Tra Texas E Louisiana Un Altro “Sfizioso” Artista Di Culto Da Scoprire. Johnny Nicholas – Mistaken Identity

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Johnny Nicholas – Mistaken Identity – Valcour Records

Nel CV di Johnny Nicholas una delle prime cose che viene evidenziata è quella di essere stato un componente degli Asleep At The Wheel: ma poi se approfondiamo scopriamo che Nicholas ha fatto parte della band solo dal 1978 al 1981, apparendo in un disco, il pur ottimo Served Live, dove cantava alcuni brani e suonava chitarra ritmica, piano e armonica, non in un ruolo di primo piano. Questo non per dire che non sia bravo, tutt’altro, ma quanto spesso le biografie siano fuorvianti. Il buon Johnny appartiene anche lui alla categoria dei “diversamente giovani”, avendo ormai superato i 70 anni; una lunga carriera che negli inizi di metà anni ‘60 lo vede nel Rhode Island con la Black Cat Blues Band insieme a Duke Robillard, poi passando brevemente per la California, arriva a Chicago e suona con Big Walter Horton e Robert Lockwood Jr., in seguito di nuovo nel Rhode Island in una band con Ronnie Earl, a questo punto arriva l’esperienza con gli Asleep, ma anche “visite musicali” dalle parti della Louisiana, e che ti fa poi il buon Johnny?

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Si ritira per dieci anni per formare e crescere una famiglia, si apre una stazione di servizio, trasformata in ristorante, nel Sud del Texas, ma a inizio anni ‘90 torna alla musica blues, accompagnando Johnny Shines e Snooky Pryor, e proseguendo nella propria carriera solista, che ad oggi consta di otto album, non conosciutissimi ma tutti di buona fattura, benché di non facile reperibilità. Ed eccoci arrivati a questo Mistaken Identity, prodotto dal vecchio amico della Louisiana, il maestro di cajun Joel Savoy, registrato quasi tutto in presa diretta con una piccola pattuglia di ottimi musicisti texani, Scrappy Jud Newcomb (del giro Austin dei Loose Diamonds) a chitarre e mandolino, il bravissimo bassista Chis Maresh (di recente nel Live di David Grissom) e il batterista John Chipman, più alcuni ospiti tra cui spiccano Max e Josh Baca a bajo sexto e accordion, Chris Stafford e Eric Adcock alle tastiere e un gruppetto di vocalist aggiunti.

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Genere musicale potremmo dire blues contemporaneo, con forti componenti roots: Nicholas si scrive quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di una bellissima cover di River Runs Deep del compianto Stephen Bruton, posta in chiusura e che da sola vale quasi l’acquisto, un piccolo capolavoro di equilibri sonori, una ballata soffice e sinuosa che profuma di Sud, dove la slide della resonator di Nicholas interagisce con organo e la chitarra di Newcomb e con la voce vissuta ma sicura dello stesso Johnny https://www.youtube.com/watch?v=fmModwL0kZE  Il resto del disco è a tratti decisamente più bluesato, dall’elettrica e grintosa She Stole My Mojo con elementi di southern rock, tra bottleneck e armoniche insinuanti, a Mule And The Devil, più polverosa e sottile, tra mandolini, clavinet, il violino di Savoy e l’armonica con un’aria pigra e indolenta che rimanda sempre alle amate atmosfere roots https://www.youtube.com/watch?v=dUY2lVS44AQ , con il resto della band a far quadrare il cerchio del suono. Spark To A Flame inserisce anche elementi country e l’uso di voci femminili per completare un quadro sonoro più complesso, dove strumenti acustici ed elettrici si intrecciano con grande facilità https://www.youtube.com/watch?v=W3y994qiQ38 , mentre la title track, con un pianino barrelhouse a guidare le danze, sembra uscire da qualche disco di New Orleans, con tocchi R&B e soul, rimandi a Dr. John e JJ Cale, entrambi maestri del laidback sound, e anche qualche tocco sardonico di Randy Newman nella voce di Nicholas https://www.youtube.com/watch?v=4ep4GBzrO0E .

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Deliziosa pure Guadalupe’s Prayer dove bajo sexto e chitarre acustico mi hanno ricordato il suono di un altro grande “sudista di culto” come Grayson Capps  . I Wanna Be Your Baby è un bel blues-rock sempre pigro e indolente, ma con le chitarre decisamente presenti https://www.youtube.com/watch?v=NphjhMBTJY8 , e nella divertente Tight Pants si vira verso il R&R e ritmi molto più mossi e trascinanti, per farsi di nuovo riflessivi e malinconici in una storia tipica della Louisiana come She Didn’t Think Of Me That Way, nella quale l’accordion di Josh Baca e il resonator aggiungono ulteriori tocchi bajou a questa incantevole ballata https://www.youtube.com/watch?v=RKSE9JYkGWc , con Highway 190 che oscilla tra coretti doo-wop e old school R&R, un po’ Chuck Berry e un po’ Fats Domino, comunque assai godibile, come peraltro tutto il disco, della serie non solo blues: da scoprire.

Bruno Conti

Un Riuscito Omaggio Alla Propria Terra Da Parte Di Una Nuova Coppia Musicale. Katy Hobgood Ray w/Dave Ray – I Dream Of Water

Katy Hobgood Ray feat. Dave Ray - I Dream Of Water

Katy Hobgood Ray w/Dave Ray – I Dream Of Water – Out Of The Past CD

Se il nome di Katy Hobgood Ray vi dice poco o nulla, credo che la stessa cosa sia valida per chiunque al mondo viva al di fuori dell’area che va da Shreveport a New Orleans. Stiamo infatti parlando di una folksinger e cantautrice originaria della Louisiana, abbastanza nota a livello locale anche per il fatto di essere la direttrice e principale ideatrice del progetto Confetti Park Players, una sorta di ensemble di musicisti e coro di bambini che incide canzoni e racconta storie alla radio (una sorta di Zecchino d’Oro in salsa bayou), mentre il marito Dave Ray è anch’egli un musicista, a carattere più blues, ed è ancora meno noto della consorte. Ora i due hanno unito le forze (diciamo a livello di songwriting, dato che l’album è comunque all’80% Katy e solo in due brani si sente anche Dave) per dare alle stampe I Dream Of Water, un bel dischetto in cui i due fondono mirabilmente le rispettive influenze folk, blues, country e gospel creando un suono che è un diretto omaggio alla natia Louisiana, il tutto con l’aiuto di musicisti locali e la produzione asciutta del chitarrista del gruppo, Greg Spradlin.

I due coniugi Ray hanno una buona capacità di scrittura e conoscono alla perfezione il suono tipico della Big Easy, ma I Dream Of Water travalica i confini della Louisiana diventando più in generale un tributo alla musica del sud degli Stati Uniti, con grande uso di organo, pianoforte, cori di matrice gospel e naturalmente anche i fiati qua e là. Katy ha una voce interessante, non potentissima ma espressiva, e le dieci canzoni presenti sono tutte estremamente godibili e creative, pur con un paio di episodi sottotono che però non vanno ad inficiare più di tanto il giudizio finale. Lollie Bottoms è una bella ed orecchiabile country song dai sapori decisamente sudisti, con elementi gospel, un accompagnamento caldo in cui spiccano slide e pianoforte ed un ritornello di quelli che “prendono” all’istante. Washed Away è una ballata che sembra uscita di botto dai FAME Studios, con una melodia molto bella ed evocativa, uno splendido organo in sottofondo ed un refrain corale ancora di stampo gospel; la sinuosa Oh Devil è un intrigante pezzo tra rock e blues, con un motivo figlio di Leonard Cohen ed un gustoso assolo di tromba finale https://www.youtube.com/watch?v=jxj14hmM8xY , mentre la title track è uno slow intenso e di nuovo con l’organo a farla da padrone, anche se leggermente inferiore alle tre precedenti.

House Divided vede Dave prendere il centro della scena come cantante per una ballatona intimista punteggiata dall’uso discreto di piano e percussioni e con in fiati sullo sfondo, una canzone che però non lascia il segno, a differenza della bellissima Dirty Water che è forse la migliore del CD: un lento notevole tra soul e gospel, contraddistinto da una melodia purissima ed emozionante e da un’esecuzione superba. Little Children’s Blues è l’unica cover presente, un brano di Leadbelly eseguito in perfetto stile folk-blues delle origini, una resa diretta e coinvolgente, mentre Des Allemands è uno squisito soul-errebi dal sapore d’altri tempi, caratterizzato come sempre dal gusto melodico non comune di Katy; chiusura con il godibile e cadenzato rock-blues That Really Matters, secondo ed ultimo duetto tra i due coniugi, e con la jazzata e raffinatissima Kings, Queens And Jesters, incisa volutamente low-fi per simulare una registrazione live after hours degli anni cinquanta, con tanto di rumori ambientali da lounge bar.

Mi aspettavo un dischetto onesto ma nulla più, ed invece ho scoperto una singer-songwriter, Katy Hobgood Ray, da tenere d’occhio anche in futuro. Con o senza marito.

Un Disco Bello Al Cinquanta Per Cento, Forse Qualcosa Di Più. Rod Melancon – Pinkville

rod melancon pinkville

Rod Melancon – Pinkville – Blue Elan CD

Terzo lavoro per Rod Melancon, giovane rocker della Louisiana, a distanza di due anni dal più che discreto Southern Gothic https://discoclub.myblog.it/2017/09/12/vibrante-rocknroll-dalla-louisiana-rod-melancon-southern-gothic/ , un album che, pur con un paio di perdonabili cadute di tono, ci presentava una serie di rock’n’roll songs di buon livello, molto dirette e non necessariamente in stretta relazione con la musica del bayou, ma in generale più vicine ad un suono tra Rolling Stones, southern rock e Americana. Pinkville nasce come un’immaginaria colonna sonora di un fantomatico film dallo stesso titolo (un po’ come per Greendale di Neil Young, che però esisteva anche come lungometraggio), con una storia che narra di questa città immaginaria abitata da gente in cerca di riabilitazione e reinserimento nella società, siano essi reduci dal Vietnam, ex galeotti o in generale persone con le quali la vita non è stata benevola, uno scenario un po’ alla Cormac McCarthy, che infatti è una delle influenze principali di Rod dal punto di vista letterario.

Ma se i testi sono indubbiamente interessanti, per quanto riguarda la musica a mio giudizio Pinkville segna un passo indietro rispetto a Southern Gothic, in quanto Melancon spesso si trova a dover accompagnare le liriche piuttosto pessimistiche con una musica altrettanto dura e cruda, come se avesse privilegiato la parte rock del suono dimenticandosi però di accompagnare il tutto con delle canzoni fatte e finite. Intendiamoci, l’album (prodotto da Adrian Quesada e Will Walden e suonato da un essenziale quartetto formato da chitarra (lo stesso Walden), basso, batteria e tastiere) non è da bocciare, ma a mio parere risulta discontinuo e con troppa differenza tra il Melancon rocker dal pelo duro ma con poche idee ed il songwriter dalle diverse e più interessanti sfumature. Pinkville parte proprio con la title track, che nei suoi due minuti di durata (infatti è più un’introduzione che una canzone vera e propria) ha più riferimenti al suono della Louisiana che in tutto il disco precedente: infatti il brano è percorso per tutta la sua durata da una chitarra dal chiaro sapore swamp e da un’atmosfera plumbea, ma Rod non canta, limitandosi a parlare con un tono da voce narrante. Goin’ Out West è invece un’esplosione rocknrollistica dal ritmo sostenuto, basso pulsante, chitarra in tiro e voce aggressiva al limite del “growl”, un pezzo duro e spigoloso che non regala molto all’ascoltatore, ma risulta a suo modo trascinante.

L’intro chitarristico e ritmico di Westgate rimanda subito agli Stones, poi però Rod inizia ancora a parlare più che cantare e nel refrain tira ancora fuori una voce piuttosto sguaiata: una buona rock song dal punto di vista strumentale (c’è anche un ottimo assolo centrale di Walden), ma un po’ latitante da quello compositivo. Rehabilitation è notturna e suadente, con una chitarrina che si muove sinuosa nell’ombra, una ritmica cadenzata ed un piano elettrico che colora il suono, un mood che mi fa pensare ad una versione aggiornata dei Doors, anche per il tono vocale “morrisoniano” (nel senso di Jim) da parte del nostro; completamente diversa è Corpus Christi Carwash, una ballatona dal sapore anni sessanta, con tanto di chitarrone twang alla Duane Eddy, e sempre con i piedi ben saldi al Sud: finora il brano più orecchiabile e riuscito. Abbastanza intrigante anche The Heartbreakers, un boogie alla La Grange con attacco tipico ed uno sviluppo fluido degno di una blues band sudista, con annesso splendido assolo di piano, mentre con Lord Knows siamo in pieno Muscle Shoals Sound, un pezzo di ottimo impatto in cui il suono caldo del Sud incontra il songwriting di Bob Dylan e l’eleganza formale dei Dire Straits (in pratica ho descritto il suono di Slow Train Coming, ed infatti siamo da quelle parti, pur senza le tematiche mistiche).

Manic Depression è un vibrante brano di stampo country-rock, che non ha niente a che vedere con l’omonimo classico di Jimi Hendrix, a differenza di 57 Channels che è proprio quella di Bruce Springsteen, già non un granché nella versione originale, e non molto meglio neanche qui (ma con tutto quello che ha scritto il Boss proprio questa?): se una canzone è brutta rimane brutta. La potente Cobra chiude il disco con lo stesso tono cupo con cui era iniziato, un rock-blues-swamp molto elettrico ma tutt’altro che irresistibile. Un disco quindi a fasi alterne, che contrappone il Rod Melancon capace e financo raffinato songwriter del Sud al rocker duro e vigoroso ma dalla scarsa fantasia.

Marco Verdi

E Questo Nuovo “Giovanotto” Da Dove E’ Sbucato? Molto Bravo Però, Lo Manda Samantha Fish. Jonathon Long – Jonathon Long

jonathon long jonathon long

Jonathon Long – Jonathon Long – Wild Heart Records

Alcuni dei migliori musicisti in quel mondo che sta tra rock e blues ultimamente si dividono tra il loro lavoro e quello del produttore: prendiamo Mike Zito o Luther Dickinson, che alternano ai propri dischi la produzione per altri. Non sono due nomi fatti a caso, perché sono stati legati ai vari album incisi da Samantha Fish per la Ruf https://discoclub.myblog.it/2017/12/23/oltre-le-gambe-ce-di-piu-samantha-fish-belle-of-the-west/ . Ora anche la Fish, in questa tradizione di musicisti “scopritori” di talenti lancia per la propria etichetta Wild Heart Records un “nuovo” cantante e chitarrista Jonathon Long, che forse nuovo non è, avendo al suo attivo già due album pubblicati a nome Jonathon “Boogie” Long. Come dice lo stesso Long nella presentazione dell’album, il nomignolo derivava dalla sua passione per i blues classici e soprattutto per il boogie di John Lee Hooker, ma per questo terzo disco omonimo che vuole essere una sorta di nuova partenza per il cantante di Baton Rouge, Louisiana, sotto l’attenta produzione della Fish, all’esordio anche come produttrice, ma memore di quanto imparato dai suoi “colleghi”, realizza un album dove a fianco del blues, ci sono anche chiari elementi country, di quello buono alla Chris Stapleton per intenderci, e anche pregevole e gagliardo southern rock.

Accompagnato, oltre che dalla sua fida Gibson Les Paul, da Julian Civello alla batteria e da Chris Roberts al basso, Long propone una serie di canzoni, undici in tutto, rigorosamente originali, e con una durata complessiva dell’album di soli 38 minuti, ma come dicono gli americani “all killers no fillers”, è tutta roba di buona qualità. Dalla splendida Bury Me, una sorta di figlia illegittima di Simple Man, con le chitarre di Long e della Fish che mulinano riff senza pietà, e la voce robusta e vissuta di Jonathon intona una sorta di peana alla sua amata Louisiana “… Louisiana and the heavens above; bury me when I am gone, with my guitar and some cheap cologne, all that’s left is a pile of bones, remember me through the words of my song”, prima di rilasciare un assolo di rara intensità. E pure il resto del disco non scherza, Shine Your Light è una country ballad elettroacustica degna della migliori cose di Stapleton, tenera ed intensa, con l’aggiunta di organo e una seconda voce femminile non segnalati, che aggiungono profondità al suono, prima di un altro breve assolo da sballo, limpido e ben definito. That’s When I Knew è un funky-blues dalle paludi della Louisiana, avvolgente e gagliardo, con uso di piano elettrico ed un arrangiamento sempre raffinato e molto curato, mentre un wah-wah morde il freno sullo sfondo prima di salire al proscenio in grande stile.

The Light è un’altra raffinata country song con un violino che si insinua malinconico tra le chitarre acustiche arpeggiate a pioggia, sempre con i profumi della propria terra evocati nel testo https://www.youtube.com/watch?v=Hq5oNjTBSJA , mentre Living The Blues, a differenza di quanto suggerisce il titolo, sembra un brano della miglior Marshall Tucker Band, sinuoso ed incalzante, sempre con la solista ispirata di Long pronta a scatenarsi. Natural Girl è un country-rock di quelli duri e puri, tirato e saltellante, con piano ed organo ad integrare le solite chitarre in spolvero. The River è anche meglio, un lentone sudista  in crescendo di quelli da antologia, con Samantha Fish che aggiunge la sua voce potente e la sua chitarra slide (o è Jonathon?) ad una canzone interpretata magistralmente da Long; Pour Another Drink è quasi un ribaldo barrelhouse blues, con pianino malandrino e un’aria sconsolata da bar malfamato, subito seguito dalla poderosa The Road, una rock song classica ancora con la lezione del miglior southern incisa a fuoco nel proprio DNA, grazie alla solita egregia chitarra di nuovo in modalità slide. Where Love Went Wrong illustra il lato più sofisticato della musica del nostro, un blue eyed soul che ricorda la California solare degli anni ’70, prima di congedarsi con un’altra scarica di energia chitarristica affidata a una Pray For Me che avrebbe reso orgogliosi i migliori Lynyrd Skynyrd https://www.youtube.com/watch?v=N3R1H0QQ9J4 . Ricordatevi il nome, uno bravo che ha fatto un signor dischetto, caldamente consigliato!

Bruno Conti

Uno Dei Dischi Rock (Blues) Più Belli Dell’Anno! Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session

damon fowler the whiskey bayou session

Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session – Whiskey Bayou Records

Sono passati 4 anni dall’uscita di Sounds Of Home, album che chiudeva il suo contratto di tre dischi con la Blind Pig Records https://discoclub.myblog.it/2014/01/20/suoni-casa-tab-tanta-slide-damon-fowler-sounds-of-home/ , eccellente lavoro che evidenziava, come i precedenti, le virtù di chitarrista, cantante e compositore, nell’ordine, di Damon Fowler, nativo di Brandon, Florida, ma da anni residente in quel di New Orleans, un uomo del Sud degli States, come testimonia anche il bellissimo disco dei Southern Hospitality, la band che condivide con JP Soars, Victor Wainwright, Chris Peet e Chuck Riley, il cui disco del 2013 Easy Livin’, come pure Sounds Of Home, era stato prodotto da una delle punte di diamante della musica blues e rock della Louisiana come Tab Benoit. Negli anni successivi Fowler ha fatto parte anche della touring band di Butch Trucks, fino alla sua tragica scomparsa, e poi è stato chiamato da un altro grande ex Allman Brothers come Dickey Betts, che però, come forse avrete letto ha avuto grossi problemi di salute e quindi ha dovuto interrompere la propria attività.

Comunque nel frattempo Damon si è ricongiunto con Benoit che gli ha proposto un contratto per la sua piccola etichetta, e il disco che nasce ha preso proprio il nome di The Whiskey Bayou Session, in omaggio all’etichetta e agli Houma Louisiana Studios dove è stato realizzato. Sono  con Fowler i bravissimi Todd Edmunds al basso e Justin Headley alla batteria, con l’aggiunta di Tab Benoit, che oltre a produrre il disco suona la chitarra in tre pezzi e firma con Fowler sei brani. Il disco è un ennesimo gioiellino della discografia del nostro amico, che in questo nuovo CD  non ha perso il suo magico tocco a Fender Telecaster, slide e lap steel, di cui è un vero virtuoso, in più ha anche un gran voce, vibrante ma con sottili tonalità soul, melodica e grintosa al tempo stesso. Il suo timbro di chitarra oscilla tra la grinta di Johnny Winter, la classe di Duane Allman, e in ambito slide Lowell George o Ry Cooder , quindi tra blues, rock e soul. Il suono creato da Benoit è splendido: nitido, con gli strumenti ben definiti e la chitarra di Fowler messa sempre in primo piano, sembrano quei vecchi dischi Stax o Capricorn, dove le chitarre di Duane Allman o Eddie Hinton si innestavano su groove ritmici paradisiaci alla Muscle Shoals, come nell’iniziale It Came Out Of Nowhere dove la voce nera e scurissima, poi lascia spazio alla solista limpidissima di Fowler, mentre la sezione ritmica va di carnoso errebì alla grande.

Fairweather Friend è un altro limpido esempio di rock-blues sudista con Damon che maramaldeggia nuovamente con la sua Telecaster letale che disegna traiettorie soliste di classe sopraffina e con un suono da leccarsi i baffi; Hold Me Tight è un brano scritto dal giamaicano Johnny Nash (ve lo ricordate, quello di I Can See Clearly Now?), che diventa un galoppante country got soul dalla melodia accattivante. Up The Line è un brano di Little Walter Jacobs, un incalzante rock-blues sporco e cattivo, basso rotondo e batteria agile, e poi la chitarra che entra come un coltello nel burro, fluida e pungente come solo i grandi solisti sanno fare.  Ain’t Gonna Rock With You No More della premiata ditta Fowler/Benoit è un bluesaccio con uso slide come se fossero tornati i vecchi Little Feat più assatanati di Lowell George, con il bottleneck che scivola senza freni, mentre per Just a Closer Walk with Thee Fowler imbraccia la sua lap steel sognante per un tuffo gospel nel sacred steel sound più mellifluo e sinuoso, cantato con fervore estatico https://www.youtube.com/watch?v=pitbNXOz80A .

Pour Me è un altro blues-rock trascinante con le due chitarre di Fowler e Benoit in pieno trip sudista, di nuovo in modalità slide quella di Damon, poi tocca a Holiday,  altro pezzo rock splendido, sembrano i Dire Straits di Sultans Of Swing, brano che va di rock swingato, ma anche con continui cambi di tempo, sarà old school, ma ragazzi se suonano https://www.youtube.com/watch?v=v_EPBx_-gnA  e lui come canta, con un assolo di chitarra da dichiarare illegale. E non è finita, Running Out Of Time ha un altro groove di pura matrice sudista, semplice e orecchiabile, ma il lavoro della solista è sempre sopraffino, Candy è un duetto country-blues tra le chitarre acustiche di Fowler e Benoit, con Damon che estrae dal cilindro un timbro suadente da storyteller , e per concludere in bellezza tocca ad un altro brano dove domina il suono dolcissimo della lap steel , tra western swing, tocchi hawaiani e sonorità impossibili, per una Florida Baby dall’impianto veramente laidback. Fatevi un favore, cercate questo disco.

Bruno Conti

Vibrante Rock’n’Roll Dalla Louisiana. Rod Melancon – Southern Gothic

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Rod Melancon – Southern Gothic – Blue Elan CD

Rod Melancon non è un esordiente, anche se il suo primo disco, Parish Lines (2014) è passato abbastanza inosservato: originario della Louisiana del Sud, Rod non fa però musica influenzata dalla sua terra, a parte i testi che invece raccontano storie di personaggi locali, tra il reale e l’inventato, e mettendoci dentro anche qualche mistero che fa tanto bayou. Il suono però non è swamp, né cajun, e neppure ha punti di contatto con quel meraviglioso calderone musicale che è New Orleans: Rod infatti predilige un approccio rock’n’roll classico, sul genere di gruppi cardine del suono Americana come i Drive By Truckers, un sound chitarristico e diretto, che contiene anche elementi country e perfino alcuni accenni psichedelici. Southern Gothic contiene dieci canzoni di vero rock americano, suonato con piglio deciso e con le chitarre sempre protagoniste, con la produzione lucida di Brian Whelan (che è anche musicista per conto suo), e vede tra i vari sessionmen diversi artisti appartenenti al panorama country, ma il country più robusto e meno nashvilliano, tra i quali spiccano il bassista Ted Russell Kamp (Shooter Jennings), il batterista Mitch Marine (da tempo con Dwight Yoakam) e lo steel guitarist Marty Rifkin, membro dei Dead Peasants di Chris Shiflett. L’inizio del disco è però spiazzante:

With The Devil è un brano lento e cadenzato, che potrebbe essere un blues paludoso se non fosse per l’accompagnamento che mischia rock e psichedelia, antico e moderno, con un risultato interessante anche se non eclatante (c’è comunque un bell’assolo chitarristico), e poi il synth se lo potevano anche risparmiare. Perry ha un ritmo incalzante, con il basso molto pronunciato, ed è una rock song classica, fluida e scorrevole, cantata da Rod con voce roca e con ottimi spunti di chitarra; Lights Of Carencro è cupa, roccata, dura, con la voce che parla e pure filtrata, non un grande brano, si fa quasi fatica ad ascoltarlo fino in fondo, mentre Dwayne And Me è diametralmente opposta, trattandosi di una struggente ballata tra folk e country, con una melodia decisamente bella e suonata in maniera classica. Promises ha un attacco degno dei Rolling Stones, ed è infatti una buona rock song, vibrante e diretta, una delle più convincenti del CD, ed anche Redhead non abbassa il ritmo né l’attitudine rocknrollistica, siamo quasi dalle parti del Texas: questo è il Melancon che preferisco, diretto e concreto.

Bella anche Praying For Light (il disco sta crescendo canzone dopo canzone), una ballata elettrica dal suono ruspante e con un motivo fruibile, mentre la vivace Mary Lou ha un attacco che ricorda molto la dylaniana I Want You, ed anche come suono siamo lì, un delizioso brano di sapore sixties, leggermente country, insomma una bella sorpresa. Ottima anche Different Man, una sontuosa rock ballad, arrochita ed elettrica, con un feeling alla Neil Young neanche troppo nascosto; l’album si chiude con Outskirts Of You, puro country, uno slow languido con tanto di steel, che conferma la capacità del nostro di variare lo stile pur restando fedele al suo suono. Mi sento quindi di promuovere Rod Melancon, questo Southern Gothic ha un paio di brani sottotono, ma il resto è più che buono, ed in certi momenti addirittura ottimo.

Marco Verdi

Il “Ritorno” Della Band Di New Orleans: Sempre In Forma Smagliante! Subdudes – 4 On The Floor

subdudes 4 on the floor

Subdudes – 4 On The Floor – Subdudes.com

Tra i tanti ritorni che abbiamo documentato negli ultimi anni, quello dei Subdudes, a parere del sottoscritto non può che far piacere a tutti gli appassionati: un gruppo che nel corso della sua lunga carriera ha sempre prodotto album di grande spessore, certificato da un cocktail unico del genere “americana”, sottogenere Louisiana Music. La band si è formata alla fine degli anni ottanta, quando Tommy Malone, John Magnie, Johnny Rae Allen e Steve Amedée si sono messi insieme: la loro produzione discografica che si estende su quasi quattro decenni, parte nel lontano ’89 con il disco omonimo The Subdudes, a cui fanno seguire un trittico da “urlo” con Lucky (91), Annunciaton (94), e Primitive Streak (96), per poi inaspettatamente decidere di sciogliersi (causa l’uscita dal gruppo del bassista Johnny Ray Allen) e fare alcuni concerti di addio, evento che li porterà comunque a pubblicare l’anno seguente il loro “testamento” dal vivo, il bellissimo Live At Last (97).

Dopo un lungo periodo “sabbatico” di ben otto anni, durante il quale alcuni componenti della band intraprendono una importante carriera solista (soprattutto Tommy Malone http://discoclub.myblog.it/2013/07/01/da-new-orleans-tommy-malone-natural-born-days/ ma anche http://discoclub.myblog.it/2014/05/31/delle-glorie-della-big-easy-tommy-malone-poor-boy/), parte il secondo capitolo della loro storia che, oltre ai tre membri originali Malone, Amedée e Magnie, vede l’ingresso in formazione di validi musicisti come Tim Cook e Jimmy Messa,  e una nuova fase che li porta ad incidere lavori di grande qualità come Miracle Mule (04), Behind The Levee (06), dedicato alla tragedia di Katrina, Street Symphony (07), per poi celebrare il ventennale con il superbo doppio dal vivo Live At The Rams Head (ne esiste anche una versione DVD, che contiene anche un concerto acustico Unplugged At Pleasant Plains), e chiudere anche la seconda fase con il meno riuscito Flower Petals (09). Adesso un po’ a sorpresa, girando in rete, è “apparso” questo nuovo lavoro 4 On The Floor (precisiamo subito di difficile reperibilità e dal costo molto elevato), un CD  rivisita con un suono in forma “unplugged parecchi brani degli anni 2000, e che vede in azione l’attuale line-up guidata dal “frontman” cantante e chitarrista Tommy Malone, dal fisarmonicista John Magnie, da Steve Amedée alle percussioni, e al basso Tim Cook, per undici brani che come al solito prendono la decisa ispirazione dai suoni della nativa New Orleans.

Il loro caratteristico sound spicca subito fin dall’iniziale Someday, Somehow, che in origine era su Lucky, dove si evidenzia un strepitoso insieme di voci, chitarre e fisarmonica, che si ripete anche nella seguente Oh Baby, da Miracle Mule, mentre Wishn’ è una bella ballata venata di soul, per poi passare ad un meraviglioso lento dai toni “gospel” come Known To Touch Me, ancora da Miracle Mule. suonato e cantato in modo spettacolare. Si continua con una gustosa Poorman’s Paradise, che era su Street Symphiony, dal suono cadenzato, sempre in perfetto “New Orleans style”, per poi tornare ai primi anni sessanta con la bella melodia di Wedding Rites (I Already Knew You), da Flower Petals, innaffiata da coretti “soul Stax”, riproporre in versione più “unplugged” la cantautorale Brightest Star (recuperata ancora dallo splendido Miracle Mule), e tentare la strada di  atmosfere vocali quasi alla Blind Boys Alabama per  una piacevole One Word (Peace), già in Behind The Levee. Ci si avvia alla fine con un lento di grande impatto come la corale The Rain, ennesimo brano da Miracle Mule, l’omaggio al grande Hank Williams con il country got soul di una intrigante I Saw The Light (eseguita tra gli altri in passato da Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Carl Perkins), e andare a chiudere in allegria con la breve e scanzonata Rockabilly Rain, il tutto a certificare che nei Subdudes come sempre scorre ancora tantissima musica di qualità.

Devo confessare che sono di parte in quanto sono sempre stato un estimatore del gruppo di New Orleans, e questo 4 On The Floor è uno dei più riusciti e maturi della loro discografia, un tributo a sé stessi sotto forma di un condensato della musica della Louisiana, un “Gumbo” misto di rock, blues, soul, country e gospel, il tutto al servizio di canzoni di valore, cantate e suonate come Dio comanda, meritoriamente in forma “unplugged”. In conclusione, un ennesimo bel ritorno dei Subdudes, con uno di quei dischi fatto con amore, e che vanno diritti al cuore degli appassionati della buona musica.  Cercatelo, gente, cercatelo, (oppure, sigh, scaricatelo in forma digitale), ne vale la pena.!

Tino Montanari

Da Solo O In Compagnia Sempre Un Gran Chitarrista! Albert Castiglia – Big Dog

albert castiglia big dog

Albert Castiglia – Big Dog – Ruf Records                                                                      

Ci eravamo lasciati con Albert Castiglia sulle note collaborative dell’ottimo Blues Caravan 2014, un CD+DVD dal vivo registrato insieme ai colleghi di etichetta Christina Sjolberg e Laurence Jones, dove il vero protagonista era il chitarrista della Florida (anche se nato a New York), con il suo solismo tirato e scoppiettante, ed una varietà di temi musicali veramente impressionante http://discoclub.myblog.it/2015/03/11/lunione-fa-la-forza-laurence-joneschristina-skjolbergalbert-castiglia-blues-caravan-2014-live/ . Castiglia non è più una giovane promessa, ha 46 anni, è sulla scena dagli anni ’90, quando ad inizio carriera per vari anni è stato il chitarrista della band di Junior Wells, dove ha imparato il mestiere, suonando in seguito anche con la cantante di Atlanta Sandra Hall e dividendo i palchi con Pinetop Perkins e John Primer. Ma il suo stile è decisamente più aggressivo, orientato verso un blues-rock elettrico e vigoroso che raggiunge la maturazione definitiva in questo suo ottavo album solista (se non ho fatto male i conti), dove il musicista di origini italo-cubane trova il giusto compagno di avventura in Mike Zito, che oltre a produrre questo secondo album per la Ruf di Castiglia, suona anche la chitarra in tutto il disco, firma un brano e porta una ventata di Louisiana sound (dove è stato registrato il tutto) al gusto complessivo dell’album. Si parte subito alla grande con una Let The Big Dog Eat,  dalle chitarre aggressive e fiammeggianti, la voce di Castiglia, sostenuta da Zito, maschia e vigorosa, una ritmica potente che pompa riff come piovesse, l’organo di Lewis Stephens lavora di fino sullo sfondo e il risultato è eccellente.

Don’t Let Them Fool Ya è un southern rock blues firmato da Zito, con chitarre fluide e scorrevoli che rilanciano di continuo il suono della canzone dai due canali dello stereo con una “cattiveria ammirevole”, mentre Get Your Ass In The Van, il primo contributo a firma Castiglia, rientra nella categoria slidin’ blues, quella di Elmore James o Hound Dog Taylor per intenderci, con il bottleneck del nostro che scivola con libidine sul manico della sua chitarra. Drowning At The Bottom è un pezzo di Luther Allison, un classico slow blues di quelli “duri e puri” con le corde della chitarra tese allo spasimo dal buon Albert che rilasciano fiumi di note, e lui che canta anche con un piglio intenso ed autorevole e pure Let’s Make Love In The Morning non scherza, un brano più vicino alle atmosfere dei dischi di Mike Zito, una bella ballata sudista, dove le chitarre acustiche e l’organo affiancano le sinuose linee della solista di Castiglia e un feeling soul à la New Orleans si insinua tra le pieghe della canzone. What I Like About Miami è un eccellente brano di Charlie Pickett (non so se lo ricordate? Un bravo musicista rock della Florida a cui la Bloodshot aveva dedicato una antologia qualche anno fa): tra Stones e classico sound country/roots, aggiunge un tocco Americana al disco, con il suo pigro e ciondolante divenire.

Easy Distance ci riporta al funky-blues pungente tipico di Castiglia, con il basso di Scot Sutherland che crea un groove pulsante su cui la solista del leader è libera di improvvisare linee rapide e sicure. Where Did I Go Wrong è l’omaggio al vecchio maestro Junior Wells (era sull’album You’re Tuff Enough, pubblicato nel 1969, l’anno in cui nasceva Castiglia), un blues lento in puro stile Chicago, con l’armonica dell’ospite Johnny Sansone e il piano di Stephens che aggiungono autenticità e stamina al pezzo; Sansone rimane pure nella successiva Where The Devil Makes His Deals, dove i ritmi si fanno più intensi e duri, con le due soliste di nuovo impegnate a scambiarsi sciabolate e la batteria di Rob Lee che scandisce il ritmo con grande vigore. What The Hell Was I Thinking, con un pianino quasi rock’n’roll, aggiunge un tocco alla Fats Domino, prima che le chitarra riprenda il controllo delle operazioni, con la conclusiva Somehow, firmata a due mani da Albert Castiglia con Cyril Neville, una bella ballata soul, profonda e dal testo di impegno sociale, dedicata alla situazione critica e alle difficoltà dei senzatetto nell’America di oggi (ma anche di ieri): anche qui, come nel resto del disco, si respira quell’aria del Sud degli Stati Uniti, delle foreste tra le paludi della Louisiana evocate fin dalla foto di copertina, anche senza poi essere l’unico tema musicale del disco, veramente bello nel suo insieme, articolato e dai mille spunti sonori, e che conferma il talento di questo signore. Senti che roba! Nella versione di Boz Scaggs c’era Duane Allman alla chitarra (forse il suo assolo più bello https://www.youtube.com/watch?v=oTFvAvsHC_Y).

Vista la stagione, direi caldamente consigliato!

Bruno Conti

Vi Piacciono Quelli Bravi? Kevin Gordon – Long Gone Time

kevin gordon long gone time

Kevin Gordon – Long Gone Time – Crowville Media 

Kevin Gordon è la perfetta epitome dell’ “unsung hero” (termine che ho usato recentemente anche per Albert Lee  http://discoclub.myblog.it/2015/11/14/eroe-celebrato-albert-lee-highwayman/e che forse rende meglio l’idea dell’italiano “eroe non celebrato o sconosciuto”). Un cantautore nativo della Louisiana, ma che da anni vive a Nashville, dove per mantenersi gestisce anche una sorta di galleria d’arte “alternativa” situata all’interno della propria abitazione, e la drammatica immagine posta in copertina di un cervo che annega tra i flutti del diluvio successivo ad un evento terribile, intitolata After The Flood (Katrina), opera di Michael Noland, illustra perfettamente sia il tipo di articoli in vendita in quella galleria, quanto la musica di Gordon. Canzoni potenti ed espressive, incentrate in parte sui suoi ricordi della adolescenza e gioventù vissuta a Monroe, una piccola cittadina a nord di New Orleans, ma anche sulla vita in generale della provincia americana, piccole storie che sono come novelle o sceneggiature cinematografiche, vivide e ricche di particolari, non lontane nel risultato finale, anche a livello musicale, dal tipo di canzoni che ha sempre scritto uno come Greg Brown (non per nulla Kevin si è laureato all’università dello Iowa), o anche un John Prine.

In effetti in alcuni brani di questo Long Gone Time appare anche Bo Ramsey, a lungo chitarrista di Brown e cantautore pure in proprio, che appare nei dischi di Gordon sin dal bellissimo Cadillac Jack’s #1 Son, l’album del 1998 prodotto da Garry W. Tallent, producendo poi  il successivo Down To The Well di Kevin Gordon, mentre per O Come Look At Burning e Gloryland del 2011 https://www.youtube.com/watch?v=4izrzhic4rk , altri piccoli gioiellini assolutamente da avere, come i precedenti album, la produzione era curata da Joe V.McMahan, che lo fa anche in questo nuovo album, oltre a suonare la chitarra in tutte le tracce. Il risultato è il solito stile, a cavallo tra Americana, rockabilly, blues delle piantagioni e dei bayou della Louisiana, ma anche a tratti honky tonk country, folk e persino sciabolate rock alla Stones americani (non per nulla Keith Richards si era impadronito della sua Deuce And A Quarter per usarla come duetto con Levon Helm in All The King’s Horses, il disco registrato con i sidemen di Elvis)https://www.youtube.com/watch?v=l0jpqF1uolk .

Tra i suoi fans anche Buddy Miller e Peter Guralnick, che ne hanno cantato le lodi e Lucinda Williams, Kate Campbell e Southside Johnny, che ne hanno inciso le canzoni. Anche in questo nuovo Long Gone Time il suono si situa tra acustico ed elettrico, quasi in pari misura, narrando storie autobiografiche di vecchi amici d’infanzia di Gordon, ma anche di leggendari personaggi come il cowboy Brownie Ford, metà bianco e metà Comanche, protagonista di due canzoni e altre avventure tra reale e surreale, che necessiterebbero della presenza dei testi nella confezione, ma ci dobbiamo “accontentare” della musica. Che va dal blues & roll rurale dell’iniziale All In The Mystery, scritta con Gwil Owen, dove oltre alla chitarra minimale di McMahan si gusta anche il piano di Tyson Rogers, la storia dolceamara di GTO, che racconta la sfortunata storia di una bramata automobile, quasi a tempo di rockabilly, come se gli NRBQ si fossero riuniti per l’occasione di una jam con gli Stones.

Altrove ci sono le storie della Louisiana, come l’amara e nostalgica Letter To Shreveport, dove si racconta dei tempi in cui Johnny Horton si sentiva alla radio, con la musica che vira verso un atmosferico e swampy blues di grande intensità, la acustica e laconica Walking On The Levee, con Bo Ramsey alla chitarra slide, che suona quasi come qualche traccia perduta del miglior Greg Brown, un folk rurale di grande bellezza. E ancora la paranoia americana di Shotgun Behind The Door, quasi una minacciosa ninna nanna (anche se sembra un ossimoro) degna di John Prine. Passando per il semi country della twangy Crowville,sempre con Ramsey alla slide, l’elegiaca Goodnight Brownie Ford, delicata e appassionata come le migliori ballate di Tom Russell https://www.youtube.com/watch?v=y82VXcTDe8c , per poi tornare al crudo blues-rock della dura, quantomeno nel testo, Immigrant, con l’eccellente lavoro della chitarra di McMahan, veramente magistrale in questo pezzo https://www.youtube.com/watch?v=voXKI1GkG3A .

I ritmi tra boogie e New Orleans della mossa Church On Time https://www.youtube.com/watch?v=o7CzZSr63kg  e quelli spezzati e “paludosi” della lunga Cajun With A K, che racconta sempre storie bluesate della Louisiana, anche grazie ad una armonica che si fa largo tra chitarre, contrabbasso e un piano minimale, bellissima. Concludono il tutto le bonus, la traccia palese e non nascosta, Following A Night (The Preacher’s Wife), di nuovo sotto forma di una intensa ballata folk acustica in compagnia di Bo Ramsey e If You Will, traccia nascosta, altrettanto bella. Se vi piacciono quelli bravi, qui ne trovate uno!

Bruno Conti     

Slidin’ Blues At Its Best! Sonny Landreth – Bound By The Blues

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Sonny Landreth – Bound By The Blues – Provogue CD

Clyde Vernon Landreth, detto Sonny, è un musicista che nel corso della sua ormai più che quarantennale carriera non ha inciso molti dischi, ma quando lo ha fatto ha quasi sempre colpito nel segno: il suo ultimo lavoro, Elemental Journey (risalente a tre anni fa) è forse il meno brillante del lotto, ma in passato il nostro ci ha regalato vere proprie perle come Levee Town e The Road We’re On (i due che preferisco) ed ottime cose come Grant Street e quel South Of I-10 che nel 1995 lo fece uscire dal semi-anonimato nel quale viveva immeritatamente da anni. Landreth è un grande chitarrista, maestro della tecnica slide (in America, secondo il sottoscritto, inferiore solo a Ry Cooder, almeno tra i viventi) che negli anni è stato sempre molto richiesto anche sui dischi altrui: John Hiatt, uno che di chitarristi se ne intende, lo ha voluto come leader della sua band per ben tre dischi (Slow Turning, The Tiki Bar Is Open, Beneath This Gruff Exterior) e relative tournée.

Sonny è sempre stato avvicinato al genere blues, ma non è un bluesman canonico: nei suoi dischi infatti è sempre partito da una base blues, per poi rivestire le sue canzoni di influenze zydeco-cajun (è infatti soprannominato “il Re dello Slydeco”), country e rock’n’roll, una fusione di stili che è quasi d’obbligo per un musicista cresciuto in Louisiana sin da bambino (essendo nato in Mississippi, altro luogo dove il blues ce l’hai nel sangue). Quindi Landreth un vero disco tutto di blues non lo aveva mai fatto, almeno fino ad oggi: Bound By The Blues è infatti un excursus personale da parte di Sonny nel mondo delle dodici battute, un lavoro fatto con amore e passione esattamente bilanciato tra brani nuovi ed omaggi ai grandi che lo hanno influenzato.

Registrato e prodotto in maniera diretta e senza fronzoli (in trio: oltre a Sonny abbiamo David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria), Bound By The Blues non è quindi un esercizio scolastico fine a sé stesso, ma un vero e proprio Bignami lungo dieci brani nel quale Landreth esplora da par suo i meandri della musica del diavolo: il disco è suonato da Dio (e non c’erano dubbi), prodotto in maniera asciutta da Sonny stesso con Tony Daigle e cantato in maniera più che accettabile (e d’altronde la voce è sempre stato un po’ il tallone d’Achille del nostro, diciamo non altrettanto blues come le sue dita…), un album quindi che soddisferà pienamente sia i fans di Landreth che gli appassionati di blues, e che merita di essere messo a fianco, se non dei suoi lavori migliori in assoluto, sicuramente di quelli appena un gradino sotto (e dunque belli lo stesso).

Il disco si apre con la classica Walkin’ Blues (di Son House, ma resa celebre da Robert Johnson) ed è subito goduria, a partire dal colpo di batteria iniziale e fin dalle prime note di slide, un suono “grasso” che mette subito a suo agio l’ascoltatore, con Sonny che inizia a ricamare assoli. La title track è una rock song fluida e diretta, che ha sì il blues nei cromosomi ma si sviluppa in maniera non canonica, e Landreth alterna con maestria la slide acustica e quella elettrica; The High Side ha un suono paludoso, la sezione ritmica che pressa e Sonny che fa i numeri all’acustica, sopperendo ai suoi limiti vocali con massicce dosi di feeling. It Hurts Me Too è nota soprattutto per le versioni di Tampa Red ed Elmore James, ma l’hanno fatta in mille (tra cui Junior Wells, Eric Clapton, John Mayall, Bob Dylan, Grateful Dead), e qui non riserva grandissime sorprese, ma a me basta che il nostro trio suoni bene, e poi quando Sonny lascia scorrere le dita sul manico non ce n’è per nessuno; Where They Will è un’intrigante rock ballad, intensa e sinuosa, che a ben vedere non è neanche tanto blues (ha quasi un’atmosfera alla Chris Isaak), ma è comunque piacevole e, devo dirlo?, ben suonata.

Cherry Ball Blues, di Skip James (ma l’ha fatta anche Cooder) è tesa ed affilata, quasi più rock che blues, con il nostro che suona come se non ci fosse domani, lo strumentale Firebird Blues è un sentito omaggio al grande Johnny Winter, uno slow blues caldo e vibrante nel quale i tre musicisti danno prova di grande affiatamento: le casse del mio stereo quasi sudano … Dust My Broom (Robert Johnson, ma la versione “storica” è quella di Elmore James) è uno dei classici assoluti della musica del diavolo in generale, e della chitarra slide in particolare, e Sonny ci dà dentro di brutto, fornendo una prestazione da applausi, anche se qui più che mai si sente l’assenza di un vocalist adatto; chiudono il lavoro Key To The Highway (Big Bill Broonzy, ma tutti conoscono quella di Clapton), ripresa abbastanza fedelmente e con la consueta classe da Landreth (anche se verso la fine gigioneggia un po’ ma tenderei a perdonarlo …), e Simcoe Street, uno scatenato boogie strumentale dove tutti girano a mille.

Anche se non sarà un capolavoro, Bound By the Blues è un disco corroborante, che ci fa ritrovare il Sonny Landreth che conosciamo dopo il mezzo passo falso di Elemental Journey.

Marco Verdi