Ma Allora E’ Vero! Ry Cooder And Corridos Famosos – Live In San Francisco

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Ry Cooder And Corridos Famosos – Live in San Francisco – Nonesuch CD

Quando ho letto qualche mese fa che il grande Ry Cooder stava per pubblicare un album live, elettrico e con tanto di full band, con egli stesso come leader (come una “qualunque” rockstar), pensavo di aver letto male, tanto più che l’unico live album ufficiale della sua carriera “rock”, Showtime, risale al lontano 1977.

Invece, come ho scritto nel titolo del Post, è assolutamente vero: c’è da dire che è dal 2005 che Cooder è tornato a fare dischi a suo nome nel modo tradizionale (Chavez Ravine, così così anche perché Ry cantava solo quattro brani, seguito poi da altri quattro splendidi dischi a tema, dei quali quello dello scorso anno, Election Special, è forse il migliore  ho-come-l-impressione-che-mitt-romney-non-gli-piaccia-e-nean.html) dopo quasi vent’anni di colonne sonore e collaborazioni strane e meno strane (ricordo con piacere il disco con Ali Farka Touré, Talking Timbuktu, il supergruppo dei Little Village – ma una bella ristampa con un bonus CD dal vivo no? – e soprattutto il primo Buena Vista Social Club, che ha sdoganato in una botta sola quasi un secolo di musica cubana).

Live è stato registrato nel 2011, casualmente (o forse no) nello stesso luogo dal quale provenivano le performance poi finite su Showtime, cioè la Great American Music Hall di San Francisco: sul palco con Ry ci sono il figlio Joachim alla batteria, la quasi cognata Juliette Commagère alla voce, Robert Francis al basso e le due voci nere, l’habitué Terry Evans ed Arnold McCuller.

Poi, come ciliegina (e che ciliegina), abbiamo il mitico Flaco Jimenez all’accordion ed un gruppo di giovani fiati messicani, dieci elementi, denominati La Banda Juvenil, che suonano come dei veterani. Ebbene, con un corredo così, il risultato non può che essere notevole, ed infatti Cooder, che è in serata di grazia, si amalgama alla perfezione con la sua large band (chiamata per l’occasione Corridos Famosos), deliziandoci con dodici canzoni, una meglio dell’altra, che fanno risultare Live anche più bello di Showtime.

Il concerto inizia con Crazy ‘Bout An Automobile, con Ry subito padrone con la sua leggendaria slide, la voce forte ed intonata, ed il gruppo (per ora senza i messicani) che lo segue subito come un treno; Why Don’t You Try Me aggiunge i fiati, per un trascinante brano a metà tra l’errebi e le sonorità di New Orleans (come la precedente è tratta da Borderline).

Boomer’s Story è il primo vero pezzo forte della serata, una versione lenta, struggente, di grande feeling, un classico assoluto rivisitato alla grande; Lord Tell Me Why è molto annerita, ed è quella che mi piace meno, ma poi arriva Flaco ed i nostri partono con un’irresistibile versione dell’evergreen di Woody Guthrie Do Re Mi, davvero splendida.

School Is Out prosegue con il ritmo e con i duelli tra la chitarra di Cooder e la fisa di Jimenez, ma poi arriva The Dark End Of The Street, che era già un highlight di Showtime, ed il livello sale alle stelle (gli americani direbbero “show-stopper”): sette minuti incredibili, con il nostro che suona in maniera divina, ed il pubblico in totale silenzio, quasi incredulo.

El Corrido De Jesse James, uno dei pezzi più recenti di Ry, fa riprendere la fiesta, mentre Wooly Bully (proprio il successo di Sam The Sham & The Pharaos) riempie la sala di ritmo e di rock’n’roll. Volver Volver, già un classico nel repertorio dei Los Lobos, viene cantata (bene) dalla Commagere, mentre il finale è appannaggio di una versione piuttosto dura e spigolosa di Vigilante Man (ancora Guthrie) e del superclassico di Leadbelly Goodnight Irene, con tutti i musicisti assieme sul palco, un’altra rilettura da manuale (questo è un po’ l’anno della riscoperta di questa canzone, già Eric Clapton ne aveva fatta un’ottima versione nell’ultimo Old Sock  manolenta-va-ai-caraibi-eric-clapton-old-sock.html).

Grande disco: peccato solo che non sia doppio (e che non ci sia anche il DVD accluso).

Marco Verdi

Ho Come L’Impressione Che Mitt Romney Non Gli Piaccia (E Neanche Al Suo Cane)! Ry Cooder – Election Special

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Ry Cooder – Election Special – Nonesuch/Warner 21-08-2012

Questo Election Special è solo il suo 16° disco da solista, in una carriera iniziata nel lontano 1970, senza contare le innumerevoli collaborazioni e le colonne sonore, ma dal 2005, prima con Chavez Ravine e poi con la trilogia My Name Is Buddy, I, Flathead e Pull Up Some Dust And Sit Down, per non dire della notevole collaborazione con i Chieftains in San Patricio, la sua discografia ha ripreso vigore e qualità, oltre a un ritorno ai primi amori del blues e del folk, dopo gli anni della musica etnica e cubana e delle colonne sonore.

Cooder è sempre stato un grande musicista, riconosciuto come il più grande chitarrista slide bianco (anche se forse, per la potenza, Johnny Winter gli si avvicinava, con uno stile diverso, e negli anni a seguire ha(nno) creato molti discepoli) e uno dei più grandi ricercatori della musica popolare (e rock) americana. Ma nella sua scrittura è sempre stata presente anche una vena sarcastica, alla Randy Newman per intenderci, che negli ultimi anni si è trasformata in impegno politico, senza mai perdere di vista la forza della musica che in Cooder, come già ricordato, prende linfa soprattutto dal Blues in tutte le sue forme e generi. 

Un paio di settimane fa ha dato una bella intervista al quotidiano inglese The Guardian, che se volete potete leggere qui ry-cooder-mitt-romney-dangerous-cruel?newsfeed=true , (sempre citare la fonte), dove definisce il candidato presidenziale americano, il rivale di Obama, Mitt Romney “un uomo pericoloso, un uomo crudele”! E sarà anche per questo, visto attraverso gli occhi del suo setter e delle sue disavventure, raccontate dalla stampa americana e reiterate più volte da Letterman nel suo show, che gli ha dedicato un Mutt Romney Blues. Lui e il figlio Joachim alle percussioni, costruiscono un quadretto blues acustico degno delle migliori canzoni di Boomer’s Story o di Paradise And Lunch. Non entro nel merito del Cooder “politico” perché non sono in grado di giudicare (anche se Romney, oltre che al suo cane e al buon Ryland non ispira molta fiducia neppure al sottoscritto), se volete approfondire, l’intervista citata è molto esplicita.

Brother Is Gone, un delicato brano di impostazione folk guidato dal mandolino ma arricchito da una strumentazione avvolgente curata anche dalle percussioni del figlio, racconta la storia dei fratelli miliardari David e Charles Koch. Mentre in The Wall Street Part Of Town dedicata agli occupanti di Zuccotti Park comincia ad affilare la sua slide con un riff stonesiano, “tanto di cappello dinnanzi a Ry Cooder”, come ebbe a dire Keith Richards nella sua autobiografia Life. (pag.229)

Anche Guantamano ha quel drive tra soul, blues e rock che fa parte del Cooder che più amo, etnomusicologo e polemista, ma caspita se suona, il riff non è uno sconosciuto nel suo DNA, se Richards è il numero due tra i “riffmeisters” (naturalmente Chuck Berry è il capostipite), Ry è lì nella Top Ten. Un nervoso e inquieto Obama che si aggira nottetempo per la Casa Bianca è il soggetto di un fantastico slow blues cadenzato come Cold Cold Feeling, degno delle sue pagine migliori. Prego notare che in questo disco Ry Cooder sembra avere ritrovato anche una grinta e una capacità vocale che si credeva perduta dopo anni di musica strumentale. Il country-folk campagnolo da string band di Going To Tampa è un’altra delle molte sfaccettature della musica presente in questo album.

Se la rivista Uncut ha eletto questo Election Special “Disco del mese” una ragione ci sarà, oltre al fatto che il recensore Bud Scoppa è un compatriota di Cooder ed ha sempre amato l’opera del musicista californiano. Kool-Aid è un blues elettrico futuristico che per certi versi mi ha ricordato alcune cose dei sottovalutati Little Village, il gruppo dove Cooder militava con John Hiatt e Nick Lowe, e la slide qui viaggia alla grande! Nel centenario di Woody Guthrie, Cooder ha composto anche un brano antimilitarista come The 90 and The 9, degno erede delle parabole guthriane, coro singalong compreso. Anche la conclusiva Take Your Hands Off It difende la Costituzione e la carta dei diritti, ma lo fa al tempo di un rock-blues che rispolvera i ritmi e la “cattiveria” di Bop Til You Drop o di Slide Area.

Qualcuno ha detto che questo Election Special è meno vario musicalmente del precedente Pull Up Some Dust…, troppo “blues monocorde” ma per me è, ancora una volta, un esempio del miglior Ry Cooder. Sarà pure un “instant record” per i contenuti ma averne di dischi così!

Bruno Conti

P.S. Complimenti a tale Biamaku, che ha realizzato i tre video non ufficiali postati su YouTube, notevoli!

E Intanto John Hiatt Non Sbaglia Un Colpo! Dirty Jeans And Mudslide Hymns

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John Hiatt – Dirty Jeans And Mudslide Hymns – New West/Ird

Il titolo del Post parafrasa una vecchia canzone di Carboni che faceva riferimento a Dustin Hoffman (e forse l’ho anche già usato, ma ne scrivo talmente tanti che non mi ricordo, forse no) e si può applicare anche a John Hiatt e a questo suo nuovo Dirty Jeans…. Si diceva che è il ventesimo album di studio del musicista di Indianapolis (oltre a Live, raccolte e ai Little Village) e la bilancia pende sempre dalla parte della qualità.

Ci saranno le solite critiche: i dischi sembrano sempre “simili” tra loro, la voce a qualcuno dà “fastidio”, da quando non fa più la vita dell’outsider con sesso, droga e rock’n’roll (ma da anni ormai) le canzoni hanno perso quella patina di vita ai limiti, borderline, si tira dietro anche la figlia nelle tournée. Ma io rispondo, meglio tanti dischi di Hiatt, tutti uguali tra loro, comunque sempre belli, che decine, anzi centinaia di album inutili che escono ogni mese. La voce, ormai, è un gusto acquisito, ruvida ma gentile, subito riconoscibile, è una sorta di marchio di fabbrica, come per Springsteen, Petty, Morrison sai subito con chi hai a che fare. Oltre a tutto, in Italia, il nostro amico John è conosciuto soprattutto per Have A Little Faith In Me, che era la musica di una pubblicità di un budino e manco nella sua versione, e peraltro rimane, a detta di Hiatt, il suo miglior brano o quello che meglio lo rappresenta, però di canzoni belle ne ha scritte tantissime nel corso degli anni, per sé e per gli altri.

Per esempio, Train To Birmingham, che in concerto esegue da parecchio tempo e di cui esiste, tra gli altri, una bella cover di Kevin Welch, potrebbe essere una delle migliori canzoni in assoluto dedicate alla cittadina dell’Alabama, insieme a Boulder To Birmingham di Emmylou Harris, When Jesus left Birmingham di Mellencamp, Birmingham di Randy Newman, tanto per citarne alcune che ricordo ma ce ne sono a decine, anche Sweet Home Alabama la cita nel testo. Ebbene, un brano così bello, non lo aveva mai inciso fino a oggi, non solo, in un’intervista ha dichiarato che risale addirittura a 40 anni fa, una canzone scritta quando aveva circa 19 anni e mai utilizzata. Per la serie che c’è gente che ucciderebbe per scrivere certe canzoni ma, sfortunamente, non può e lui le scarta, e quasi ogni anno pubblica immancabilmente un disco nuovo.  La versione incisa per questo album, con la slide di Doug Lancio in evidenza, ha la serena consapevolezza della musica attuale di John Hiatt, tra country, blues e southern roots music come nelle sue migliori abitudini. Anche un brano come la conclusiva When New York Had Her Heart Broken, che è più farina del sacco del produttore Kevin Shirley a livello musicale, e nelle sue derive ambientali ricorda vagamente certe produzioni di Lanois, è un brano scritto una decina di anni fa in occasione dell’attacco alle Torri Gemelle e poi non usato, rispolverato per l’occasione su richiesta dello stesso Shirley, che si trovava a New Yo rk con la famiglia e ha un particolare ricordo di quell’avvenimento. Non sarà bellissima, ma emoziona e ha un suo fascino particolare, diverso dallo stile abituale di Hiatt.

Il resto è il “solito” Hiatt ma averne di dischi così: dopo vari ascolti mi sembra di poter dire che siamo più o meno ai livelli del precedente The Open Road (uno dei suoi migliori in assoluto), ci mette un attimo di più a entrarti in testa ma è pieno di belle canzoni. Dal rock tirato e chitarristico dell’iniziale Damn This Town con la solita slide di Lancio in caccia di assoli, la ritmica di Patrick O’Hearn e Kenny Blevins sempre precisa e inventiva, forse la differenza è nel suono più “professionale” di Shirley con la batteria più marcata, una coloritura delle tastiere che rimangono ai limiti della percezione ma incidono nel suono, la voce in primo piano, ma non mi sembrano elementi fastidiosi e si notano nei brani più mossi. Nei “suoi” pezzi come la ballata a tempo di valzerone country ‘Til I Get My Lovin’ Back con la pedal steel di Russ Pahl in grande spolvero, torna il suo proverbiale romanticismo e il suono ti si adatta come un paio di vecchi calzini, con rispetto parlando. I Love That Girl ha l’aspetto gioioso delle canzoni più allegre di Hiatt con il call and response irresistibile dei cori che si riallaccia alle migliori tradizioni del R&B più spensierato e lui la canta con una convinzione ammirevole.

Lo spettro sonoro si arricchisce del country-folk blues acustico della deliziosa All The Way Under con il mandolino di Lancio a duettare con una fisarmonica paesana.

Don’t Wanna Leave You Now è una delle sue classiche slow songs avvolgenti, impreziosita (o appesantita, a seconda dei punti di vista) da un sontuoso arrangiamento orchestrale di Shirley, che ricorda certe canzoni del canone di Van Morrison, ascoltate il basso di O’Hearn che ricorda i giri armonici di David Hayes. Detroit Made, di nuovo rock, riporta lla mente, per certi versi, la classica Memphis In The Meantime con la band che gira alla grande e con Lancio che si conferma degno erede dei chitarristi che lo hanno preceduto nella band di Hiatt, Cooder e Landreth in primis! Hold On For Your Love è un altro di quei lenti epici, in crescendo, che appartengono alla sua migliore tradizione, forse già sentito ma si riascolta con gran piacere anche perché lui canta, mi ripeto, con decisa e ritrovata convinzione (da qualche album a questa parte) le sue storie tipicamente americane e non manca anche in questo brano l’assolo di Lancio, veramente protagonista in questo CD.

Di Train To Birmingham abbiamo detto, Down Around My Place, con l’organo di Reese Wynans che aggiunge spessore ad un brano che è tra le perle dell’album con la sua atmosfera di nuovo epica e chitarristica, quasi acida, vagamente Younghiana, conferma il momento di grazia del cantautore dell’Indiana. Manca Adios To California, di nuovo ballata ritmata di confine con la lap steel di Pahl in grande spolvero che risponde alle chitarre di Lancio per un brano ancora una volta di grande fascino e con quella bellissima voce, tra le migliori in circolazione, che ti cattura inesorabilmente

Per me, molto bello, come sempre tra i migliori dell’anno, poi fate voi, ma state attenti che vi controllo!

Bruno Conti