Da Cat Stevens A Yusuf E Ritorno, Parte I.

cat stevens 1970

Anzi a volere essere ancora più precisi: da Steven Demetre Georgiou a Cat Stevens fino al 1978, poi dopo la sua conversione alla religione musulmana, prima Yusuf Islam, e poi in una concessione al suo passato Yusuf/Cat Stevens. Per me, ad essere sinceri, rimarrà sempre Cat Stevens, almeno a livello musicale: quel ragazzo di origine greco-cipriota che nella Swingin’ London degli anni ‘60 inizia una carriera (e proprio a voler essere addirittura pignoli, quando inizia ad esibirsi nel 1965, sceglie il nome d’arte Steve Adams). E già in quell’anno deposita il suo primo demo come autore, ovvero The First Cut Is The Deepest. Nel contempo, diventato Cat Stevens, inizia ad esibirsi nei pub e nelle coffee houses: e sviluppa anche questa passione, magari un po’ interessata per l’uso di nomignoli e poi titoli di canzoni, e infine dischi, che hanno a che fare con gli animali. Viene notato a 18 anni, nel 1966, dal manager Mike Hurst (ex degli Springfields, il gruppo della sorella Dusty), che gli fa avere un contratto la Deram, sussidiaria della Decca, che all’inizio aveva rifiutato i Beatles, ma poi non poteva continuare così, prima i Rolling Stones, e poi altri talenti del nascente panorama pop (e rock) britannico firmano con loro.

1967-1969 Le origini.

cat stevens 1967

Già a fine settembre del 1966 pubblica il primo singolo I Love My Dog (era già ecumenico sin dall’inizio). In seguito ammetterà che aveva solo aggiunto il testo ad un brano del jazzista Yuseef Lateef The Plum Blossom, musicista a cui poi pagherà sempre le royalties e che apparirà anche come coautore della canzone; il lato B Portobello Road viceversa ha il testo di Kim Fowley e musica di Stevens. Comunque il 45 giri è un successo che entra al 28° posto delle classifiche. Entrambi i brani vengono inseriti in

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Matthew And Son – 1967 Deram ***

Il primo album, prodotto proprio da Hurst, si avvale dell’utilizzo di orchestrali vari e musicisti di studio, tra cui spiccano John Paul Jones al basso e Nicky Hopkins alle tastiere nella title track Matthew And Son, che addirittura raggiunge il 2° posto nelle charts, e l’album complessivamente al n°7. Mica male per un debutto. Ovviamente negli anni il disco è uscito anche in CD, aggiungendo di volta in volta parecchi brani nelle varie riedizioni, quella del 2003 arriva a 22 pezzi. Niente per cui strapparsi le vesti, gli arrangiamenti con archi e fiati sono a tratti invadenti, però il singolo di Matthew And Son ha una bella grinta R&B con il marcato groove del basso di JP Jones, la voce di Cat Stevens che è già quella profonda e risonante che conosciamo, un tipico buon 45 giri dell’epoca, come pure I Love My Dog, arrangiamenti, ridondanti ma non irritanti, a parte, ha una bella melodia, arpeggi di chitarra acustica, a cura dello stesso Cat.

Anche Here Comes My Baby (un successo per i Tremeloes sui due lati dell’oceano) è un gradevole esempio di pop britannico dell’epoca, mentre in altre canzoni ci sono influenze sudamericane ed in altre di cantautori americani ammirati come Dylan e Paul Simon, per esempio, fischiettata a parte, nelle chitarre arpeggiate di Portobello Road. A marzo, esce un altro singolo non incluso nell’album, ma nella riedizione in CD, I’m Gonna Get Me A Gun ,che raggiunge il sesto posto delle classifiche: un buon esordio, è nata una stella. Stevens gira l’Inghilterra con Engelbert Humperdinck e Jimi Hendrix, e la casa discografica lo spedisce in studio a registrare un seguito

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New Masters -1967 Deram **1/2

Che però si rivela un clamoroso flop commerciale, anche se contiene The First Cut Is The Deepest, che sarà un grande successo per P.P. Arnold e qualche anno dopo per Rod Stewart. La canzone obiettivamente è bella, anche nella versione di Cat Stevens, un pezzo folk-pop con una melodia immediata, anche se al solito molto orchestrata: lo stesso non si può dire del resto dell’album, registrato ai Decca Studios e pubblicato a dicembre 1967. Il singolo Kitty è allegrotto, ma non particolarmente memorabile, appena meglio A Bad Night aggiunto all’edizione in CD, ma anche questo fa molto Eurovision Song Contest, insomma si fatica a ricordare qualche canzone, forse la delicata Blackness Of The Night, e nonostante il costante touring anche durante tutto il 1968, nulla succede.

1970-1978 Gli Anni Del Grande Successo

All’inizio del 1969 Stevens contrae la tubercolosi, va vicino alla morte, rimane a lungo in ospedale e poi durante una lunga convalescenza si dà alla meditazione, allo yoga, agli studi di metafisica e di altre religioni, diventa vegetariano, ed avendo molto tempo a disposizione scrive circa 40 canzoni, che poi appariranno sui suoi album nel corso degli anni successivi, e decide per un cambio totale del suo stile musicale e dei contenuti letterari dei testi: dopo una audizione con Chris Blackwell viene messo sotto contratto per la Island, che lo affida al produttore Paul Samwell-Smith, ex bassista degli Yardbirds, che per lui avrà la stessa importanza di Chas Chandler per Jimi Hendrix, e gli cuce addosso uno stile folk-rock, affiancandogli il chitarrista acustico Alun Davies, che sarebbe dovuto rimanere per un solo album, ma sarà fedele compagno ed amico in tutta la prima parte della carriera di Cat: registrato a gennaio e febbraio del 1970 tra Olympic Studios e Abbey Road arriva

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Mona Bone Jakon – 1970 Island/A&M ****

L’ho già ricordato nella recensione dell’ultimo album https://discoclub.myblog.it/2020/10/19/anche-questo-disco-compie-50-anni-facciamolo-di-nuovo-cat-stevensyusuf-tea-for-the-tillerman2/ , ma così ci togliamo il pensiero sullo strano titolo dell’album, lo ha detto lui stesso, era un nomignolo per il suo pene, che ci vogliamo fare? Venendo a cose più serie Cat Stevens firma un contratto per pubblicare i suoi album anche negli Usa con la A&M: la prima canzone del disco, e il primo singolo a uscire è Lady D’Arbanville, dedicata alla sua “vecchia” fidanzata, la modella e attrice Patty D’Arbanville, si tratta di una delicata e sognante ballata, tutta giocata sulla chitarra acustica arpeggiata in fingerpicking di Davies, ma anche sulle percussioni di Harvey Burns e il contrabbasso di John Ryan, oltre alle tastiere e alla chitarra suonate dallo stesso Stevens che inaugura quello stile particolare dove la sua voce ora sussurra, ora si arrampica, mantenendo comunque quel timbro profondo e risonante, tipico del suo stile vocale.

Come ribadisce la bellissima Maybe You’re Right dove le improvvise esplosioni della voce ben si amalgamano anche con i sobri arrangiamenti orchestrali di Del Newman, nulla a che vedere con quelli pomposi del periodo Deram. In Pop Star ci sono anche retrogusti vagamente white soul con la voce che sale e scende di continuo, sottolineata dal basso e dall’acustica e da improvvisi coretti. Nella mossa e pianistica I Think I See The Light il ritmo si fa più incalzante, con improvvise accelerazioni che ricordano come arrangiamenti quello che sull’altro lato dell’oceano stavano facendo Carole King e altri cantautori e cantautrici allora nascenti come movimento.

Altra canzone splendida di questo album è Trouble, sempre con un arrangiamento complesso e ricercato, senza rinunciare alla immediatezza delle melodie del nostro. Mona Bone Jakon, con la voce raddoppiata e minacciosa, e sapendo ora il significato del termine, potrebbe essere anche triviale, ma d’altronde pure Chuck Berry ha dedicato un brano al suo Ding-A-Ling e i bluesmem ci sguazzavano nei doppi sensi. Tre brani del disco tra l’altro vennero inseriti nella colonna sonora della commedia nera Harold e Maude, due appena ricordate e la terza, l’altrettanto bella I Wish, I Wish, una ennesima prova dell’ispirazione che lo sorreggeva in quel periodo, altro pezzo affascinante anche a livello strumentale con la chitarra di Alun Davies e il piano del nostro in bella evidenza, oltre ad intricati passaggi vocali.

La soffusa Katmandu prevede la presenza di un giovane Peter Gabriel al flauto, la breveTime, con la classiche pennate dell’acustica in primo piano, precede Fill My Eyes, un altro classico esempio del folk cantautorale sviluppato da Stevens e soci per questo album, che si chiude sulle note di Lillywhite, un’altra delle sue eteree canzoni d’amore dove gli archi di Newman sono protagonisti di un superbo lavoro di coloritura. Proprio in questi giorni è annunciata una nuova Deluxe Edition in 2 CD, di cui però non so i contenuti (ma li troverete nell’appendice di questo articolo). All’inizio l’album non sfonda subito a livello commerciale ma poi lentamente diventa disco di platino in tutto il mondo e spiana la strada per

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Tea For The Tillerman – 1970 Island/A&M *****

Il classico disco da 5 stellette, a parte per il critico del Village Voice Robert Christgau che lo definì monotono, ma il giornalista di New York era uno specialista nello stroncare i dischi (non sempre). I musicisti sono gli stessi del disco precedente, ma l’album contiene alcune canzoni che sono diventate degli standard assoluti della canzone d’autore, a partire da Father And Son una canzone sui conflitti generazionali che ancora oggi rimane il brano più popolare della discografia di Cat Stevens, come peraltro tutto l’album, tanto che come Yusuf/Cat Stevens lo ha voluto re-incidere in una nuova versione targata 2020 (ma la versione originale rimane insuperata) e la cui recensione avete letto in altre pagine virtuali del Blog.

Per cui, visto che le canzoni sono tutte famosissime e molto belle, qui le indico: Where Do The Children Play?, un capolavoro di equilibri sonori, con un testo splendido dove Stevens si interroga sul progresso e il futuro della tecnologia, il tutto cantato in modo impeccabile da Cat, che poi si supera in Hard Headed Woman dove la sua voce raggiunge vette incredibili di bellezza, mentre gli archi, la batteria, la chitarra, si intrecciano ai limiti della perfezione, molto bella Wild World la storia di un amore fallito che viene coniugata ad una musica struggente ed ad una parte cantata sempre superba, oltre che ad una melodia indimenticabile.

 E anche Sad Lisa potrebbe trattare della stessa ragazza che lo ha lasciato, ma il tema sonoro, sottolineato dal pianoforte, è più malinconico, addirittura triste a tratti, con la voce sempre più espressiva del nostro amico a sottolineare il pathos del brano. Miles From Nowhere ancora magnifica con un crescendo superbo, la voce che si erge autoritaria sull’arrangiamento avvolgente da moderno gospel, seguita dalla breve But I Might Die Tonight dove tratta il tema del futuro e del lavoro mal pagato, con un impeto e una rabbia quasi incredula. Longer Boats parte con un fade-in degno dell’afflato di certi brani di Harry Belafonte e poi si sviluppa in un’altra solenne melodia, che lascia spazio nella successiva Into White ad arditi versi porti con una musicalitàpiù intima e profonda sulle ali di un violino solista.

On The Road To Find Out con i consueti arpeggi iniziali di Davies rimandano alle origini della musica greca, sempre presente nel vocabolario sonoro della musica di Stevens, qui unite all’uso delle voci sullo sfondo per sottolineare le improvvise esplosioni della musica attraverso la batteria di Burns, di Father And Son abbiamo detto, magari vorrei sottolineare le due tonalità usate da Cat per il padre, più maturo e saggio, ed il figlio, più impetuoso ed impaziente, con un registro più alto, fino all’ingresso a metà brano anche di quella di Alun Davies, che sottolinea il testo, superba. Chiude la breve title track, la pianistica Tea For The Tillerman dedicata al “Timoniere”, effigiato anche nella copertina dell’album, disegnata dallo stesso Cat. Dell’album esiste anche una versione doppia Deluxe in CD, che vi consiglio vivamente, visto che riporta anche un paio di demo e molto materiale dal vivo (in ttesa di quell nuova in uscita al 4 dicembre). Ad ottobre del 1971, quindi sempre sulla spinta ispirativa che lo percorre senza requie, ma già registrato a partire da luglio 1970, fino a marzo dell’anno successivo, una parte in Inghilterra e parte in California, viene pubblicato, sulle ali dell’enorme successo, il terzo album di questa ideale trilogia

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Teaser And The Firecat – 1971 Island/A&M****1/2

Forse mezza stelletta in meno, ma un altro album favoloso. Oltre a Davies e Burns che rimangono, si aggiungono il bassista Larry Steele e il batterista Gerry Conway, oltre al tastierista Jean Roussel, originario delle isole Mauritius, in tre brani, e tre o quattro ospiti solo in un brano ciascuno, rimane anche Del Newman per la parte orchestrale.

Dieci brani, ancora tutti di grande spessore: apertura con The Wind, breve canzone delicata sempre costruita intorno all’interplay delle due acustiche di Stevens e Davies, a seguire, nell’alternanza dei temi e dei tempi musicali, la deliziosa Rubylove, registrata a Los Angeles, dove appaiono i due bouzouki di Andreas Toumazis e Angelos Hatzipavli a conferire un frizzante aroma greco alla musica, confermato anche da un verso cantato in lingua ellenica dal nostro, bellissimi anche gli intrecci vocali.

If I Laugh è un’altra di quelle perle acustiche che fluivano senza sforzo dalla penna di Cat, sempre abbellite da piccoli ma suggestivi interventi degli altri musicisti, in questo caso il contrabbasso e le percussioni appena accennate, oltre ai coretti dello stesso Stevens; Changes IV, uno dei brani più mossi, dove alle chitarre strimpellate si alternano le consuete esplosioni percussive della batteria, rafforzate anche dal battito di mani, mentre il testo ha quell’impeto di proselitismo di alcune sue canzoni più impegnate, estrinsecato anche nell’uso corale delle varie voci.

How Can I Tell You viceversa è una delle sue consuete dolci canzoni d’amore, impreziosita dalle armonie vocali della brava Linda Lewis (un po’ di gossip, anche lei una delle sue varie “fidanzate” dell’epoca?), ottima anche Tuesday’s Dead, con il suo sound caraibico, groove di basso irresistibile, percussioni come piovesse, l’organo Hammond di Roussel, una esplosione di pura gioia, Poi arrivano i pezzi forti dell’album (non che gli altri siano brutti): Morning Has Broken, un brano tradizionale, arrangiato ed adattato da Cat, il pianoforte fluente è suonato da Rick Wakeman, non accreditato, è una incantevole ode al giorno che si affaccia, cantata con grande trasporto da un ispirato Stevens.

Incantevole anche l’esuberante Bitterblue dove Cat Stevens ci regala un’altra grande interpretazione vocale, come ha detto qualcuno, e concordo anch’io, forse non poteva competere con la potenza vocale di un Van Morrison o con lo charme di James Taylor tra i suoi concorrenti dell’epoca, ma anche lui aveva un suo perché. Moonshadow è un altro dei grandissimi successi dell’album, oltre ad essere una canzone di notevole fascino, con un crescendo strepitoso, fino al falsetto finale e il terzo ed ultimo singolo estratto dall’album è la superba Peace Train, che traccia l’impegno sociale e spirituale crescente del suo autore, che sul ritmo incalzante della sua band rilascia una ennesima prestazione vocale di prima qualità, sorretta dai coretti gospel avvolgenti, dal lavoro discreto ma fondamentale degli archi, dalle esplosioni della batteria, e dal lavoro immancabile delle chitarre, un piccolo capolavoro.

Come per il disco precedente esiste una versione Deluxe in due CD, con demo e brani dal vivo anche registrati anni dopo, che poi sarebbe quella da avere.

Fine prima parte, segue…

Bruno Conti

Ma Che Voce Ha!?! Il “Ritorno” Di Joss Stone – The Soul Sessions Volume 2

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Joss Stone – The Soul Sessions Vol.2 – Stone’d/S-Curve/ Warner Bros 24-07-12 Europa 31-07-2012 USA – Special Edition 15 brani

Il “ritorno” è relativo, visto che Joss Stone non se ne era mai “andata”, pubblicando due album lo scorso anno, uno a nome suo, LP1, e l’altro con i SuperHeavy. Più che altro si tratta di un ritorno alle origini, a quel The Soul Sessions che nove anni fa, nel 2003, quando di anni ne compiva 16 anni, l’aveva segnalata come una delle voci più formidabili in circolazione. Joss Stone (Jocelyn Eve Stoker per la sua mamma) ha sempre avuto un contralto naturale fantastico e una sana propensione per la musica soul, genere adattissimo a quel tipo di voce, ma dopo quel primo album che conteneva una serie di cover di brani diciamo “oscuri” del repertorio black, si è affidata sempre di più, album dopo album, al lavoro e alla collaborazione con gli artisti dell’R&B e dell’Hip Hop contemporaneo che hanno snaturato il suo stile genuino (sono sempre pareri personali, poi ognuno è libero di pensarla come vuole). Anche il disco dello scorso anno, prodotto da Dave Stewart, non mi aveva entusiasmato più di tanto, al di là dei due o tre brani canonici che abbellivano comunque i suoi LP.

Per questo secondo capitolo delle Soul Sessions, la Stone si è nuovamente affidata al team della S-Curve Records (in joint venture con la sua etichetta Stone’d) e in particolare a Steve Greenberg che aveva coordinato quell’album. E i risultati si vedono o meglio si sentono, eccome se si sentono, ci sono tre o quattro brani dove canta in modo incredibile, con un feeling e una partecipazione straordinari, e la voce, senza andare sopra le righe o fare forzature innaturali, è in grado di mandare dei brividi nella schiena dell’ascoltatore, che sono sinonimi di musica di gran classe. Chi vi scrive, come forse saprete, tra le tante musiche che ascolta, ha una particolare predilezione per la musica nera e nello specifico per il soul e una passione per le belle voci femminili.

Direi che in questo album la ricerca, penso del team di produzione, si è rivolta verso brani che sono proprio da specialisti della black music, canzoni che ai tempi sono state magari anche dei successi ma che più nessuno ricorda e quindi per l’occasione, vi snocciolo una bella track-by-track anche per inquadrare i brani di cui parliamo. Per aggiungere autenticità all’album ci sono anche alcune partecipazioni i cui nomi faranno aumentare la salivazione degli appassionati, gente come Ernie Isley degli Isley Brothers alla chitarra, il grande Delbert McClinton (anche se non sono riuscito ad individuare in quale brano appare o forse sì) e il tastierista Clayton Ivey della Muscle Shoals Rhythm Section, tutta gente che è sinonimo di qualità. Sarà anche karaoke di alta classe, come ha detto qualcuno, o musica retrò, ma preferisco questo “retro” a molta musica che viene spacciata per avanguardia sonora, per lo meno c’è un’anima (soul)! 

Per essere preciso e tassonomico mi sono anche fatto delle ricerche ed ho preso degli appunti che ora vado a sfogliare:

1° brano) I Got The… qualcuno aggiunge un soul al titolo, ma non c’è, brano di Labi Siffre, nonostante il nome che può ingannare, un vocalist maschile inglese di origine africana, attivo soprattutto negli anni ’70, grande voce. La versione di Joss Stone, a dispetto du un suono moderno, soprattutto nella sezione ritmica, si colloca a cavallo tra certi brani del Philly Sound più classico e le minisinfonie soul di Isaac Hayes per l’uso di archi, tastiere e voci femminili di supporto, buon inizio anche se non memorabile, diciamo radiofonico. L’aveva campionata anche Eminem per My Name Is.

2° brano) (For God’s Sake) Give More Power To The People, cantata a pieni polmoni e con grinta dalla Stone, è un vecchio brano dei Chi-lites, ma qui è reso con un groove segnato da un basso funkyssimo (non si potrebbe dire ma è la verita) che ricorda le cose migliori dei Rufus di Chaka Khan degli anni d’oro. C’è anche una armonica malandrina che potrebbe essere quella di Delbert McClinton.

3° brano) While You’re Out Looking For Sugar è un vecchio brano del 1969 delle Honey Cone, un formidabile trio vocale femminile anche se poco conosciute se non dagli appassionati del genere. Un brano, mosso e ritmato, con un organo insinuante e la voce a piena polmoni della Stone che invade le casse dell’impianto con effetti dirompenti.

4° brano) Sideway Shuffle, e qui diamo uno schiaffo morale ai tipi di Wikipedia che così scrivono, non è un brano di Tim Renwick (peraltro grande chitarrista inglese) che ha una S in più nel titolo, ma una canzone firmata dalla grande Linda Lewis, altra formidabile vocalist di colore inglese che ha vissuto il suo periodo di fulgore negli anni ’70 (ma tuttora in attività), quando oltre a pubblicare i suoi dischi la si trovava come background vocalist negli album di Cat Stevens, Rod Stewart, David Bowie e tantissimi altri, e in anni più recenti anche con i Jamiroquai. La Lewis, che ha una estensione vocale di cinque ottave, secondo alcuni è stata la prima ad utilizzare quella nota acuta, quasi un fischio inaudibile se non ai cani (scherzo), che è stata una caratteristica anche di Minnie Riperton e Mariah Carey. 

5° brano) I don’t want to be with nobody but you è una ballata lenta soul con fiati, scritta da Eddie Floyd di Staxiana memoria, e qui Joss Stone è nel suo campo, e canta, cazzo se canta! Senza esagerare ma con la giusta misura, a venticinque anni è nel pieno del suo sviluppo come cantante, sia come tecnica che come bravura di interprete. Varrebbe la pena solo per questo brano, se il resto non fosse comunque buono, per consigliarvi questo CD. Senti che roba!

6° brano) Teardrops è più moderna, si tratta di un brano degli anni ’80 scritto da Womack & Womack, l’avevano fatta anche Elton John e Kd Lang nell’album di duetti del 1993, ma non c’è paragone con questa versione, soul music di classe cristallina con quell’organo e gli archi che si insinuano nelle pieghe della canzone. Che è anche orecchiabile come è giusto che siano le grandi canzoni pop(olari) e cantata ancora in modo perfetto, senza esagerazioni inutili, con un finale da grande interprete.

7° brano) Stoned Out Of My Mind è un altro super funky (ditemi chi è il bassista? James Alexander) scritto da Barbara Acklin ancora per i Chi-Lites, di cui appaiono due brani nel CD, versione da manuale.

8° brano) The Love We Had (Stays On My Mind), scritta da Terry Callier per i Dells è un’altra slow ballad fantastica, mi sarebbe piaciuto ascoltarla cantata da Aretha o da Dionne Warwick, armonie vocali femminili da sballo e un’altra interpretazione magnifica di Joss Stone, “accontentiamoci”!

9° brano) The High Road, introdotta dalla chitarra spaziale di Ernie potrebbe essere uno di quei brani magici degli Isley Brothers futuribili del periodo Epic dei primi anni ’70, ma in effetti è un brano contemporaneo firmato da James Mercer (Shins) e Brian Burton (aka Danger Mouse) per il loro progetto come Broken Bells. Dovrebbe essere uno dei singoli dell’album come era stato per la cover del brano dei White Stripes, Fell In Love With A Boy, nelle precedenti Soul Sessions.

10° brano) Pillow Talk è un vecchio successo del 1973 di Sylvia (Robinson) che poi sarebbe stata la fondatrice a fine anni ’70 della Sugar Hill Records. La canzone in origine era stato scritta per Al Green, e il brano, in quella versione, oltre a tutto, anticipava, con i suoi gemiti e lamenti e un groove molto scandito, di un paio d’anni, la Donna Summer di Love To Love you Baby e la disco. Con le sue percussioni, il wah wah, un organo magico, la giusta dose di riverbero e gli urletti mirati, questa versione della Stone è una piccola lezione su come fare del funky di classe senza scadere nello scontato. La base ritmica del brano è stata usata anche da Kate Bush per Running Up That Hill, per la serie non si butta via niente.

11° brano) Then You Can Tell Me Goodbye è un brano scritto in origine da John D. Loudermilk per Don Cherry nel 1962, poi è diventato un brano doo-wop nella versione dei Casinos, molti anni dopo il boom di questo genere e infine, in versione country, un successo per Eddy Arnold. Questa versione di Joss Stone la fa diventare una dolcissima ballata con l’accompagnamento di una chitarra acustica pizzicata e una sezione archi, nonché le immancabili voci femminili di supporto e come tutti i brani lenti è manna dal cielo per la voce di Joss  Stone, forse un filo di melassa di troppo ma comunque molto buona.

Varrebbe già la pena per questi 11 brani, ma nella versione Special del disco ce ne sono altri quattro ancora più oscuri e goduriosi: una First Taste Of Hurt scritta da tale Wilson Turbinton, che sarebbe il mitico Willie Tee dei grandi Wild Magnolias, una delle formazioni cardine del suono di New Orleans, One Love In My Lifetime era un brano del repertorio della Diana Ross degli anni ’70 e in generale in questo album di Joss Stone ci sono quei momenti “panterati” tipici dell’ex cantante delle Supremes. Nothing Take The Place of You è addirittura da “archeologi” del soul, un brano firmato da Toussaint McCall, altro genio minore della musica soul della Louisiana, mentre la conclusiva (1-2-3-4-5-6-7) Count The Days è stato un brano minore di Inez & Charlie Foxx che sono passati alla storia del pop per quella Mockingbird che quasi tutti conoscono però nella versione di James Taylor e Carly Simon.

Questa volta mi sono cimentato un poco nell’arte delle citazioni e dei richiami che è uno dei piaceri nascosti del parlare della musica pop e soul ma l’argomento trattato lo consentiva. Se poi vi viene voglia di andare alla ricerca anche delle versioni originali, non sarebbe una cattiva idea. Ripetiamolo, sarà musica retrò come poche, ma fatta un gran bene, insieme a quello di Rumer uno dei migliori dischi di cover dell’anno, casualmente belle voci entrambe! Adesso aspettiamo il terzo capitolo fra una decina d’anni.

Bruno Conti