano in acrobatiche improvvisazioni sonore che deliziano il pubblico presente e noi ascoltatori privilegiati http://www.youtube.com/watch?v=ElUh83Z2QYc . Gone Too Long serve per prendere il fiato un attimo http://www.youtube.com/watch?v=BJEDkDaS18M  prima di lanciarsi in una lunga e travolgente versione di It Ain’t Right, uno dei cavalli di battaglia di Little Walter (e di Musselwhite), presa di petto a ritmi ancora più frenetici della cover di White, qui il tempo del treno è quello di un rapido in piena corsa, con l’armonica in grado di acrobazie sonore veramente letali, sembra di essere tornati ai tempi della prima Charley Musselwhite’s Southside Band, quella che esordiva su Vanguard nel lontano 1967, quest’anno, a fine gennaio, sono 70 gli anni anche per il nostro amico, ma dall’energia profusa non si direbbe.

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Inutile dire che anche Stubbs ci dà dentro alla grande. Poi si lanciano in Strange Land, il primo brano a portare la firma del titolare del disco, ma che per il drive alla Bo Diddley che gli appioppano con una vigoria inconsueta, potrebbe essere la versione abbreviata di Who Do You Love tratta da Happy Trails, con armonica aggiunta e con Stubbs che fa i numeri, notevole. E non è finita, Blues Overtook Me, una sorta di biografia in musica della vita del grande bluesman, a tempo di classico Chicago Blues, quello che ha sempre frequentato, anche quando ha lasciato la fredda Chicago per il calore della California http://www.youtube.com/watch?v=pm9LgnwCRJE . River Hip Mama ha la vigoria del blues dei primi Stones, quando idolatravano la musica che giungeva dall’America, breve e concisa http://www.youtube.com/watch?v=brLtg-ktC4A , prima di concedersi ad un suono più classico per la successiva Blues Why Do You Worry Me? Per variare il menu, Feel It In Your Heart, dai ritmi spezzati, ha quasi un flavor country & western misto a sapori latini, il tutto applicato al blues. I’m Going Home è un altro bel esempio di 12 battute classiche condite con i tempi del rock, coinvolgente e diretto e precede la conclusione immancabile dei concerti di Musselwhite, Christo Redentor, uno strumentale nel repertorio della band fin dai tempi in cui Harvey Mandel era la chitarra solista del gruppo, l’unico lento della serata, ma che finale, tra blues, jazz ed improvvisazione allo stato puro, quasi un peccato che finisca così presto. E anche Charlie fa triplete!  

Bruno Conti