E I Chieftains Fanno “50” Con Un Gruppo Di Nuovi Amici – Voice Of Ages

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The Chieftains – Voice Of Ages – Hear Music/Concord CD o CD/DVD Usa 21/02/2012 Europa 23/04/2012

Perché quelle date diverse vi chiederete? Non so, chiedere alla Universal, mistero! Ma purtroppo è vero, in Europa uscirà 2 mesi dopo l’uscita americana. Come per Amnesty International, Bob Dylan e, più tardi nell’anno i Beatles, sono 50 anni di onorata carriera, 1962-2012 e quindi perché non festeggiarli con un nuovo gruppo di amici con un bell’album di duetti? Certo, eccolo qui: prodotto da Paddy Moloney e l’immancabile T-Bone Burnett arriva questo Voice Of Ages.

I Chieftains non sono nuovi a questo tipo di album; da quando nel 1988 hanno realizzato il bellissimo Irish Heartbeat con Van Morrison questa tradizione delle collaborazioni è stata coniugata in mille forme e con una infinità di artisti. Già, l’anno precedente, nel 1987 avevano realizzato un album con il flautista classico James Galway intitolato In Ireland e un altro, Celtic Wedding con un gruppo di musicisti bretoni, ma si trattava comunque di album strumentali con l’occasionale brano cantato, come era sempre stato nei primi 25 anni della loro carriera. Con irish heartbeat le cose cambiano, infatti nel 1991 arriverà The Bells Of Dublin con, tra gli altri, Costello, le sorelle McGarrigle, Nanci Griffith, Marianne Faithfull, Rickie Lee Jones e Jackson Browne. Nel 1992 Another Country, in trasferta in America con Willie Nelson, Emmylou Harris, la Nitty Gritty Dirt Band, Ricky Skaggs, Chet Atkins, Don Williams e altri, The Chieftains goes country. Sempre nel 1992 per il disco dal vivo An Irish Evening vengono invitati Roger Daltrey e di nuovo Nancy Griffith.

Nel 1995 con The Long Black Veil c’è l’apoteosi: Sting, Mick Jagger, Sinead O’Connor, Van Morrison, Mark Knopfler, Ry Cooder, Tom Jones e i Rolling Stones, cazzo! Se si può scrivere! Nel 1996 c’è Santiago il disco dell’incontro con la musica ispano-americana, tanto per non parlare solo dei dischi dei duetti e se volete risalire a risalire a ritroso nella loro discografia uno qualsiasi dei primi, numerati dall’1 al 7 e Bonaparte’s Retreat sono uno più bello dell’altro ma più per amanti e praticanti della musica celtica, mentre quelli con gli ospiti, per quanto sempre rigorosi nelle loro “radici musicali” sono più godibili anche dai novizi o dai fans degli ospiti. Long Journey Home un altro disco strepitoso vince il Grammy per miglior disco folk nel 1999 e vede tra gli ospiti Mary Black, Vince Gill, Liam O’Maonlai degli Hothouse Flowers e il ritorno di Elvis Costello e Van Morrison. Nel 1998 era uscito anche Fire In The Kitchen dove i Chieftains nel loro ecumenismo incontravano tutti musicisti canadesi.

E che dire di Tears Of Stone del 1999 un incontro tutto dedicato alle voci femminili? Una meraviglia, con Joni Mitchell, Natalie Merchant, Bonnie Raitt, Mary Chapin Carpenter, Joan Osborne, Loreena McKennitt, Corrs e molte altre.

Gli anni 2000 iniziano con Water From The Well che avrà anche una bella versione dal vivo su DVD. E il 2002 e il 2003 vedono l’uscita dei due dischi della trasferta a Nashville: Down The Old Plank Road e Further Down The Old Plank Road, con John Hiatt, Buddy & Julie Miller, Alison Krauss, Lyle Lovett, Patty Griffin, Gillian Welch e David Rawlings nel primo e John Prine, Joe Ely, Allison Moorer, Emmylou Harris, Carlene Carter, Patty Loveless, Rosanne Cash la Nitty Gritty e altri già presenti nel 1° volume. Uno più bello dell’altro!

Nel 2002 purtroppo muore Derek Bell, il loro leggendario arpista e tastierista, e quindi la loro produzione, anche per l’età (non dimentichiamo che Paddy Moloney è del 1938), si fa più rarefatta, ma un disco come San Patricio con Ry Cooder, uscito nel 2010 è un piccolo capolavoro e ha vinto molte poll di fine anno come miglior disco e non solo nella categoria folk-world music.

E alla fine arriviamo a questo Voice Of Ages che segna l’incontro dei Chieftains con un gruppo di “nuovi amici”, ovvero i rappresentanti di quel filone musicale neo folk-country-roots che si sta riaffermando proprio in questi ultimi anni.

Ad aprire le danze è la connazionale irlandese Imelda May, reginetta del neo rockabilly e della musica degli anni’50, una voce molto bella che ripropone Carolina Rua, cavallo di battaglia del repertorio di Mary Black e devo dire che pur facendo un ottimo lavoro non può competere con la voce pura e cristallina della Black. Molto brave anche le Pistol Annies, il trio americano country-roots reduce da un disco di esordio come Hell On Heels, tra le cose migliori sentite in quell’ambito musicale nel corso del 2011, propone una versione molto sentita (e ben cantata) di Come All Ye Fair And Tender Ladies, dove le voci di Miranda Lambert, Ashley Moore e Angaleena Presley si amalgano alla perfezione con il suono dei Chieftains. Ottima anche Pretty Little Girl dei Carolina Chocolate Drops e qui lo stile da string band si adatta alla perfezione al folk e il risultato finale ha anche screziature di old time music e cajun, ballabile e trascinante, ma suonando allo stesso tempo perfettamente Chieftains.

Bon Iver chiude un 2011 molto attivo con questa Down In The Willow Garden e anche Paddy Moloney ammette di essersi dovuto adattare al perfezionismo del musicista americano che ha preferito lavorare in proprio per mandare poi il suo lavoro ai musicisti irlandesi che scalpitavano in sala per completare il brano e l’album entro i tempi stabiliti. Altro gruppo (ma sono solo in due) assolutamente da scoprire se già non li conoscete sono i Civil Wars il cui debutto del 2011 Barton Hollow è tra gli esordi dell’anno più interessanti dell’anno appena finito. Tra country, folk e roots hanno scritto un brano appositamente per l’occasione, una Lily Love che ha tutte le caratteristiche di “un’aria irlandese” con le voci di Joy Williams e John Paul White che si intrecciano deliziosamente con flauti e flautini.

In Lark In The Clear Air il bluegrass dei Punch Brothers incontra l’antenato celtico e il risultato è tra i momenti più “tradizionali” e autentici dell’intero album. con i componenti del gruppo americano che potrebbero diventare Chieftains onorari tanto sono a loro agio in questa musica sia vocalmente che strumentalmente. Altra “aria celtica” struggente è quella cantata con passione e trasporto dalla bravissima Lisa Hannigan, la celeberrima My Lagan Love riceve un trattamento sontuoso in questa versione dove brillano le uillean pipes di Moloney. Finalmente, dopo 50 anni di carriera, la musica di Dylan e quella dei Chieftains si incontrano in una versione di When The Ship Comes In: a fare da tramite tra i due mondi i Decemberists che ancora una volta si confermano uno dei gruppi migliori attualmente in circolazione e con Colin Meloy che si trasforma nel Roger McGuinn della situazione per un brano che suona come un incrocio tra Band, Byrds e, naturalmente, Chieftains. 

Di pari livello è la partecipazione dei Low Anthem con una School Days Over introdotta da un coro di bambini e che poi si trasforma in una ulteriore “air” malinconica e di grande bellezza con la voce di Ben Knox Miller sostenuta da Joice Adams che trasforma l’indie folk del gruppo di Providence in perfetto folk irlandese. I Punch Brothers sono gli unici presenti con due brani: anche The Frost Is All Over con violini e flauti a duettare deliziosamente li conferma a perfetto agio con questa musica, con immagine non poetica ma efficace potrei dire che si trovano “come dei maiali a razzolare nel fango”. Le nuove regine dell’armonizzazione, ovvero le Secret Sisters (non a caso prodotte nel loro esordio da T-Bone Burnett) sono pressoché perfette nella dolce Peggy Gordon. Mentre mi ha sorpreso assai piacevolmente l’italo-scozzese Paolo Nutini  (peraltro i suoi dischi sono piacevoli e si ascoltano con gusto): Hard Times (Come Again No More) è uno dei brani migliori dell’intero progetto, cantato con voce maschia e sicura da Nutini è una bella ballata di stampo anglo-irlandese che non fa rimpiangere un Christy Moore della situazione.

Gli ultimi tre brani sono degli strumentali classici dei Chieftains, soprattutto il primo, la lunghissima (più di 11 minuti) The Chieftains Reunion rinnova i fasti dei loro anni migliori e, non accreditata (o meglio non lo so io perchè non ho il libretto del CD), appare anche una arpa celtica, se non mi sono sognato, oltre alle voci del gruppo (Kevin Conneff) e qualche ospite che armonizza nella parte centrale del brano caratterizzato da continui cambi di tempo e di atmosfere con violini, flauti, uillean pipes, arpa appunto e bodhran a duellare nella migliore tradizione del gruppo irlandese. E qui il piedino parte…Per concludere due curiosità: The Chieftains in Orbit è un brano registrato con la astronauta americana Cadie Coleman e il titolo dice tutto. L’ultimo brano rinnova l’incontro di cornamuse con il musicista spagnolo Carlos Nunez per una coinvolgente Lundu che conclude in gloria le danze.

Mi sa che anche questo entrerà nella lista dei migliori dell’anno. L’edizione Deluxe ha il video del brano con i Low Anthem e un making of.

Bruno Conti

P.s Il video di Lisa Hannigan che canta The Times They Are A-Changin’ accompagnata da Herbie Hancock e dai Chieftains è un omaggio ai 50 anni di carriera di Dylan e Chieftains, anche se non c’entra con il resto.

Questo E’ Il Best Of 2011 Visto Dal Piemonte!

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Questo è il meglio del 2011 secondo i gusti di Marco Verdi, altro collaboratore del Blog, con annessi e connessi, quisquiglie e pinzillacchere, ecco qua, come al solito ho inserito qualche video e copertina!

Bruno Conti

 

I DIECI DISCHI DELL’ANNO:

 

THE DECEMBERISTS: The King Is Dead

 

THE LOW ANTHEM: Smart Flesh

 

FLEET FOXES: Helplessness Blues

 

WILLIE NELSON: Remember Me, Vol. 1

 

BRANDI CARLILE: Live At Benaroya Hall

 

WARREN HAYNES: Man In Motion

 

CHRIS ISAAK: Beyond The Sun

 

STONEWHEEL: Feel Like Yesterday

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VV.AA: This One’s For Him: A Tribute To Guy Clark

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RYAN ADAMS: Ashes & Fire

 

QUELLI CHE…PER UN PELO (o come si diceva una volta, i “dischi caldi”):

 

LOU REED & METALLICA: Lulu

 

MARIANNE FAITHFULL: Horses And High Heels

 

JUNE TABOR & OYSTERBAND: Ragged Kingdom

 

NORTH MISSISSIPPI ALL STARS: Key To The Kingdom

 

GEORGE THOROGOOD: 2120 South Michigan Avenue

 

TOM RUSSELL: Mesabi

 

DAVID BROMBERG: Use Me

 

NEIL YOUNG: A Treasure

 

GREGG ALLMAN: Low Country Blues

 

 

RISTAMPE DELL’ANNO:

 

THE BEACH BOYS: Smile

 

THE WHO: Quadreophenia

 

THE ROLLING STONES: Some Girls Deluxe

 

 DVD DELL’ANNO:

GEORGE HARRISON: Living In The Material World, by Martin Scorsese

 

 

 CANZONI DELL’ANNO:

 

“Apothecary Love” dei Low Anthem

 

“The Love That Faded” di Bob Dylan

 (NDB, in effetti erano 500 anni che Bob Dylan non cantava così bene!).

 

DELUSIONI DELL’ANNO:

 

I due tributi a BUDDY HOLLY

 

ROBBIE ROBERTSON: How To Become Clairvoyant

 

BUDDY MILLER: The Majestic Silver Strings

 

PREMIO “SOLA” 2011:

 

Le ristampe dei QUEEN

Marco Verdi

 

P.S. Devo dire che il Live At Benaroya Hall di Brandi Carlile non è piaciuto solo a me. A parte un altro collaboratore del Buscadero è piaciuto a molti. E nelle mie prossime liste aggiunte dei migliori lo troverete.

Bruno Conti

La Band Dell’Anno? The Decemberists – Long Live The King

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The Decemberists – Long Live The King – EP – Capitol Records

Nel ringraziare Bruno per l’avermi ospitato nuovamente nel suo Blog (che in questi giorni compie due anni: auguri!!!), mi accingo con grande piacere a parlare della nuova uscita discografica dei Decemberists, quintetto di Portland, Oregon autore all’inizio di questo 2011 di quello che, a mio modesto parere, ed a pari merito con Smart Flesh dei Low Anthem e Helplessness Blues dei Fleet Foxes, è il disco più bello di quest’anno, cioè The King Is Dead (a dimostrazione che a fare musica rock come si deve non sono rimasti solo i sepolcri imbiancati, ma anche diverse giovani band: che poi il loro suono si ispiri a quello dei classici è un altro paio di maniche).

Ora però il gruppo guidato da Colin Meloy (ricordiamo anche gli altri: Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen) fa uscire un nuovo EP (ma allora qualcuno li fa ancora!) di sei canzoni, “rischiando” così di vincere per distacco al fotofinish la gara di band dell’anno.

Sì, perché Long Live The King (notate la finezza, anche nel titolo si collega direttamente al suo predecessore), pur durando meno di mezz’oretta, è il degno seguito del CD uscito, mi sembra, lo scorso Gennaio: roots-rock (definizione un po’ abusata, ma qui calza a pennello) di gran lusso, contaminazioni folk e country, un suono scintillante ed una serie di canzoni che non avrebbero affatto sfigurato su The King Is Dead.

Registrato durante le sessions per la loro ultima fatica, non propone, come erroneamente riportato da alcuni siti, sei covers: ce n’è soltanto una (in realtà sarebbero due, ma l’altra è una cosa un po’ particolare, che poi vedremo), peraltro splendida, di Row Jimmy dei Grateful Dead, che è anche l’unico brano già uscito (era una b-side di un vinile a sette pollici, ma chi ce l’ha???), più quattro brani nuovi di pacca usciti dalla lucida penna di Meloy.

Un altro particolare simpatico: l’EP esce da solo, invertendo l’odiosa tendenza di ripubblicare a distanza di pochi mesi l’ultimo CD in versione “deluxe” con brani aggiunti (come fece qualche anno fa un signore che si fa chiamare il Boss con un disco intitolato The Seeger Sessions, ma anche più recentemente gruppi come Arcade Fire e Mumford & Sons).

L’avvio è scarno, ancorchè bellissimo: E. Watson è una splendida folk song acustica, eseguita dal solo Meloy con la sua chitarra, più un paio di backing vocalists femminili, un brano molto evocativo, che piacerà sicuramente ad una come Gillian Welch. Foregone, elettrica e full band, è senza dubbio il capolavoro del dischetto (cover dei Dead a parte), e non capisco perché non l’abbiano messa su The King Is Dead: classico suono roots tipico dei nostri, una melodia aperta ed una languida steel ad impreziosire il tutto. Il suono non si distanzia molto da quello dell’ultimo Ashes & Fire di Ryan Adams, ed anche con la qualità ci siamo.

Burying Davy è un folk tune dal motivo decisamente tradizionale, contrapposto ad un accompagnamento molto elettrico ed in taluni punti quasi psichedelico e dissonante, come fanno talvolta i Cowboy Junkies (specie nell’ultimo Sing In My Meadow): il brano comunque non sfugge di mano a Meloy e soci, che anzi dimostrano di non aver paura ad osare pur proponendo sempre qualcosa di stimolante. Come dire che un giorno potrebbero fare un intero album con questo sound senza farci storcere la bocca. I 4 U & U 4 Me, nonostante il brutto titolo alla Prince, è un home demo, con Meloy che si occupa di tutto, ma suona come un brano fatto e finito, una folk song elettroacustica dal ritmo veloce, che personalmente mi ricorda certe cose del Los Lobos, versante Hidalgo.

Ed eccoci alla già citata Row Jimmy (un plauso alla scelta, niente affatto scontata, vuol dire che i Decemberists conoscono i Dead nel profondo): versione lunga (sette minuti) ed elettrica, solare e decisamente rispettosa dell’originale, che mette in primo piano la bella melodia, tipica di Jerry Garcia (o Jerome, come scrivono i ragazzi nei credits), per poi lavorarla con un abile cesello di slide guitar e pianoforte (Funk e la Conlee, entrambi molto bravi). E veniamo alla fine, con Sonnet, che altro non è che l’adattamento in inglese, con musica scritta ex novo…del Sonetto di Dante Alighieri a Guido Cavalcanti!

Non c’è che dire, i ragazzi dimostrano anche di avere una profonda cultura, fatto non scontato in una band di giovani americani (non prendete per ironico, o peggio ancora, snob o razzista questo mio commento: amo l’America, ci andrei perfino a vivere, e conosco molto bene per motivi di lavoro il popolo americano, che ha indubbiamente grandi qualità, ma tra queste non c’è di certo la cultura internazionale, specie in geografia…). A prescindere comunque da tutto questo, il brano è ancora un folk rock decisamente riuscito, con l’ennesima bella melodia ed un originale arrangiamento, nel quale il riff vocale è ripreso ad libitum da tromba e trombone, creando un cocktail molto stimolante.

A questo punto, penso che se avete comprato ed apprezzato The King Is Dead, non potete esimervi dall’accaparrarvi anche Long Live The King…sarebbe come mangiare polenta e brasato senza accompagnarlo con una bottiglia di nebbiolo, barbera, ecc. (il paragone calza, visto il periodo…).

Buon appeti…ehm…buon ascolto!

Marco Verdi

Un’Altra Cosa Da Fare A Denver…Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss

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Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss – Rounder/Decca-Universal

Come avrete intuito dal titolo, questo signore vive a Denver, Colorado dove svolge l’attività di giardiniere, ma è anche uno dei nuovi (giovane non gli si addice, avendo già superato la trentina) talenti nell’arte del cantautore, Singer-Songwriter suona più fascinoso. In effetti il “gruppo”, come dice lui in alcune interviste, sarebbe Nathaniel Rateliff and the Wheel, ma il suono che fuoriesce dalle casse del mio impianto è indubitabilmente quello di un solista, oserei dire addirittura di un folksinger, per quanto dotato di una bellissima voce.

Già, la voce è la prima cosa che si nota ascoltando questo In Memory Of Loss: nelle anticipazioni parlavo di voce “strana”, quella che ti colpisce fin dalle prime note di Once In A Great While, il brano di apertura di questo album e che poi ti accompagna in un viaggio lungo tredici canzoni. Brani morbidi, di impianto acustico, ma con una bella tessitura sonora costruita con la collaborazione del produttore Brian Deck (vi parlavo di Califone e Iron and Wine, tra i suoi clienti ma ha prodotto anche Modest Mouse e Josh Ritter nei suoi studi di Chicago), piccoli particolari sonori, oltre all’immancabile chitarra acustica arpeggiata, un piano qui, un violino là, una sezione ritmica discreta ma presente (e qui mi ha ricordato vagamente un’altro gruppo, i Swell Season), una voce femminile, Julie Davis che suona anche il contrabbasso (come nel brano d’apertura e nei video che potete vedere è co-protagonista con Rateliff), l’armonica, quando serve anche delle chitarre elettriche e il risultato è affascinante.

Devo ancora decidere se il disco mi piace soltanto o mi piace molto ma non fa molta differenza. Il filone, se volete, è quello del neo-folk che vede tra i suoi nuovi luminari i mai troppo incensati Mumford And Sons che continuano imperterriti a scalare le classifiche in tutto il mondo e che al momento sono in tournée proprio con Rateliff, ma anche i Low Anthem, i già citati Iron Wine (tutti gruppi caratterizzati da un cantante con una voce “particolare”) ma non mancano influenze indirette, tra gli artisti ascoltati in gioventù nella cittadina di 60 anime nel Missouri dove viveva Rateliff cita Van Morrison, e qualcosa si sente, Muddy Waters e Beatles, anche in questo caso, la conclusiva Happy Just to Be sembra la gemella separata alla nascita di Across The Universe, almeno nella parte iniziale e nel ritornello il tema ritorna ma il brano è talmente bello che non puoi arrabbiarti.

La critica inglese, provvida di 4 stellette ha ricordato la voce di Johnny Cash, ma anche quelle di Tim Hardin e Guy Clark, quindi non si vola bassi. Al sottoscritto ricorda anche qualcosa del Cat Stevens di Catch Bull At Four e, per le atmosfere, i grandi Mark-Almond (quelli con la K, da non confondere, Jon Mark e Johnny Almond) nei loro momenti più rarefatti.

Il disco è stato scritto come “offerta d’amore” per una donna che voleva conquistare (e come dice in una intervista è andata bene perché l’ha sposata) e quindi pur nella sua malinconia splende un fondo di ottimismo, come ad esempio nella bellissima Every Spring Still con i suoi improvvisi crescendi strumentali che ricordano i citati Mumford and Sons e il cantato a più voci mutuato dal folk più tradizionale.

Ma poi a ben vedere il disco in un certo senso è quasi autoreferenziale, quando in certi momenti ti trovi a dire, “ma questa la conosco”, mi ricorda qualcosa, poi riflettendo concludi “ma certo, o pirla, ti ricorda un brano precedente, ma sempre suo!). Ci sono momenti assai rarefatti, quasi scarni come in We Never Win, solo voce e un organo di coloritura, altri più espansivi (sempre con quel raddoppio di voci affascinanti) come la trascinante Brakeman (che è quella che mi ha ricordato il citato Cat Stevens).

Un’altra caratteristica del disco è che le canzoni sono quasi tutte molto brevi, non fai in tempo ad annoiarti anche nei brani meno memorizzabili, come la triste Longing and Losing, molto minimalista. Oil And Lavender con la sua voce risonante e profonda ti ricorda mille cose che non riesci ad afferrare e anche questo è il merito di un grande autore(il recensore di Mojo, ha parlato di musica dei silenzi). Poi improvvisamente quando credi di avere capito tutto la musica diventa più complessa, entra un’armonica e ti trovi a cavallo tra il country più nobile e Dylan, come nella stupenda You’ve Should’ve Seen The Other Guy, con i vocalizzi improvvisi nel finale.

Altro brano di grande spessore e con un arrangiamento molto più grintoso, Whimper and Wail, si avvale anche di un violino sinuoso, oltre che di una sezione ritmica più presente e ci riporta ai signori già citati più volte che non dirò nuovamente ma già sapete. Boil and fight sempre raccolta ma espansiva (l’uso di più voci, come gia detto, aiuta) introduce anche il suono di un vibrafono che si aggiunge ai soliti strumenti appena accennati. When We Could mi ha lanciato un flash (un’impressione brevissima e sfuggente) di You’ve Got A Friend, ma il filone è quello, singer-songwriters acustici.

A lamb on the stone con le sue immagini bucoliche ci rimanda ai grandi spazi dell’America ma anche ad un mondo che non c’è più, e qui una citazione per il Van Morrison pastorale del periodo Californiano è d’obbligo, il brano scivola via che è un piacere su una sezione ritmica agile e vagamente jazzata e con piano e una chitarra elettrica che aprono il suono verso sonorità tipicamente americane, assolutamente una piccola delizia sonora.

Prima della conclusione Beatlesiana c’è spazio ancora per un piccolo acquarello sonoro folk, i due minuti scarsi di When You’re Here solo voce e chitarra acustica, dolcissima.

Sì, direi che mi piace molto, e poi ha anche una bella faccia, sincera, non so se c’entra ma aiuta.

Bruno Conti

Uncut The Best Of The Rest 2009

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Proseguiamo con le classifiche di fine anno delle principali riviste. Questa volta è il turno di quelle di Uncut nelle varie categorie oltre ai migliori in assoluto.

Piccola nota. Niente Mumford and sons nei primi 50!! sia di Uncut che di Mojo (mah?!?), comunque…

Top Boxset & Compilations

1) Beatles – The Beatles in Mono/The Beatles in Stereo

2) Big Star – Keep an eye on the sky

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3) Kraftwerk – 12345678 The Catalogue

4) Where The Action Is! Los Angeles Nuggets 1965-1968


5) Neil Young – Archives Vol.1

Best Reissues

1) Rolling Stones – Sticky Fingers


2) REM -Murmur
3) John Martyn – Solid Air
Cha canzone stupenda in un album stupendo, grandissimo musicista!
4) Bert Jansch – LA Turnaround
5) Tim Buckley – Live at the Folklore Centre NYC

Questo era il babbo, uno dei piu “grandi” di sempre
Best Americana Albums
1) Low Anthem – Oh My God, Charlie Darwin
2) Alela Diane – To Be Still
Un’altra molto brava! Ne ha già fatto un altro. Un Dieci pollici (avete presente i vecchi 78 giri) con Alina Harding, ebbene sì, Alela & Alina.
3) The Duke and The King – Nothing Gold Can Stay
4) Felice Brothers – Yonder is the clock I Fratelli di quello sopra
5) Richmond Fontaine – We Used To The Think The Freeway Sounded Like A River Il Titolo Migliore, Anche la musica è ottima

Per finire

Best Music DVDS

1) Rolling Stones – Gimme Shelter

2) John & Yoko -Give Peace A Song
3) James Brown – The Night James Brown Saved Boston
4) Woodstock – 3 Days of Peace and Music
Questa, la prima volta che l’ho vista al cinema, mi è rimasta impressa!
5) Jeff Buckley – Grace Around the World Poteva mancare il figlio?
Alla prossima.
Bruno Conti