Poco Prolifica, Ma Di Gran Classe. Lou Ann Barton – The Best!

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Lou Ann Barton – The Best – Rockbeat Records

Lou Ann Barton è uno di quei casi, purtroppo non infrequenti, in cui il talento e la bravura sono inversamente proporzionali alla popolarità del soggetto in questione. Non completamente, perché fans, addetti ai lavori, critici e, soprattutto, colleghi musicisti la portano, giustamente, in palmo di mano. Sulla scena musicale, soprattutto Austin, Houston ed il Texas in generale, da una quarantina di anni, la nostra amica ha iniziato con quella pattuglia di musicisti che era guidata dai due fratelli Vaughan, Jimmie prima e Stevie Ray in un secondo momento https://www.youtube.com/watch?v=90XHXDQNuno , in giro per polverosi e scalcinati locali sin dai primi anni ’70 (alcuni leggendari come l’Antones’s o il Continental, ma perlopiù buchi fumosi e mal frequentati, dove però la musica è sempre stata ottima). Le eccellenti note del libretto contenuto in questa antologia tracciano attraverso le “voci” di alcuni personaggi il percorso della carriera di Lou Ann. Apre Etta James, che a sorpresa (ma non troppo) la definisce come “una cantante che non cerca di atteggiarsi a nera è proprio nera”, anzi, testuali parole, “ha un’anima nera, una delle più sottovalutate cantanti della scena blues e soul” di quello scorcio di secolo, “se scriveranno una Bibbia del Blues e non ci sarà un capitolo dedicato a lei sarà una fottuta vergogna”. Ho voluto riportare questa giudizio da parte di una delle più grandi cantanti che la musica (nera e bianca) abbia mai avuto perché sono vere e sincere.

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Anche Jerry Wexler (che ha prodotto il suo album d’esordio, con Glenn Frey) uno dei “miti” del music business americano, Buddy Guy che ricorda che Stevie Ray Vaughan gli disse che era più brava di Janis Joplin e come “sistemò” il suo pard Junior Wells quando la inseguiva sussurrandole in un orecchio, “pussy, pussy, pussy” (i musicisti non sempre sono finissimi, e non solo loro), o il sassofonista Johnny Reno che ricorda i loro primi passi con Roomful Of Blues e Fabulous Thunderbirds. Proprio il leader dei T-Birds (dei quali, Lou Ann sposò il bassista, Keith Ferguson, ma non andò molto bene, però è un’altra storia, per quanto…), Jimmie Vaughan è stato il suo più grande estimatore, a lungo compagno di lavoro e, ultimamente, datore di lavoro nei recenti lavori con i Titl-A-Whirl. Giustamente uno si chiede, con tutta questa unanimità perché Lou Ann Barton non sia famosa come Janis Joplin o almeno Bonnie Raitt o Susan Tedeschi?

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Nemmeno dieci album in quasi quaranta anni di carriera, collaborazioni e semi-bootleg live compresi! Lo ammette lei stessa in una intervista con un giornale locale texano: per molti anni era famosa soprattutto perché era “No-show Lou Ann”, a causa dei suoi problemi di alcolismo e con altre sostanze, spesso ai suoi concerti non la vedevano neppure. Adesso, da una quindicina di anni, dice di essere sobria, e secondo, chi l’ha vista, mi fido, dimostra dieci anni meno dei 60 appena compiuti, ma forse è troppo tardi. Vedremo se questa ottima antologia riuscirà a raddrizzare le sorti della sua carriera. La vedo dura, ma se vi capita di mettere le mani su questo The Best, e non avete già più o meno tutto, sparso sugli album della discografia non lasciatevelo sfuggire. Nel caso, ci sono anche sette inediti: i primi cinque brani, tutti mai pubblicati, fanno parte di un demo registrato per e con Jerry Wexler nei primi anni ’80, qualità sonora ruspante ma anche la musica, per fortuna, cinque semi-classici come Rocket In My Pocket, Sugar Coated Love, Good Rockin’ Daddy, Every Night Of The Week e Maybe, scaldano subito i cuori con la loro miscela di blues, soul, R&R e musica texana, che sarà (quasi) sempre la stella polare della sua musica, cantati con una voce pimpante, cristallina ma anche vissuta, che è stata definita un incrocio tra Kay Starr e Dinah Washington, o Patsy Cline e Big Maybelle, anche se lei ha sempre avuto come punto di riferimento voci maschili come Little Richard e Jimmy Reed, sempre in buona compagnia comunque.

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Nel dischetto scorrono brani dal citato Old Enough, prodotto dalla coppia Frey-Wexler, dal suono forse un poco “leccato” ma che fa intuire il suo talento https://www.youtube.com/watch?v=JrvjokCl-08 , molti, sei, da Read My Lips, il migliore, quello pubblicato per la Antone’s nel 1989 https://www.youtube.com/watch?v=SR2VzTdvbB4 , tra cui il suo cavallo di battaglia, You Can Have My Husband https://www.youtube.com/watch?v=n7MFWNo3Fks e una poderosa Shake Your Hips. Un paio da Dreams Come True, la collaborazione con le altrettanto talentuose Marcia Ball e Angela Strehli, prodotta da Dr.John, tre da varie collaborazioni con Jimmie Vaughan, anche delle recente accoppiata Blues, Ballads and Favorites. Un lungo brano inedito dal vivo in studio, Shake A Hand https://www.youtube.com/watch?v=k35gbRk91_I , con la stessa formazione dei dischi con Jimmie. E di chitarristi ottimi Lou Ann nei suoi disch ne ha avuti tanti, oltre ai fratelli Vaughan, Derek O’Brien, Denny Freeman e David Grissom, tutti presenti nei brani di questa ottima antologia. Se amate le voci femminili blues oriented non andate a cercare troppo lontano!                 

Bruno Conti  

Non Malvagio, Anche Se L’Originale E’ Meglio! Denny Freeman – Diggin’ On Dylan

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Denny Freeman –  Diggin’ On Dylan – V8 Records

Ancorché nativo di Orlando, Florida Denny Freeman è, a tutti gli effetti, uno della miriade di chitarristi texani che calcano le scene americane da più tempo, grazie alla sua adolescenza trascorsa a Dallas e poi ad una lunga militanza nella scena blues locale. Addirittura la sua carriera inizia nel 1970 come chitarra solista nei Cobras, il primissimo gruppo in cui militava un giovanissimo Stevie Ray Vaughan, più giovane di lui di dieci anni. Nel corso degli anni ‘70 ha suonato con W.C. Clark, Angela Strehli e poi, più tardi, anche con Lou Ann Burton e nuovamente con i due fratelli Vaughan, facendo anche il pianista e il session man in generale con grandi bluesman come Otis Rush, Albert Collins, Buddy Guy & Junior Wells, una lunga gavetta che gli ha permesso di guadagnarsi la reputazione di uno dei migliori stilisti della chitarra elettrica blues tra i bianchi texani e non solo. La sua carriera solista non è cospicua, tra una partecipazione e l’altra, ha inciso 5 album solisti, il primo, Out Of The Blue, nel 1987, gli ultimi due Twang Bang e A Tone For My Sins; in mezzo è uscito anche un disco dal vivo con i Cobras, pubblicato dalla tedesca Crosscut nel 2000, ma registrato nel 1981, a questo punto aggiungiamo anche il disco omonimo del 1991 e otteniamo la discografia completa.

Mi sembra di essermi già occupato di lui sul Busca (anche se non avendo tenuto un archivio delle vecchie recensioni non ricordo per quale album, mi pare, proprio il live). Fondamentalmente Freeman suona Blues, ma dal 2005 al 2009 è stato uno dei chitarristi della touring band di Bob Dylan, apparendo anche nel disco di studio del 2006, Modern Times. Gruppo per il quale lo stesso Dylan aveva espresso approvazione in alcune interviste, dichiarando che quella formazione era la migliore con cui avesse mai suonato. Siccome sappiamo che non sempre il vecchio Bob è attendibile e coerente in quello che dichiara, il tutto è da prendere con le pinze, ma Denny Freeman è sicuramente un ottimo chitarrista, forse più come gregario che non come solista, in quanto non essendo cantante, i suoi dischi sono strumentali.

Anche questo Diggin’ On Dylan è un album di musica strumentale, sottotitolo Denny Freeman Plays Songs Of Bob Dylan. E devo dire che le suona bene, alternando la sua perizia alla chitarra (che rimane lo strumento principe), con tastiere, soprattutto organo, e armonica e avvalendosi anche dell’uso di violino e fiati in alcuni brani, il risultato finale è più che dignitoso. Non sempre le versioni sono memorabili, ma lo stesso Dylan ogni tanto le maltratta dal vivo, qui più che altro, di tanto in tanto, ci si affida al mestiere e gli arrangiamenti sono un po’ scontati. Ma ad esempio l’idea di suonare Masters Of War come fosse una novella Voodoo Chile, con profusione di wah-wah a piè sospinto o il valzerone con uso di violino romantico e fiati, come nella elegiaca My Back Pages, non sono idee peregrine. The Times They Are-A Changin’ anche nella versione strumentale con chitarra e violino sugli scudi rimane un inno inossidabile al passare del tempo mentre Tangled Up In Blue acquista una atmosfera funky-jazz-soul alla Booker T o Smith/Montgomery. Don’t Think Twice Is Alright, per l’uso anche dell’armonica, potrebbe ricordare certe rivisitazioni del canone dylaniano del giovane Stevie Wonder. Gotta Serve Somebody, inevitabilmente, mantiene la sua scansione gospel mentre Knockin’ On Heaven’s Door ha sempre avuto una forte componente chitarristica, qui forse, stranamente, un po’ troppo annacquata, per un brano che ha il suo punto di forza anche nell’assolo di chitarra delle varie versioni live che si sono succedute negli anni. Spirit On the Water, jazzata e demodé, era uno dei brani di Modern Times, dove Danny Freeman suonava all’origine, ma al di là dell’indubbia perizia stilistica non è particolarmente originale e anche un poco soporifera, per essere un brano di Dylan!

Ballad Of A Thin Man è una delle più fedeli alla versione originale e l’assolo del chitarrista texano è più convinto e ricercato. I’ll Be Your Baby Tonight, in versione western swing con violino aggiunto, non convince più di tanto e anche una morbida It Ain’t Me Baby non è che incanti molto. Blowin’ In The Wind, ancora con armonica in evidenza, ha una piacevole aria “campagnola” (country, per gli amici di madrelingua americana) e anche Queen Jane Approximately si difende bene. Senor (Tales Of Yankee Power) è una delle versioni più intense, quasi cooderiana e anche Dignity, dai tempi mossi e vivaci non è male. It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, l’ultima della serie, l’avevano già fatta, meglio, ai tempi nella gloriosa Super Session di Al Kooper e soci. Luci e ombre, un disco piacevole, per completisti dylaniani e per amanti dei dischi strumentali, forse sedici brani e settantadue minuti sono troppi, ma l’idea non era male.

Bruno Conti                                                                               

Capitolo Secondo. Jimmie Vaughan – Plays More Blues, Ballads & Favorites

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Jimmie Vaughan – Plays More Blues, Ballads & Favorites – Proper Records

All’incirca un anno fa vi parlavo del primo capitolo di questo disco a-volte1.html. Il cast dei protagonisti è rimasto quello, Lou Ann Barton in questo secondo Plays More Blues, Ballads and Favorites canta in 4 brani, Jimmie Vaughan canta in tutti gli altri (meno uno strumentale) e suona la chitarra da par suo in modo meno parsimonioso che nella prima puntata, con maggiore spazio dedicato al Blues sempre “vecchio stile” e in ossequio della tradizione ma con abbondante spazio a “Ballate e Vecchi Favoriti” come recita il titolo. La produzione è sempre sua, la sezione fiati guidata da Greg Piccolo è sempre presente, George Rains e Ronnie James si occupano della sezione ritmica, Billy Pittman è di nuovo il secondo chitarrista, il tutto registrato come di consueto in quel di Austin. Ma allora cosa cambia? Niente, o meglio tutto, il repertorio: altri 16 brani che oscillano tra “l’oscuro” e il “classico”, dei classici oscuri direi, non molto noti ma non per Vaughan che è una sorta di enciclopedia vivente di tutto quello che è Blues e dintorni.

L’unico brano registrato in “trasferta” è Shake A Hand, dal vivo al Grammy Museum di Los Angeles, con il compilatore delle note del libretto che si lascia prendere la mano e cita addirittura due volte Lou Ann Barton nei credits del brano forse incantato dalla sua interpretazione e ne raddoppia la presenza, ma forse ha ragione lui!

Per il resto il fratello maggiore di Stevie Ray si conferma grande stilista della chitarra, e altrettanto valido, ma diverso, questo lo dico perché mi ero beccato un cazziatone a scoppio ritardato nei “commenti” alla recensione del primo album quasi dieci mesi dopo l’uscita, pur avendone parlato in termini più che lusinghieri! E questo sotto è un tributo all’arte del fratello…

Giudizio positivo che ribadisco per questo nuovo album, sempre pimpante e divertente ma anche rigoroso e “studiato” con passione quando serve. Per chi ama il Blues “puro e non adulterato” senza cadere nella noia e nella “pallosità” come purtroppo succede di frequente. Questa volta non vi cito giudizi sui singoli brani, sono tutti belli (non resisto… con una preferenza per Cried Like A Baby, ragazzi se suona) , per cui mi limito alla tracklist:

  1. I Ain’t Never
  2. No Use Knocking
  3. Teardrop Blues
  4. I Hang My Head And Cry
  5. It’s Been A Long Time
  6. Breaking Up Is Hard To Do
  7. What Makes You So Tough
  8. Greenbacks
  9. I’m In The Mood For You
  10. I Ain’t Gonna Do It No More
  11. Cried Like A Baby
  12. Oh Oh Oh
  13. I’m Gonna Love You
  14. Rains Came
  15. Bad Bad Whiskey
  16. Shake A Hand                

Ottimo ed abbondante!

Bruno Conti

Piacevole Texas Blues. Johnny Moeller – BlooGaLoo

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Johnny Moeller – BlooGaLoo! – Severn Records/Ird

Era da un po’ di tempo che ci giravo intorno, quando le copie da recensire sono diventate due mi è parso inevitabile parlarne!

Johnny Moeller non è sicuramente uno dei primi nomi che balza alla mente quando viene chiesto il nome di un chitarrista texano ma fa parte anche lui di quella lunga lista (è nato a Forth Worth una quarantina di anni fa). Ultimamente il suo nome ricorre perché, dal 2007, è il nuovo chitarrista dei Fabulous Thunderbirds ma in passato scorrendo le note di molti dischi di blues da Darrell Nulisch a Gary Primich passando per Lou Ann Barton vi può essere capitato di imbattervi nel suo nome.

A cavallo tra fine anni ’90 e l’inizio della prima decade del 2000 ha già fatto un paio di dischi per un’etichetta locale di Dallas, non a suo nome, ma erano produzioni super indipendenti quindi dobbiamo considerare questo Bloogaloo il suo esordio da solista.
Non sarà questo il disco che scuoterà il blues dalle sua fondamenta ma si tratta di un dischetto, inteso come CD, molto piacevole e vario. Con la partecipazione di alcuni “amici” e in un giusto equilibrio tra cover e brani originali, tra brani strumentali e pezzi cantati (che non sono il suo forte) il disco scorre via piacevolmente, undici brani, poco più di trentacinque minuti di musica.
Si parte con il divertente strumentale Bloogaloo, un Blues misto a Boogaloo, spumeggiante e ritmato con la chitarra di Moeller che intreccia le sue traiettorie con l’organo di Matt Farrell mentre i fiati aggiungono una nota di colore. Sembrano quelle canzoncine stile anni ’60 che si vedevano nei telefilm americani di quegli anni, tipo la sigla di Batman o quelle cose.

Shawn Pittman è un altro chitarrista e cantante texano, e in questa veste di cantante viene utilizzato nella grintosa e bluesata I’m Movin’ on Up, visto che canta decisamente meglio di Moeller.  Trick Bag è un vecchio brano di Earl King, il primo dei quattro cantati da Moeller; conferma che il nostro amico non verrà ricordato negli annali del blues alla voce “grandi cantanti”, temo di no, mentre la parte strumentale è più che adeguata. Got a feelin’ è il primo dei due brani dove appare Kim Wilson alla voce e all’armonica, visto che i T-Birds nella nuova formazione non hanno ancora inciso nulla ma suonato solo dal vivo è l’occasione per sentire il loro classico sound riproposto ancora una volta con mucho gusto. I’m Stuck on you è un duetto tra Moeller e Lou Ann Barton, la cui voce rivitalizza il brano. Theme from the one armed swordsman è un altro di quei brani strumentali da party che sembrano essere uno dei temi musicali preferiti dal nostro amico, piacevole ma nulla più.

Evidentemente Earl King è un musicista che piace a Johnny Moeller visto che è la seconda cover del suo repertorio che appare in questo CD: Everybody’s Got To Cry Sometime, più bluesata della precedente si avvale di una ottima e sentita interpretazione vocale di Lou Ann Barton (ottima cantante molto sottovalutata) e di un pungente lavoro di chitarra del titolare dell’album che illustra i suoi meriti come solista.
Raise your hands è un piacevole funkettone molto cadenzato con un eccellente lavoro nella parte strumentale ed una meno soddisfacente parte vocale a cura del solito Moeller. A questo punto meglio la tirata Well Goodbye Baby cantata ancora con molta partecipazione da Kim Wilson, solito T-Bird style ma grinta e ritmo a volontà. Shufflin’ Around, lo dice il titolo stesso, è uno shuffle strumentale con chitarra e sax a dividersi con il piano gli interventi solistici, non male con quel classico sound del vecchio blues dei tempi che furono.
Tease me baby è un vecchio boogie che John Lee Hooker faceva anche con i Canned Heat, questa versione solo voce (Moeller) e chitarra devo dire che mi ha fatto rimpiangere non poco il vocione del vecchio “Hook”.

Bruno Conti

A Volte Ritornano. Di Nuovo. Jimmie Vaughan Plays, Blues, Ballads & Favorites

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Terza e ultima anteprima Buscadero. Da domani torniamo ai post normali.

JIMMIE VAUGHAN

Plays Blues, Ballads & Favorites

Proper/Ird

Come molti sanno Jimmie Vaughan è, era, il fratello maggiore di Stevie Ray Vaughan. La loro carriera è corsa parallela per molti anni, raramente incrociandosi, proprio nel 1990 avevano inciso un disco insieme Family Style, che, purtroppo, sarebbe uscito postumo dopo la morte di Stevie Ray in un incidente con l’elicottero il 27 agosto (quindi quest’anno sono già venti anni). Per onestà bisogna dire che quel disco non era un capolavoro, non era la somma della due parti ma un compromesso tra lo stile “unico” di Stevie Ray Vaughan e quello più misurato del fratello Jimmie.

Per trovare il meglio della produzione di Jimmie Vaughan direi che bisogna risalire ai primi quattro album dei Fabulous Thunderbirds, quelli usciti per la mitica Takoma con distribuzione Chrysalis e dove la doppia leadership di Vaughan e Kim Wilson regalava mirabilie di Texas Blues misto allo swamp blues derivato da Slim Harpo e Lazy Lester da cui il gruppo attingeva; il successo non è mai arrivato e dopo altri tre dischi per la Epic nella seconda metà degli anni ’80 Jimmie ha abbandonato il gruppo, che con varie vicissitudini e cambi d’organico sopravvive a tutt’oggi.

La sua carriera solista non è stata molto prolifica, detto del disco con Stevie Ray, nel 1994 è uscito Strange Pleasures che probabilmente rimane il suo disco migliore, quello con i brani più memorabili tra cui l’eccellente Six Strings Down dedicato al fratello scomparso, perché quando vuole anche Jimmie Vaughan è un ottimo solista in grado di cavare dalla sua chitarra assoli pungenti ma raffinati, lontani dallo stile torrenziale di Stevie Ray che rimane l’unico che ha saputo avvicinare l’arte suprema di Jimi Hendrix, ma comunque efficaci. Out There del 1998 e Do You get The Blues del 2001 completano la striminzita discografia, quindi fanno nove anni senza dischi: no, per la verità, dimenticavo, nel 2007 è uscito un CD in collaborazione con Omar Kent Dykes On The Jimmy Reed Highway dedicato al grande Bluesman.

Questo nuovo Plays, Blues, Ballads & Favorites, come da titolo, ci riporta ai generi musicali preferiti dal nostro amico: quello stile ibrido legato alle origini del Rock and Roll, al primo Blues elettrico, alle ballate errebì tipiche di quegli anni, quando la musica da ballo, il pop, ma quello più raffinato erano lontani dagli “eccessi” del rock, quando l’assolo di chitarra si chiamava “break”, pausa, quindi tre o quattro accordi e poi si rientra nei ranghi dell’orchestra. pIl repertorio del disco è quasi tutto costituito da brani di quel periodo con poche eccezioni. C’è uno strumentale scintillante, Comin’ & Goin’ composto da Jimmie Vaughan, un boogie a velocità supersonica con le dita che corrono veloci sul manico della chitarra, una versione deliziosa di Funny How Time Slips Away dove la voce vissuta del veterano Bill Willis, organista e mentore di Vaughan, regala emozioni, una sentita versione di Why, Why, Why di Doug Sahm una delle personalità essenziali della musica texana, il resto viene dall’era pre-Beatles.

Sono con lui, oltre ai fidi pards George Rains e Ronnie James a batteria e basso, nonché il chitarrista ritmico Billy Pittman, una piccola sezione fiati che ricorre in molti brani e soprattutto la sua “vecchia amica” Lou Ann Barton, compagna, con Angela Strehli dei primi anni della carriera dei fratelli Vaughan.

I due cantano in duetto quattro brani, la divertente Come Love di Jimmy Reed, dove Jimmie sfodera anche un’inconsueta performance all’armonica, il blues quasi valzerato di I’m Leaving Up To You, la ritmata e trascinante I Miss You So, musica da ballo per i tempi andati e un’ottima cover del grande successo di Charlie Rich, Lonely Weekends, quasi alla Ray Charles. Lou Ann Barton, che è una delle voci più belle del genere, canta anche altri due brani, il blues lento e tirato Wheel Of Fortune, dove Vaughan strapazza un po’ la sua chitarra e una versione inconsueta di Send Me Some Lovin’ di Richard Pennyman in arte Little Richard.

Il resto è affidato alla voce di Jimmie Vaughan, piacevole ed adeguata alla bisogna anche se non sarà mai un grande cantante, e alla sua chitarra, come già detto misurata e quasi centellinata.

Un piacevole disco di “archeologia e restauro” musicale, soprattutto per amanti del genere ma consigliato per la sua piacevole leggerezza anche ai non iniziati.

Bruno Conti