Veterani, Cittadini Onorari Di New Orleans. Fo’Reel – Heavy Weather

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Fo’Reel – Heavy Water – Self-released

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I Fo’Reel sono un gruppo nuovo, almeno per me, ma i “nomi” (almeno uno in particolare, Johnny Neel) non sono quelli di novellini: il leader e chitarrista, Mark Domizio, viene da Philadelphia, ma da molti anni vive ed opera in quel di New Orleans, il succitato Johnny Neel, grande tastierista (più volte anche con gli italiani W.i.n.d.) è una sorta di membro aggiunto del giro Allman Brothers, ma nel corso degli anni ha suonato con moltissimi bluesmen e rockers di pregio, il cantante C.P. Love ha una voce da cantante nero di quelle importanti (forse perché nero lo e davvero), ed è nativo dei dintorni di New Orleans, l’altro black in formazione è il bassista David Barard, ma nel disco suona un altro David, Hyde, poderoso bassista che ha suonato, tra gli altri, con Tommy Malone, Bobby Charles, Clarence Gatemouth Brown, come lui artisti della Louisiana. Quindi, per capire il genere dei Fo’Reel, pensate a blues, soul, R&B, rock, funky e frullateli insieme (o teneteli divisi, comunque si sentono tutti) e a gruppi come i Subdudes, o ancor di più i Radiators, magari con una quota rock little featiana meno presente, con il piedino che non può fare a meno di muoversi a tempo con il groove ed il sound del gruppo.

c.p.love mark domizio

Dicevo all’inizio che il nome mi è nuovo, forse anche perché questo Heavy Weather è in effetti il loro primo album (già in giro da qualche mese, ma con la solita difficile reperibilità che ultimamente molti dischi di buona qualità purtroppo hanno), ma la musica sicuramente non lo è, variazioni su generi musicali consolidati ma eseguite con classe e grande gusto. Il tono dell’album lo stabilisce subito il primo brano, una cover di Breaking Up Somebody’s Home, un classico del blues funky, che forse si farebbe prima a dire chi non lo ha fatto, perché nel corso degli anni si sono cimentati con questa canzone, tra i tanti, Albert & BB King, Etta James, Ann Peebles, ma anche Bob Seger, Bette Midler e, recentemente, anche Kenny Wayne Shepherd con Warren Haynes, nell’ultimo disco Goin’ Home; e la versione dei Fo’reel è veramente da manuale, un bel funky blues fiatistico (forse avevo dimenticato di dire che nella formazione c’è anche un ottima sezione fiati, guidata dal sassofonista Jon Smith), con la voce superba da soulman di C.P. Love che guida la band, contrappuntata dai pungenti soli della chitarra di Domizio, l’organo di Neel che scivola sullo sfondo e in primo piano con grande libidine e il groove perfetto della sezione ritmica. Ancora più funky-rock la title-track, con il walking bass di Hyde che ancòra il sound, e con i fiati all’unisono che pennellano impressioni della Louisiana e Domizio e Neel impeccabili ai rispettivi strumenti. Ma la band ha puree un secondo vocalist ed autore (che si alterna con Love), Rick Lawson, altro veterano della scena blues, soul & R&B, che viene da poco lontano, dalle sponde del Mississippi, la sua Leave Your Love Alone è una deliziosa variazione più swingante e jazzata (l’organo di Neel è veramente da manuale) della musica della band, mentre nella potente Blues (semplicemente) si viaggia verso un suono alla BB King, un po’ alla Thrill Is Gone, con chitarra limpida e tagliente e Neel che aggiunge un piano elettrico al solito organo, ma il risultato è tutto da sentire.

david barard johnny neel

Gate è un eccellente strumentale, probabilmente in onore di Clarence “Gatemouth” Brown, uno dei grandi della musica della Crescent City, con il classico dualismo chitarra-organo punteggiato dai fiati, mentre in What Can I Do un sognante brano dalla atmosfera latina quasi santaneggiante, ma con la chitarra di Domizio in modalità slide ad evitare paragoni con Carlos, torna la voce forse più espressiva di Love (comunque Lawson non è male) https://www.youtube.com/watch?v=MtYYvo9AckA  e Neel si divide sempre con profitto tra piano elettrico e Hammond. What’s Going On In My Home è uno di due successivi brani entrambi a firma Luther Allison, molto funky, con wah-wah in fase ritmica e notevole performance vocale di Love che si ripete nell’intensa blues ballad Just As I Am dove le tastiere di Neel sono sempre protagoniste https://www.youtube.com/watch?v=FNgwcJ1t1Po . A seguire altri due brani dell’accoppiata Domizio/Lawson, una Shake N Bake, dove si sfiora quasi il funky alla James Brown, arricchito dalla solista di Domizio e con organo e fiati sempre sugli scudi, notevole l’assolo di Smith https://www.youtube.com/watch?v=_JRt8bxB-8M , mentre Outside Love è blues allo stato puro, con slide in bella evidenza e gli altri strumenti ben delineati https://www.youtube.com/watch?v=DzjleYUYCVA . Curioso che chitarre, voci, fiati e basso siano stati registrati a New Orleans, mentre tastiere e batteria in quel da Nashville, dall’ascolto del disco dove tutto ha un feeling molto live non si direbbe. Per concludere manca un ulteriore vivace e trascinante strumentale come Tater, dove i fiati tirano la volata e gli altri solisti non sono da meno. Per parafrasare il nome del gruppo “Veerameente” bravi!

Bruno Conti

Disco Bellissimo, Peccato In Teoria Non “Esista”! NMO/ Anders Osborne + North Mississippi AllStars – Freedom And Dreams

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NMO – Anderson Osborne & North Mississippi Allstars – Freedom And Dreams solo download

Come sapete chi scrive (e gli altri collaboratori del Blog), sono fedeli seguaci del disco fisico e contrari per principio al download digitale degli album, ma quando i dischi sono così belli come questo Freedom And Dreams dei North Mississippi Osborne, NMO per abbreviare, l’eccezione conferma la regola, e quindi mi sono affrettato a scaricare questa collaborazione tra alcuni dei migliori musicisti che attualmente graziano il panorama americano della buona musica: vogliamo definirlo un disco roots and blues, con la voce splendida di Anders Osborne, grande vocalist (e chitarrista) di origine svedese, ma da anni cittadino di New Orleans, Lousiana, dove ai Dockside Studios, nel cuore dello stato del Sud, e sotto la produzione di Mark Howard, è stato registrato questo meraviglioso disco. Un disco dove si respira grande musica, sembra a tratti un disco di quelli belli del Ry Cooder degli anni ’70, a momenti sembra di ascoltare la Band (tanto per volare bassi), ma perlopiù si tratta di questa riuscitissima fusione tra il soul-blues di Osborne e il groove e la musica folk-rock-blues dei NMA, ovvero i fratelli Luther e Cody Dickinson. Non so dirvi se ci siano altri musicisti coinvolti (si sentono qui e là piccoli interventi di tastiere, fisarmonica e qualche strumento acustico) e anche se dalla foto qui sotto pare esserci un quarto elemento nella line-up, non avendo trovato note nel download non posso confermarlo.

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Comunque la musica parla da sola, dai primi ripetuti ascolti mi sembra una delle cose migliori mai fatte dai musicisti coinvolti (e dischi belli sia Anders Osborne, quanto i fratelli Dickinson, nelle loro varie personificazioni, ne hanno fatti parecchi in passato): ma in questo caso deve essere scattato quel quid che si accende quando si incontrano spiriti eletti. Registrato in quattro giorni di sessions non-stop ai citati Dockside Studios l’album (mi suona strano definirlo così, ma il futuro, speriamo lontano, sembra essere questo) nasce da una serie di brani di Osborne costruiti con questo spirito collaborativo, da jam session, dove l’improvvisazione ha ovviamente una sua parte, ma le canzoni hanno pure una loro solida costruzione ed una notevole varietà di temi sonori. Il disco si apre con il blues puro di Away Way Too Long che sembra quasi un brano di Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, dove maestri stregoni delle 12 battute ed apprendisti si scambiano impressioni a colpi di slide e voce, ma in modo molto rispettoso della tradizione. Back Together è la prima di una serie di blues soul ballads, marinate nell’aria della Lousiana e caratterizzate dalla bellissima voce di Osborne, con le chitarre che pigramente intessono un finissimo lavoro di cesello ed interscambio degno dei “sudisti” più raffinati degli anni ’70, un piccolo gioiello di equilibri sonori, grazie anche all’eccellente groove impostato dall’inconsueto drumming di Cody Dickinson, e Lonely Love con le soliste di Luther e Anders che navigano a vista di conserva https://www.youtube.com/watch?v=wLdE0TUHlBc , potrebbe essere una traccia perduta di qualche vecchio vinile dei Free di Paul Kossoff (magari, come atmosfera, Molten Gold, tratta dal suo primo disco solista https://www.youtube.com/watch?v=WmKPNaV2HX0), tra improvvisazione e leggera psichedelia.

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Molto bella anche Dyin’ Days, altro pregevole esempio della grande capacità di Osborne di riappropriarsi della tradizione sonora del Sud degli States, grazie ancora una volta al preciso lavoro, molto minimale, ma direi essenziale dei fratelli Dickinson raramente così ispirati https://www.youtube.com/watch?v=tXMvz24WU0Y ; Shining (Spacedust), viceversa, altra ballata sontuosa, potrebbe avvicinarsi al Ry Cooder legato alle radici blues e soul dei suoi dischi migliori della decade fine anni ’70, primi anni anni ’80,  addirittura con qualche retrogusto dylaniano e messicano che avevano canzoni di frontiera come Across The Borderline (che porta anche la firma di Jim Dickinson, il babbo) https://www.youtube.com/watch?v=wzWuTxNfLQI . Brush Up Against You è il brano più lungo del disco e qui la slide viaggia, perentoria e minacciosa, appaiata alla voce distorta e incattivita di Anders, per creare un groove che viene dalle colline del Mississippi, da quei juke joints dove si praticava un blues elettrico primevo e malandrino, egregio nuovamente il lavoro delle chitarre, sempre in grande spolvero e libere di improvvisare, come il gruppo nel suo insieme https://www.youtube.com/watch?v=OAwhFBC7EbI . Annabel è pura southern music della più bell’acqua, una bella voce, una melodia delicata, un liquido piano elettrico che si aggiunge alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=MwChOeTUVes  e il risultato ricorda la Band più legata al sound del Sud, che qui viene replicato in un brano che vuole essere un ricordo di un avvenimento mai dimenticato dagli abitanti di New Orleans, Katrina, una delicata ballata pianistica cantata con grande trasporto e partecipazione da Osborne, che si conferma vocalist dal feeling innato, prima di lasciare spazio all’essenziale lavoro della solista slide che imbastisce un lavoro di breve ma intenso raccordo con il piano.

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Kings And Peasants si incentra su un elegante groove ritmico, un brano quasi cantautorale, dove le chitarre lavorano ancora una volta di fino, in un sottile lavoro dove toni e volumi sono impiegati con precisione e classe squisita https://www.youtube.com/watch?v=iDweTJxIeLw . Ancora due brani prima della conclusione, Many Wise Men ricorda le migliori ballate mainstream scritte da Anders Osborne per i suoi dischi solisti https://www.youtube.com/watch?v=RptHWExz2Oo , quelle canzoni dove lo spirito di Jackson Browne sembra aleggiare benevolo su queste morbide ed aggraziate atmosfere, tra folk e canzone d’autore, mentre Junco Parda è un’ultima scarica di blues cooderiano, semplice, raffinato ed estremamente coinvolgente, come peraltro tutto il disco. Veramente niente male per un disco che “non esiste”.

Bruno Conti

Un Misto Di Louisiana Gumbo, Rock E Blues, Con Sax! Scott Ramminger – Advice From A Father To A Son

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Scott Ramminger – Advice From A Father To A Son – Arbor Lane Music

Ragazzi che bel dischetto! Ma dove lo avevano nascosto per tutti questi anni il nostro amico Scott Ramminger? Sì, assolutamente, è già un amico: uno che fa un disco come questo Advice (per brevità) si merita comunque amicizia e rispetto da chi apprezza la buona musica. E ne aveva già fatto un altro un paio di anni fa, Crawstickers, dal nome del suo gruppo, dell’area di Washington, DC, che lo accompagna abitualmente http://www.youtube.com/watch?v=nEi3ZNm1PQw .

scott ramminger crawstickers

Questa volta ha fatto le cose in grande (ma non del tutto), si è preso il suo sax, che è lo strumento che utilizza abitualmente ed è partito per una trasferta in quel di New Orleans, dove lo aspettavano quattro musicisti straordinari: George Porter Jr., uno dei più grandi bassisti della storia della Crescent City (forse il più grande in assoluto), bastano i nomi dei Meters e dei Neville Brothers? Shane Theriot alla chitarra, negli ultimi anni ha suonato con Zachary Richard, Maria Muldaur e Jo-El Sonnier, ma in passato è stato con Aaron Neville e una miriade di altri. David Torkanowsky, se non sono disponibili Dr. John e Allen Toussaint (e Fats Domino e Professor Longhair per ovvi motivi), con piano e tastiere è il migliore su piazza ed è in grado di fare meraviglie e Johnny Vidacovich alla batteria, è un maestro dei ritmi (con DeVille e Johnny Adams). Aggiungete che Ramminger ha scritto alcune bellissime canzoni che sembrano delle outtakes dell’opera di Randy Newman, e canta anche con quello stile tra il laconico e il sardonico tipico del grande Randy. Non basta?

goerge porter jr.shane teriot

In alcuni brani il “nostro” Scott si circonda di alcune voci femminili da sballo, le McCrary Sisters, reginette del gospel e del soul, ma che due o tre cose sul funky forse le conoscono, sentitevi Funkier Than Him, un brano dove titillano ed aizzano di gusto il buon Ramminger, mentre i quattro di New Orleans, trovato un groove micidiale, provvedono a far venire giù le pareti di casa, con chitarra, sax e tastiere che decorano il tutto. Ma ci sono anche canzoni dove la melodia è di casa, per esempio la bellissima I Really Love Your Smile, Randy Newman meets Dr.John, con il pianino di Torkanowsky che va come un cippa lippa e il sax che ricama, mentre anche Theriot ci mette del suo.

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Ma se serve del rock la premiata ditta chiama Etta Britt, anche da lei da Nashville come le McCrary Sisters, una abituata a duettare con Delbert McClinton, e sotto l’impulso della batteria in overdrive di Vidacovich ti confezionano una This Town’s Seen The Last Of Me, che di casa sta in mezzo tra gli Stones di Sticky Fingers e i Little Feat arrapati, giuro sul manuale delle giovani Marmotte! The Other’s Man’s Shoes è una ballata mid-tempo vellutata con la voce di Regina McCrary a duettare deliziosamente con Scott mentre Torkanowksy accarezza organo e piano con amore e Theriot con la sua chitarra tira la volata per l’assolo di sax del leader, che classe!

david torkanowksy

E anche la title-track, con tromba e trombone aggiunti, ci trasporta in qualche tipico locale di New Orleans, magari il Tipitina, a tempo di gumbo music http://www.youtube.com/watch?v=88GiyJGbBtg , la Britt è nuovamente la voce si supporto e il buon Ramminger sembra il fratello di Randy Newman (o di Hugh Laurie) in trasferta sulla foce del Mississippi. Se volete ancora un giro di danze, stretti stretti, al night di questi strepitosi musicisti, I’ve Got A Funny Feeling, è una ballatona di quelle che non si scrivono quasi più (quasi!), quando nel finale Theriot ti estrae dal cilindro un assolo di quelli magici, ti scappa l’applauso.

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Magic In the music con le McCrary di nuovo in azione, di supporto, e l’inesorabile basso di George Porter Jr. che macina ritmi (come in tutto il resto dei brani, peraltro) è un’altra traccia di ottimo funky-rock, Theriot sfodera anche il suo wah-wah per l’occasione.

Ma i Crawstickers in quel di Washington, DC che fanno http://www.youtube.com/watch?v=UbUE7JRd53U ? Aspettano il boss che, probabilmente finito il budget, torna a casa per registrare le ultime tre canzoni. I musicisti sono bravi, le tre sorelle non mollano l’osso, ma More Than One Flavor non ha lo stesso “gusto” degli altri brani, altra classe e grinta, qui siamo più nella normalità http://www.youtube.com/watch?v=tNtKu6r7ysw . Formazione ristretta per una Must Be True swingata, con organo e chitarra che guidano le danze, ma quel quid inesplicabile (o forse sì, saranno mica più bravi gli altri, ho questo vago sospetto?) delle sette tracce iniziali sembra sparito, anche se nella conclusiva Sometimes You Race The Devil ci si lancia pure nel reggae i vertici iniziali non si raggiungono più. Peccato, quello che poteva essere un piccolo capolavoro ritorna a più miti propositi, ma per l’eptalogia della prima parte (spesso ci sono dischi che di brani buoni faticano a metterne insieme due o tre) non posso fare a meno di consigliarlo agli amanti del New Orleans Sound e della buona musica in generale. Il disco è uscito già da parecchi mesi e si fatica a trovarlo ma vale la pena di cercarlo!

Bruno Conti

Un Disco Di “Pura Bellezza”! Zachary Richard – J’aime La Vie

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Zachary Richard – J’Aime La Vie – Zachary Richard/Spectra Music

Zachary Richard ritorna con l’ennesimo disco in francese, cosa che lo limita non poco sul mercato americano (dove non è presente con produzioni cantate in inglese da diversi anni), eppure questo suo nuovo lavoro J’Aime La Vie è particolare. Infatti sono 10 nuove canzoni composte a quattro mani da Zachary , con suo nipote Emile (il bambino di sua figlia con un handicap neuromotorio, ripreso in copertina) che contribuisce ai testi dell’album, con il suo amore per la vita (da qui il titolo del disco) . Succede allora che il nonno, con l’aiuto del nipote, (che contribuisce ai testi) si ritrovi a Cap Chat sulla penisola del Gaspè, a scrivere canzoni che evocano l’amore per la vita (vista con gli occhi di un bambino dolcissimo) e descritta con parole semplici e innocenti.

Ad accompagnare l’inedita coppia in questo viaggio, si prestano bravissimi musicisti “francofoni” d’area, che rispondano al nome di Eric Sauviat alle chitarre acustiche e dobro, Sylvain Quesnel alle chitarre elettriche, Jacques Roy al basso, Ray Lèger al violino e mandolino, Francis Covan alla fisarmonica e armonica, Jean-Guy Grenier al banjo, Marc Beaulieu al piano, percussioni e anche produttore di questo meritevole lavoro. Le canzoni sono deliziose, a partire dall’iniziale commovente J’aime La Vie , passando per il cajun di Tigre en Ville, il duetto fisarmonica e banjo di una dolcissima La Mer ,l’accorato sentimento di J’voudrais Me Promener e la toccante ballata pianistica Dans Mon Jardin (introdotta dalla voce del bambino). Il mondo di Emile, riparte con una filastrocca zydeco Hou Da Da, mentre una armonica accompagna Mon Cheval Napolèon, e non poteva mancare l’incanto adolescente di L’Avion, il folk-cajun di cittadinanza L’Espoir Est Dans Le Coeur , per poi chiudere con una ballata davvero pregevole L’Univers, dove spicca come sempre la voce di Richard.

Le radici di Zachary Richard attivista e ambientalista culturale, sono profondamente piantate nella sua nativa Lousiana , e lo dimostra ampiamente con questo 21° album della sua onorata carriera, dove traducendo i pensieri dell’adorato nipote, dimostra con versi toccanti di comunicare diritto al cuore: un disco per l’infanzia destinato ai “grandi”! Per quanto mi riguarda (sono arrivato alla terza recensione in due anni  http://discoclub.myblog.it/2012/11/30/alle-radici-della-lousiana-zachary-richard-le-fou/ ) Zachary Richard è il più americano dei cantautori francesi, e il più francese di quelli americani.

NDT: Ne sono entrato in possesso in ritardo, ma sarebbe entrato certamente nella mia “playlist” allargata del 2013

Tino Montanari

Forse Non “Quello Giusto”, Ma Non Male Per Un 77enne! Bobby Rush – Down In Lousiana

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Bobby Rush – Down In Louisiana – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Se mi chiedessero a bruciapelo di ricordare un paio di album di Bobby Rush, probabilmente citerei Mourning In The Morning e So Many Roads. E sbaglierei, perché sono entrambi dell’altro Rush, Otis, “quello giusto”. D’altronde se qualcuno cerca in rete, nelle varie biografie di Bobby Rush, non corrisponde neppure la data di nascita: c’è chi indica novembre 1935, chi novembre 1940 (ad esempio Wikipedia in inglese o italiano), e non è una differenza da poco. Peraltro, se uno dovesse giudicare dalla foto di copertina di questo ultimo album, Down In Lousiana, dal colore dei capelli (un nero corvino improbabile simile a quello di molti attori e cantanti, probabilmente usano la stessa tinta) si potrebbe presumere che Rush sia nato addirittura intorno al 1970. Ma lasciamo da parte questioni tricologiche ed anagrafiche … anche se, approfondendo, consideriamo come anno di nascita il 1935, sarebbe lo stesso anno di nascita di gente come Gene Vincent o Elvis Presley, il secondo già morto, sia pure da poco, quando il buon Bobby pubblicava il suo primo album nel 1979.

Questo per dire che, come al solito,  le carriere dei bluesmen e degli uomini di soul, prendono il loro abbrivio sempre piuttosto in là negli anni, dopo una lunga gavetta, ma Bobby Rush poi ha recuperato, pubblicando da allora quasi una trentina di dischi, negli anni duemila ancora con una media quasi di uno ogni due anni (l’ultimo nel 2011), ma a differenza dell’altro Rush, senza voler essere polemico, non me ne ricordo uno che sia uno. Lui sostiene di avere “inventato” il FolkFunk (e io che credevo che Richard Thompson, quando ha usato il termine  per parlare del suo ultimo album scherzasse, invece esisteva davvero, ma guarda te), che è anche il titolo di un suo CD, credo del 2004, ma a giudicare da questo album, e soprattutto per i precedenti, si può tranquillamente parlare di funky, con abbondanti dosi di Blues, o viceversa, ma certo non verrà ricordato negli annali di nessuna delle due categorie. Se poi aggiungiamo, che in questo Down In Lousiana, tutto composto da brani firmati dallo stesso Rush, il pezzo migliore è forse quello che dà il titolo all’album e lo apre, una vecchia canzone scritta, tra gli altri, dal grande Jim Ford, con i suoi profumi di New Orleans, evidenziati da un accordion sbarazzino che attraversa le atmosfere funky del suddetto brano, con un freschezza che il resto dell’album non sempre conferma.

D’altra parte, Bobby Rush, viene ed è cresciuto laggiù, nel profondo Sud, in un anno che non ci è dato sapere. Bene, direi che vi ho detto le cose più interessanti e salienti dell’album, passiamo ad altro. Scherzo, ma non c’è moltissimo da aggiungere, se non che la voce, pur se ancora abbastanza pimpante, evidenzia le non poche primavere del protagonista. Registrato in quel di Nashville, il disco si avvale di un quartetto di strumentisti e di una voce femminile di supporto e quindi di uno stile più compatto rispetto a quelli precedenti dove c’era grande profusione di fiati e arrangiamenti meno concisi, e sentito a volumi adeguati, ossia abbastanza alti, si gusta anche con piacere, non vorrei darvi l’impressione che si tratti di un album brutto, anzi, proseguendo negli ascolti migliora e le classiche tre stellette le merita tutte, anche se riviste e siti di settore spesso gliene assegnano cinque, come a molti altri CD del genere, facendo pensare che ogni giorno escano nuovi capolavori imprescindibili, ma i dischi di Waters, Johnson, dei vari King o anche di gente come Buddy Guy o del citato Otis Rush quante ne meriterebbero? Diciotto!

A questo punto, ci vuole un po’ di equilibrio, perché poi gli appassionati del genere si ritrovano nelle loro discoteche miliardi di dischi, forse inutili. Non è il caso di questo, dove oltre all’iniziale title-track che è più zydeco che cajun, si segnalano anche I Ain’t The One, dal ritmo ska misto al blues, dove Bobby Rush si esibisce, con profitto, anche all’armonica, o lo slow blues and soul della melodica Tight Money, dove l’organo è molto presente e la solista disegna delle linee vicine al rock mentre l’armonica aggiunge un pizzico di serenità al brano. Ma anche lo shuffle di Boogie In The Dark è molto classico nella sua sinuosità, senza tralasciare il funky cadenzato di You Just Like A Dresser o le derive più rock-blues di Don’t You Cry con tanto di wah-wah e pure la ripresa della maliziosa Bowlegged Woman dal suo vecchio repertorio o il soul intenso di Raining In My Heart per concludere con il gospel tinto di swamp di Swing Low, con una chitarra tagliente come bonus. Quindi anche se non è il Rush giusto, ci si può fare comunque un pensierino, non male per un settantasettenne, forse!

Bruno Conti  

Alle Radici Della Lousiana. Zachary Richard – Le Fou

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Zachary Richard – Le Fou – Avalanche Productions 2012

Anche quest’anno (come lo scorso), per chi scrive il Natale è arrivato in anticipo. Infatti di questi tempi avevo recensito su queste pagine virtuali, in formato DVD (Some Day), lo splendido concerto di Zachary Richard, registrato nell’ambito del Festival International del Jazz di Montreal, e oggi quando il postino ha suonato alla mia porta e mi ha recapitato questo ultimo lavoro (il 20° se non ho sbagliato il conto), sono tornato bambino, quando aprivo con ansia i pacchi regalo. Nello stesso tempo quando si ama incondizionatamente un “outsider” storico come Zachary, mi chiedo sempre se mi farebbe davvero piacere vederlo svettare nelle classifiche e diventare un fenomeno di massa, o rimanere un artista di “culto” per pochi eletti. La sua musica, inizialmente, era una perfetta fusione di cajun tradizionale, zydeco, rock e blues di New Orleans, e assieme ai Beausoleil e pochi altri, ha contribuito a divulgare le tradizione della sua terra in tutto il mondo. Una quindicina d’anni fa, Richard ha abbandonato il suono cajun rock, aperto e coinvolgente, che aveva caratterizzato buona parte della sua produzione, per una scrittura più interiore e cantautorale,  sempre in sintonia con la musica della sua amata Louisiana, abbracciando la lingua francese e andando a vivere con la famiglia in Canada nel Quebec.

Con questo Le Fou, (titolo ispirato dal nome francese di un uccello coinvolto nel disastro causato dalla esplosione sulla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico nel 2010) Zachary Richard si dimostra più che mai impegnato in tematiche sociali e ambientaliste, con canzoni che parlano dei temi della resistenza alla furia della natura (Laisse le Vent Souffler), della “separazione” (La Chanson Des Migrateurs) e di storie d’identità e di natura (Original Ou Caribou), oltre a quelle che certificano l’orgoglio e la voglia di lottare per la propria terra.

L’album è prodotto da Nicolas Petrowski e dallo stesso Zachary Richard, e si avvale di ottimi musicisti locali, tra i quali Eric Sauviat alle chitarre e dobro, Nicholas Fiszman al basso, Justin Allard alla batteria, Felix LeBlanc al violino, le brave coriste Yolanda Robinson e Erica Falls e l’amico di sempre Sonny Landreth come ospite, e particolare importante (come si nota dai titoli dei brani), è tutto cantato in francese, nella lingua della nonna materna e sua attuale.

Si apre con la bella e orgogliosa Laisse Le Vent Souffler in perfetto stile cajun e la chitarra di Sonny Landreth è subito protagonista, brano bissato da una Sweet Sweet dotata di un ritornello orecchiabile con il violino in evidenza. Al terzo brano siamo già al capolavoro del disco, con Le Fou  (la follia del genere umano nel distruggere l’ambiente naturale), splendida ballata dalla melodia intensa ed in crescendo, che ci riporta al miglior Richard, con la voce distesa e ben impostata. Da sola potrebbe già valere la spesa del disco. Clif’s Zydeco come dice il titolo, è uno zydeco della terra natia dedicato al re del genere, Clifton Chenier, con la fisarmonica di Zac e la chitarra di Sonny a dettare il ritmo, seguito da un arpeggiata La Chanson Des Migrateurs, una ballata acustica piena di suggestioni. Si cambia decisamente ritmo con Lolly Lo, brano dal ritornello accattivante, con un organo malandrino e il coro sugli scudi, mentre La Musique Des Anges  è una ballata elettrica di un certo respiro, con una melodia forte ed evocativa.

Il disco prosegue a questi livelli con La Ballade De Jean Saint Malo, giocata sulle percussioni di Elage Diouf, un giro di chitarre ritmiche ed un crescendo finale “liberatorio” delle coriste, seguito da Crevasse Crevasse un cajun-bluesche vede lo stesso Zac all’armonica, prima di scatenarsi in un brano Bee De La Manche, dove fisarmonica, violino e percussioni la fanno da padroni. C’est Si Bon (non la famosa canzone francese resa celebre anche da Armstrong, ma un brano suo). è introdotta da pochi arpeggi di chitarra e dalla voce dell’autore, poi si apre lentamente, lasciando spazio ad una dolce melodia, resa al meglio dal mandolino di Eric Sauviat e dal violino di Ray Légère, mentre la seguente Orignal Ou Caribou è un brano molto roots, in cui non mancano le influenze folk dell’artista. Il CD si chiude in bellezza con Les Ailes Des Hirondelles, una canzone struggente, con il dobro ad accompagnare la voce sofferta di Zac (una delle composizioni migliori di questo figlio legittimo della Louisiana che in altra forma già appariva su Migration).

Zachary Richard è ormai oltre i sessanta, nel 2010 è stato colpito da un ictus (che lo ha costretto a sospendere per un lungo periodo l’attività), ma questo signore ha alle spalle una carriera solida, anche se talvolta avara di soddisfazioni, non ha mai venduto molto, comunque i suoi dischi hanno segnato una parte della storia  della musica, con canzoni che hanno saputo dare sempre un’emozione, e, aggiungo, sono in piena sintonia con il mio “collega” di blog Marco Verdi, che di questi tempi  per sentire della buona musica si devono indirizzare le orecchie verso “stagionati” artisti. (Gallina vecchia fa buon brodo!)

Tino Montanari

NDT: Vi ho risparmiato alcuni cenni biografici e la discografia, che potete recuperare andando a rileggere la recensione dello scorso anno del DVD Some Day che trovate qui l-acadien-errante-zachary-richard-some-day-live-at-the-mont.html . Buona lettura.!

Saluti Dalla Louisiana! Eric Bibb – Deeper In The Well

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Eric Bibb – Deeper In The Well – Dixiefrog/IRD

Eric Bibb è uno dei più rispettati musicisti della scena musicale acustica Blues americana, figlio di Leon Bibb e nipote di John Lewis del Modern Jazz Quartet, Eric è una sorta di cittadino del mondo visto che vive in Finlandia e una delle nazioni dove è più popolare, e dove si trova una delle sue tante case discografiche, è la Francia. Ma è anche prolifico, molto prolifico, questo Deeper In the well è il quarto album che esce in meno di anno: d’altronde gli “scappava” di fare un album con alcuni musicisti della Louisiana conosciuti in occasione della trasmissione della BBC Celtic Connections  e, detto fatto, è stato organizzato un viaggio per andare a registrare questo album in quel di Pont Breaux, Louisiana al Cypress House Studio di Dirk Powell con alcuni musicisti locali e qualche ospite di prestigio. Visto che in ogni caso, New Orleans e la Louisiana in generale sono comunque una delle culle dove è nato il Blues, il genere del disco è quello solito dei dischi di Bibb con alcuni brani dove le influenze cajun e zydeco sono più evidenti.

Come al solito il contenuto è un misto di cover, traditionals e brani originali di Bibb la cui provenienza è assolutamente indistinguibile: dall’iniziale Bayou Belle firmata dal nostro amico, un blues intriso di gospel con l’armonica di Grant Dermody, il contrabbasso di Dirk Powell (ma suona una infinità di strumenti, tra cui fisarmonica, banjo e violino), il violino di Cedric Watson e le percussioni di Danny De Villier, nonché il triangolo cajun di Christine Balfa ( proveniente da una delle famiglie più importanti della musica della Louisiana) a dare una mano alla acustica di Bibb e a supportare la sua voce ricca di mille sfumature si passa al puro cajun di Dig A Litte Deeper In the Well che Eric dice di avere conosciuto in una registrazione live della coppia Doc & Merle Watson ma qui ritrova lo spirito “regionale” del brano. C’è il super Deep Blues di No Further, solo armonica, contrabbasso e chitarra acustica a sostenere la voce molto espressiva di Bibb.

Sinner Man è un brano tradizionale che consente ancora una volta di apprezzare questa musica “senza tempo”, sospesa tra il passato delle radici e le tecnologie moderne che ci permettono di godere ogni più piccola evoluzione di armonica, chitarra acustica, violino e contrabbasso e la voce, profonda e risonante. Boll Weewil arrangiata dal duo Powell e Dermody è un altro traditional austero e scarno che proviene dalle radici del blues mentre In My Time con il dobro dell’ospite Jerry Douglas in grande evidenza svolta per un country blues rigoroso ma allo stesso tempo piacevole all’ascolto. Tutto quello che abbiamo ascoltato finora profuma di Taj Mahal e infatti la successiva Every Wind In The River porta la firma e le coordinate musicali del grande colored americano, uno dei più grandi musicisti in circolazione come dimostra la sua partecipazione al recente Chimes Of Freedom e la sua versione di Dylan è una delle più brillanti del lotto. Eric Bibb con l’aiuto degli ospiti Michael Jerome Browne al fretless banio e mandolino e Michel Pepin alle chitarre elettriche “baritone e ambient” (giuro!), si candida autorevolmente alla successione di Mahal, in un lontano futuro. Sittin’ In A Hotel Room è una di quelle meravigliose ballate acustiche che il nostro amico ogni tanto ci regala, solo una chitarra sullo sfondo, la armonica e il violino del duo Dermody e Watson e il triangolo della Balfa a incorniciare la sua splendida voce. Senza stare a tediarvi ulteriormente con altri titoli ( ma è importante anche questo) vi segnalo almeno ancora l’ottima Money In Your Pocket più ricca negli arrangiamenti e una particolare versione dolcissima di The Times They Are a Changin’ con un banjo insinuante in evidenza e tutto il gruppo di musicisti al servizio della voce di Eric Bibb che in questo brano raggiunge vette interpretative di grandissimo spessore e intensità (questa era da mettere nel tributo a Dylan)!

Che dire, ne farà pure troppi di dischi, ma è proprio bravo. Approvato.

Bruno Conti