Ecco Il Primo Capitolo Della Serie Lu’s Jukebox. Lucinda Williams Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty

lucinda williams runnin' down a dream a tribte to tom petty

Lucinda Williams – Runnin’ Down A Dream – A Tribute To Tom Petty – Highway 20 Records/Thirty Tigers

Come moltissimi altri musicisti, nel periodo della pandemia anche Lucinda Williams si è ingegnata per trovare nuovi progetti musicali che potessero alleviare il lungo periodo del confinamento casalingo: lei lo ha fatto creando la serie Lu’s Jukebox che si articolerà in una serie di sei Live In Studio incentrati su omaggi/tributi sia ad alcuni grandi musicisti, quanto a generi musicali molto diversificati fra loro. Il tutto in rete ha già preso l’abbrivio dall’ottobre dello scorso anno con una serie di trasmissioni streaming in alta definizione e a pagamento, per devolvere i fondi ricavati a musicisti ed addetti ai lavori in difficoltà finanziaria, destinati poi a diventare dei CD con una serie di uscite cadenzate durante il 2021. Il primo sarà quello dedicato a Tom Petty, di cui tra un attimo, l’ultimo sarà quello sui Rolling Stones: ad accompagnare Lucinda, oltre al produttore Ray Kennedy, che insieme alla Williams e al marito Tom Overby, ha coordinato il tutto dai Room And Board Recording Studios di Nashville, ci sono una serie di musicisti che ultimamente accompagnano la musicista di Lake Charles: Stuart Mathis alla Chitarra Solista, Joshua Grange, Chitarra e Tastiere ,Stephen Mackey al Basso e Fred Eltringham alla Batteria.

La nostra amica aveva ottimi rapporti con Petty tanto che era stata l’opening act nella tre serate all’Hollywood Bowl, culminate con la data del 25 settembre 2017, l’ultimo concerto di Tom prima della prematura scomparsa avvenuta il 2 ottobre dello stesso anno: sono già passati tre anni e mezzo, ma il biondo musicista manca sempre di più a tutti, anche se le sue canzoni continuano a vivere con una serie di eventi che si sono succeduti da allora. L’ultima a voler approcciare il suo songbook è stata appunto Lucinda Williams, che per questo Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty ha scelto dodici brani della sua sterminata produzione, aggiungendo una canzone scritta appositamente per l’occasione. Come sa chi legge abitualmente questo Blog il sottoscritto apprezza molto la musica della nostra amica https://discoclub.myblog.it/2020/04/24/sferzate-blues-e-ballate-elettriche-urticanti-dalla-citta-degli-angeli-lucinda-williams-good-souls-better-angels/ , ma mi rendo conto che per vari motivi, soprattutto la voce, molti non la amano e rispetto la loro scelta: però non mi esimo dal dire che anche questa volta mi sembra che l’obiettivo di fare un buon disco sia stato centrato. Forse, anzi sicuramente, non un capolavoro, ma un sentito omaggio ad uno dei migliori talenti espressi dalla musica americana negli ultimi 40 e passa anni.

L’approccio ovviamente è diverso, manca il tipico jingle-jangle del rocker della Florida, a favore di un sound più bluesato e compatto tipico della Williams, ma non “sconosciuto” al sound degli Heartbreakers. Si apre con Rebels, brano tipicamente “sudista” che evidenzia le affinità tra i due: bella rilettura, molto laidback e vicina a quella dell’originale, meno carica rispetto a certe canzoni di Lucinda, ma sempre con la giusta tensione chitarristica, affidata all’interscambio tra Mathis e Grange, si prosegue con la title track, una delle canzoni nate dalla collaborazione con Jeff Lynne, più grintosa e tirata, decisamente vicina al groove dell’originale, con le chitarre che riffano di brutto nello spirito rock’n’roll pettyano, con assolo ruvido al seguito. Gainesville e Louisiana Rain sono altri due brani che evidenziano le comuni radici, non solo musicali, ma anche di vita, dei due, la seconda con il piano elettrico di Grange ad evidenziare l’atmosfera sospesa ma esuberante della canzone che ben si adatta alla interpretazione della Wiiliams.

I Won’t Back Down è uno dei capolavori assoluti di Tom, un pezzo trascinante ed esuberante, che ti resta subito in testa e che non viene stravolto in questa versione con Mathis alla slide che (quasi) riproduce lo stile inconfondibile di Mike Campbell; anche A Face In The Crowd viene dall’accoppiata Petty/Lynne ed è uno dei brani che meglio si adatta anche allo stile vocale di Lucinda, come pure Wildflowers, che in fondo è una ballata, ben si attaglia alla vocalità pigra e rilassata della signora, con il piano elettrico in bella evidenza e un arrangiamento avvolgente e confortevole. You Wreck Me non raggiunge la devastante potenza di sparo degli Heartbreakers, anche se i musicisti forse ce l’avrebbero nelle loro corde e anche la scelta della non notissima Room At The Top, brano estratto da Echo, magari non è felicissima, ma evidentemente ognuno ha le sue preferenze, e questa canzone triste e malinconica, sulla fine del primo matrimonio di Tom, si adatta nella sua scarna interpretazione al mood della Wiiliams che ben si allinea anche allo stile ciondolante, figlio del Sud, scelto per You Don’t Know How It Feels, da dove vengono, sin dal titolo e come ubicazione, anche sia Down South che una accorata Southern Accents che Lucinda Williams aveva già nel suo repertorio Live.

La affettuosa dedica finale di Stolen Moments, brano peraltro molto bello, è sia per Tom quanto per la moglie Dana e chiude degnamente un album complessivamente soddisfacente, ma, manco a dirlo, le canzoni originali rimangono insuperabili, comunque grazie a Lucinda per averci provato.

Bruno Conti

In Ritardo Ma Ci Siamo: Il Meglio Del 2020 Secondo Disco Club, Parte III

best of 2020

POLL 2020 Tino Montanari

Disco Dell’Anno

bob dylan rough and rowdy ways

Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

Canzone Dell’Anno

Bob Dylan – Murder Most Foul

https://www.youtube.com/watch?v=3NbQkyvbw18

Esordio Dell’Anno

country westerns country westerns

Country Westerns – Country Westerns

https://discoclub.myblog.it/2020/06/27/un-nuovo-gruppo-alternativo-sotto-il-cielo-di-nashville-country-westerns-country-westerns/

Cofanetto Dell’Anno

johnny cash complete mercury albums

Johnny Cash – The Complete Mercury Recordings 1986-1991

Ristampa Dell’Anno

richard & linda thompson hard luck stories front

Richard & Linda Thompson – Hard Luck Stories

https://discoclub.myblog.it/2020/09/12/richard-linda-thompson-la-coppia-regina-del-folk-rock-britannico-box-hard-luck-stories-parte-ii/

Tributo Dell’Anno

willie nile uncovered

Various Artists – Willie Nile Uncovered

https://discoclub.myblog.it/2020/09/10/anche-willie-nile-ha-il-suo-pregevole-e-meritato-tribute-album-various-artists-willie-nile-uncovered/

Disco Rock

lucinda williams good souls better angels

Lucinda Williams – Good Souls Better Angels

https://discoclub.myblog.it/2020/04/24/sferzate-blues-e-ballate-elettriche-urticanti-dalla-citta-degli-angeli-lucinda-williams-good-souls-better-angels/

Disco Rock Blues

roomful of blues in a roomful of blues

Roomful Of Blues – In a Roomful Of Blues

Disco Rhythm & Blues

sharon jones just dropped in

Sharon Jones & The Dap-Kings – Just Dropped In

Disco Blues

dion blues with friends

Dion – Blues With Friends

https://discoclub.myblog.it/2020/06/17/un-altro-giovanotto-pubblica-uno-dei-suoi-migliori-album-di-sempre-dion-blues-with-friends/

Disco Soul

bettye lavette blackbirds

Bettye Lavette – Blackbirds

Disco Folk

june tabor oysterband fire & fleet

June Tabor & Oysterband – Fire & Fleet / A Tour Memento

https://discoclub.myblog.it/2020/05/10/per-gli-amanti-del-folk-di-classe-june-tabor-oysterband-fire-fleet/

Disco Country

colter wall western swing

Colter Wall – Western Swings & Waltzes And Other Punchy Songs

Disco Cajun & Bluegrass

michael doucet lacher prise

Michael Doucet – Làcher Prise

https://discoclub.myblog.it/2020/06/18/un-bel-disco-dalle-radici-incontaminate-michael-doucet-lacher-prise/

Disco World Music

tamikrest tamotait

Tamikrest – Tamotait

Disco Jazz

kandace springs the women who raised me

Kandace Springs – The Women Who Raised Me

https://www.youtube.com/watch?v=Ycpy2jtuoiw

Disco Oldies

Johnny Hallyday – Son Reve Americain

Disco Live

ruthie foster big band live at the paramount

Ruthie Foster Big Band – Live At The Paramount

https://discoclub.myblog.it/2020/05/19/un-gioiello-di-concerto-ruthie-foster-big-band-live-at-the-paramount/

Disco Italiano

graziano romani augusto

Graziano Romani – Augusto / Omaggio Alla Voce Dei Nomadi

https://discoclub.myblog.it/2020/10/18/il-vangelo-di-augusto-secondo-graziano-graziano-romani-augusto/

DVD Musicale

fabrizio de andrè + PFM Il Concerto ritrovato

Fabrizio De Andrè & PFM – Il Concerto Ritrovato

bruce springsteen letter to you

Bruce Springsteen – Letter To You

white buffalo on the widow's walk

White Buffalo – On The Widow’s Walk

https://discoclub.myblog.it/2020/05/26/passeggiando-sulle-strade-polverose-del-west-the-white-buffalo-on-the-widows-walk/

otis gibbs hoosier national

Otis Gibbs – Hoosier National

https://discoclub.myblog.it/2020/11/04/cantastorie-pittore-e-artista-di-culto-otis-gibbs-hoosier-national/

scott mcclatchy six of one

Scott McClatchy – Six Of One

Ray Wylie Hubbard – Co-Starring

sam burton i cang with you

Sam Burton – I Can Go With You

https://www.youtube.com/watch?v=p6bJt3i7H3A

jerry joseph the beautiful madness

Jerry Joseph – The Beautiful Madness

matt berninger serpentine prison

Matt Berninger – Serpentine Prison

https://www.youtube.com/watch?v=zjGeJXWg7SE

Paul Sage – Retreat

emma swift blonde on the tracks

Emma Swift – Blonde On The Tracks

nadia reid out of my province

Nadia Reed – Out Of My Province

https://discoclub.myblog.it/2020/03/15/alla-scoperta-della-joni-mitchell-neozelandese-nadia-reid-out-of-my-province/

mary bridget davies stay with me

Mary Bridget Davies – Stay With Me

https://discoclub.myblog.it/2020/06/06/unaltra-discepola-di-janis-mary-bridget-davies-stay-with-me-the-reimagined-songs-of-jerry-ragovoy/

diana jones song to a refugee

Diana Jones – Song To A Refugee

https://discoclub.myblog.it/2020/10/21/una-affacinante-cantautrice-tradizionalista-diana-jones-song-to-a-refugee/

mary chapin carpenters the dirt and the stars

Mary Chapin Carpenter – The Dirt And The Stars

sarah siskind modern appalachia

Sarah Siskind – Modern Appalachia

https://discoclub.myblog.it/2020/07/12/nuovi-e-splendidi-album-al-femminile-parte-2-sarah-siskind-modern-appalachia/

Lori McKenna – The Balladeer

Sass Jordan – Rebel Moon Blues

mary coughlan life stories

Mary Coughlan – Life Stories

Blue Highways – Long Way To The Ground

blackie and the rodeo kings king of this town

Blackie And The Rodeo Kings – King Of This Town

Snarky Puppy – Live At The Royal Albert Hall

teseky brothers live at the forum

Teskey Brothers – Live At The Forum

cowboy junkies ghosts

Cowboy Junkies – Ghosts

https://discoclub.myblog.it/2020/04/12/una-sorpresa-nelluovo-di-pasqua-cowboy-junkies-ghosts/

The War On Drugs – Live Drugs

weight band life is a carnival

The Weight Band – Live Is A Carnival

Sophia – Holding On / Letting Go

Levellers – Peace

Tino Montanari

Il Piano Non Sarà Davvero Perfetto, Ma E’ Comunque Interessante. The Lowest Pair – The Perfect Plan

the lowest pair the perfect plan

The Lowest Pair – The Perfect Plan – Delicata/Thirty Tigers CD

Confesso che non avevo mai sentito parlare dei Lowest Pair, duo di banjoisti/chitarristi/cantanti formato da Palmer T. Lee, di Minneapolis, e da Kendl Winter, originaria di Olympia nello stato di Washington. I due hanno iniziato ognuno per conto proprio una carriera come folksinger all’inizio del millennio, conoscendosi per caso nel 2013 ad un festival musicale in Mississippi: avendo constatato di condividere gli stessi gusti e le stesse visioni hanno dunque deciso di formare un duo, e da quel momento hanno pubblicato ben cinque album (inutile dire senza il benché minimo riscontro di vendite, anche se le critiche sono state ovunque positive). The Perfect Plan è quindi il lavoro di due musicisti che hanno già una bella gavetta alle spalle, e che hanno maturato una certa esperienza per quanto riguarda il lavoro in coppia: la loro musica è abbastanza particolare, in quanto parte dall’influenza delle vecchie folk songs appalachiane per ciò riguarda il suono di base, ma poi i due hanno una scrittura moderna ed attuale e quindi riescono a creare un bel contrasto tra le due diverse anime, quella del musicista e quella del songwriter.

In The Perfect Plan il suono è principalmente acustico, con le chitarre ed i banjo dei due leader come protagonisti, ma dietro di loro c’è comunque una band che si occupa di dare più spessore alle canzoni: il disco è prodotto da Mike Mogis dei Bright Eyes (che suona anche steel guitar e mellotron) ed è strumentato da un ristretto gruppo di sessionmen assolutamente sconosciuti ma che non fanno di certo mancare il loro valido supporto. Un delicato arpeggio di due chitarre acustiche introduce How far Would I Go, poi entra la voce della Winter (un timbro particolare, quasi adolescenziale) doppiata nel ritornello da Lee (che invece possiede una voce da cantautore tipico), per una folk ballad pura. Too Late Babe ha più brio, un pezzo a metà tra folk d’altri tempi e bluegrass ma con uno script moderno ed il ritmo scandito, oltre che dalla batteria, da un pimpante banjo; Wild Animals scava ancor più nel profondo per quanto riguarda i suoni tradizionali, ma il brano è assolutamente moderno sia per quanto riguarda la struttura melodica che per quella ritmica (e Palmer nel controcanto mi ricorda Michael Stipe), un contrasto stimolante e creativo tra le due anime del suo, quella antica e quella contemporanea.

Shot Down The Sky è una tenue ed intensa ballata dai toni crepuscolari con una languida steel sullo sfondo e la voce di Kendl che qui ricorda Lucinda Williams con trent’anni di meno: bella l’apertura melodica a due voci nel ritornello https://www.youtube.com/watch?v=JZUfhHjFewk . Castaway è scarna nei suoni e decisamente folk (domina sempre il banjo), Morning Light è più varia nei suoni anche se mantiene l’andatura lenta, con l’elemento suggestivo dato dalle due voci all’unisono e dal costante crescendo strumentale (spunta anche una chitarra elettrica), mentre We Are Bleeding è un coinvolgente bluegrass che contrappone nuovamente un accompagnamento da folk song anni trenta ad una scrittura quasi rock. La tersa e cristallina Enemy Of Ease, autentica e piacevole country song elettroacustica con Palmer alla voce solista, precede le conclusive Take What You Can Get, altra ballata di stampo country dal motivo toccante e bel lavoro di steel, e la title track, che vede l’album chiudersi nello stesso tono soave con cui si era aperto.

Marco Verdi

Il Titolo Dice Tutto, E Il Contenuto Lo Conferma Alla Grande! Eileen Rose – Muscle Shoals

eileen rose muscle shoals

Eileen Rose – Muscle Shoals Continental Song City/Eileen Rose CD/Download

Quando in una foto di copertina appare una immagine del vecchio edificio al 3614 Jackson Highway, che è l’indirizzo dello studio di registrazione a Sheffield, Alabama, dove si trova(va)no i vecchi Muscle Shoals, ora all’interno di una sorta di museo, ma tuttora funzionanti nel caso qualcuno voglia utilizzarli, ti si scalda subito il cuore, ancor di più se il disco si intitola Muscle Shoals. Se poi a pubblicarlo è una artista come Eileen Rose, non più giovanissima, ma ancora sulla breccia alla grande, il sorriso che ti si stampa sul viso si accentua: ammetto che avevo un po’ perso di vista Eileen Rose Giadone (italo-irlandese di origine, quindi “una dei nostri”), nativa dei sobborghi di Boston, ma da un po’ di anni trasferita a Nashville, Tennesse, dal “lato giusto” della città, quello dove brulica l’alternative country, la roots music, l’Americana, come volete chiamarla, ci siamo intesi. Se non mi sono perso qualcosa l’ultimo album Be Many Gone era uscito ad inizio 2014, ma la Rose aveva continuato a fare musica dal vivo accompagnata dagli Holy Wreck, altri quattro baldi “giovanotti” che la accompagnano pure nel nuovo CD (che esiste, non è solo download): The Legendary Rich Gilbert, così si autodefinisce, a chitarra, pedal steel e tastiere (in pista nella scena alternativa da inizio anni ‘80), Chris MacLachlan al basso e Steve Latanation alla batteria, con l’aiuto di Joshua Hedley al violino e Norma Giadone (parente?), alle armonie vocali.

Eileen ha una lunga storia alle spalle, iniziata quando si trasferì nel lontano 1991 nel Regno Unito a Londra, poi dopo una lunga gavetta, in una band alternative i Fledgling, autori di un solo omonimo album nel 1995, con una delle più brutte copertine mai viste, e poi all’esordio come solista nel 2000 con Shine Like It Does, dove era accompagnata dagli Alabama 3, disco che ebbe ottime critiche, e un altro nel 2002 sempre in UK, poi altri cinque dischi dopo il suo ritorno negli States avvenuto nel 2003, più alcune avventure collaterali. Facciamo un fast forward e arriviamo ai giorni nostri: la Rose decide di fare una puntatina in Alabama, dove negli studios citati prima si respira quella aria magica. Ne risulta un CD diviso in Side A e Side B (ebbene sì, ma non è un doppio) dove attraverso “9 New Songs “ e “8 Old Favorites”, ovvero vecchie canzoni registrate ex novo, delizia i nostri padiglioni auricolari. In possesso ancora oggi di una voce potente, vissuta e grintosa Eileen Rose apre le danze con She’s Gone che profuma, forse solo per questo brano, quasi inevitabilmente, di country got soul, tra Van Morrison e una Lucinda Williams più vivace, con la chitarra e l’organo di Gilbert a regalare pennellate di ottima musica, poi ribadite nelle folate rock di una He’s So Red, con chitarre ruggenti e ritmi mossi.

Atmosfere che poi si quietano nella inconsueta ma affascinante cover di Matte Kudasai, un pezzo dei King Crimson dell’era Adrian Belew (ebbene sì), trasformata in una squisita ballata che viaggia sulle ali di una sognante pedal steel, quasi alla Albatross di Peter Green, mentre la brillante ed euforica Get Up rimanda al Tom Petty più “campagnolo”, con Gilbert che imperversa alla grande con la solista https://www.youtube.com/watch?v=JYeUuwJOp1c , e Am I Really So Bad, tenera ed avvolgente, attinge dalla musica dell’anima tanto praticata in quegli studios. On Shady Hill tra country e rockabilly sprizza voglia di vivere e muovere i piedi, A Little Too Loud rimane sulla stessa collina ma invita i Creedence e i Blasters per un bel party https://www.youtube.com/watch?v=phbXeAPjnwA , Hush Shhh è quasi onomatopeica e in punta di piedi, silenziosa, ma con passione, parla la pedal steel. Il traditional The Auld Triangle, cantata a cappella in totale austerità per ricordare le radici irlandesi di Eileen Rose. La Side B dei vecchi brani rifatti per il ripasso, ma come nuovi, parte con la lunga e bellissima Shining dal primo album del 2000, qui devo dire molto Lucinda Williams, sempre meno “pigra”, ma parimenti chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=g9ZgUsv5xdU , ottima anche la rootsy e sudista Walk The Jetty.

Good Man anche per gli sbuffi iniziali dell’armonica sembra un Neil Young d’annata virato al femminile, con weeping pedal steel, l’altalenante nei ritmi Trying To Lose You ha un che del Dylan anni ‘60 con un assolo ringhioso di Gilbert, la malinconica Stagger Home cantata con voce cavernosa, come se Marianne Faithfull avesse deciso di darsi al country in un pezzo scritto da Maria McKee, la divertente Queen Of The Fake Smile, quasi come dei Traveling Wilburys di nuovo al femminile, Old Time Reckoning, con Joshua Hedley al violino e un gran lavoro di Latanation alla batteria mi ha ricordato ancora la McKee, magari dell’era Lone Justice https://www.youtube.com/watch?v=GPAXDQ921XQ , con cui Eileen Rose condivide un timbro vocale ancora squillante benché maturo, e per concludere il jingle-jangle amaro della splendida Sad Ride Home https://www.youtube.com/watch?v=9tVzgeaCxvM .

Che dire, tutto molto bello, neanche un brano inutile: un nome da (ri)scoprire, esce, a seconda dei paesi, tra il 15 e il 22 maggio.

Bruno Conti

Sferzate Blues E Ballate Elettriche Urticanti Dalla Città Degli Angeli. Lucinda Williams – Good Souls Better Angels

lucinda williams good souls better angels

Lucinda Williams – Good Souls Better Angels – Highway 20/Thirty Angels – CD – 2 LP

Non si può negare che Lucinda Williams sia un’artista che divide, molto amata da chi ammira la sua musica, e sono la maggioranza di chi segue la buona musica, e “odiata” (diciamo non apprezzata) dai detrattori che non sopportano la sua voce. E questo non si può forzare, ognuno rimarrà fermo nelle proprie convinzioni: Good Souls Better Angels è il quattordicesimo album della sua discografia, iniziata nel lontano 1979 con Ramblin’ ed il cui capitolo precedente era la rivisitazione nel 2017 di This Sweet Old World, “aggiornamento” di Sweet Old World uscito in origine nel 1992, mentre l’ultimo album di canzoni nuove era stato https://discoclub.myblog.it/2016/01/20/il-miglior-disco-del-2016-forse-presto-lucinda-williams-the-ghosts-of-highway-20/ , uno dei dischi migliori di quella annata. La nostra amica torna più agguerrita che mai con questo nuovo CD, che esce oggi 24 aprile, concepito, come ricordo nel titolo del Post, anche a Los Angeles, dove poi è stato masterizzato il disco, influenzato quindi dalle tematiche urbane della città degli angeli, ma comunque registrato a Nashville, dove Lucinda vive con il marito Tom Overby, e prodotto da Ray Kennedy che torna in cabina di regia, con risultati eccellenti, a 22 anni di distanza da Car Wheels on a Gravel Road, uno degli album più belli in assoluto della cantante di Lake Charles, Lousiana.

Ad accompagnarla lo stesso nucleo di musicisti con cui aveva lavorato nel disco del 2017, e nei concerti degli ultimi anni, ovvero il chitarrista Stuart Mathis (anche al violino), fantastico il suo lavoro, e la rodata, eclettica e rocciosa sezione ritmica composta da Butch Norton alla batteria e David Sutton al basso, non c’è Greg Leisz, ma all’organo in un paio di brani troviamo Mark Jordan e nella versione doppia limitata in vinile, c’è un secondo LP con cinque versioni acustiche di brani dell’album, curate da Colin Linden. Q, Mojo, Uncut e il sito American Songwriter ne hanno parlato in termini entusiastici, dalle 4 stellette in su, come pure il Buscadero, la rivista per cui scrivo, che lo ha eletto Disco Del Mese, ma, per quella piccola percentuale di detrattori di cui vi dicevo, l’Indipendent si è distinto definendoolo “doom laden”, che però forse alla fine è anche un complimento. Il marito Tom Overby viene promosso da “ghost writer”, visto che come ha dichiarato la stessa Lucinda in alcune interviste, già in passato aveva collaborato con la moglie fornendo i suoi suggerimenti sia per i testi che per i titoli di dei brani, a co-autore a tutti gli effetti. Partiamo non dalla prima canzone, ma da Man Without A Soul, uno dei pezzi centrali e più belli del disco, soprattutto a livello di testi, ma è anche una splendida ballata sudista di grande intensità sonora: testo che recita “You bring nothing good to this world / Beyond a web of cheating and stealing / You hide behind your wall of lies, but it’s coming down…”, chi sarà questo uomo? Ma certo è “The Donald”, Trump per i nemici, il soggetto di questo brano, una delle canzoni più esplicite della Williams, che comunque non le ha mai mandate a dire. Mathis ci regala un lavoro alla solista eccezionale, che oscilla tra blues e psichedelia, wah-wah innestato e slide all’opera per una serie di assoli torbidi e variegati, su cui la voce roca e spezzata di Lucinda declama la sua rabbia con vigore ed impeto in un crescendo di grande vigore.

L’apertura è affidata alla assertiva You Can’t Rule Me (scritta, come le altre, prima dell’avvento del coronavirus), un midtempo bluesy, con Mathis alla slide a creare vortici di elettricità, sostenuto dal suono secco e potente della sezione rtimica e dalla voce ringhiosa e caratteristica di LW, mentre anche Bad News Blues gira intorno alle 12 battute in modo più classico, con fare pigro e sornione, mentre ci narra, un “po’ seccata”, delle cattive notizie che girano incontrollate sui media e in televisione, spesso bufale ma comunque certo non rassicuranti. Big Black Train è un brano che tratta del tema della depressione, che in modo ricorrente è comunque presente anche nella vita dell’artista americana, non solo in senso metaforico, con la melodia della ballata che si dipana lenta e struggente ed è tipica del songbook delle sue migliori canzoni, sempre con il lavoro di fino di Mathis e l’organo di Jordan che sussurra sullo sfondo; Wakin’ Up è uno dei brani più “duri”, quasi punk nell’attitudine, con scariche percussive e le chitarre incattivite e urlanti che sottolineano il tema trattato, che è quello degli abusi domestici. Anche Pray The Devil Back To Hell, con Mathis anche al violino, è una variazione del tema del blues according to Lucinda, con l’atmosfera incalzante e senza requie che ti porta in crescendo in un mondo sulfureo senza pietà dove la chitarra di Stuart impartisce l’ultima punizione a colpi di wah-wah.

Shadows And Doubts quantomeno non ha certezze assolute, anche se diciamo che l’ottimismo non regna sovrano, ma il suono elettrocustico e delicato di questa ballata ha un che di sereno nel suo dipanarsi lento e solenne, ancora con l’organo di Jordan in bella evidenza a sottolineare il lavoro certosino delle chitarre, con finale in slide di Mathis. L’oscurità è anche il tema di When The Way Gets Dark, che tratta del tema dibattuto di certi aspetti dubbi dei social media, in un altro brano lento ed avvolgente con una vocalità più curata del solito e accorata al tempo stesso, meno opprimente e con soluzioni sonore meno estreme e stridenti; ma è un attimo, perché le chitarre tornano a ruggire in Bone Of Contention, un’altra scarica di adrenalina con un incipit quasi hendrixiano e la voce di Lucinda motivatissima, sostenuta da quella di Mathis, che al tempo stesso estrae dalla sua solista altre stille di eletricità allo stato puro, ancora con rimandi al punk-rock migliore, ma pure a mio avviso al Jimi più visionario degli anni d’oro. E anche in Down Past The Bottom non si scherza, la band sembra un gruppo di novelli Crazy Horse, tra sferzate chitarristiche brucianti e il cantato quasi sguaiato e rozzo della Williams, che poi vengono ribadite anche nella altrettanto feroce Big Rotator, un ulteriore esempio dell’eccellente e duro rock-blues a colpi di wah-wah, impiegato spesso da Mathis in questo Good Souls Better Angels, che però si chiude in una nota di speranza con la (quasi) ottimistica e serena Good Souls, una ballata malinconica e ricca di passione, dove emerge il lato più melodico di Lucinda Williams, che in questo tipo di canzoni veramente eccelle, a conferma del suo status di grande (cant)autrice, con la band che questa volta la accompagna meravigliosamente in punta di dita.

In due parole: grande musica.

Bruno Conti

Un Altro Bel Disco, Anche Se Fa Sempre Parte Della Serie “Ah, Trovarlo”! Gurf Morlix – Impossible Blue

gurf morlix impossible blue

Gurf Morlix – Impossible Blue – Rootball Records              

Come ricordavo parlando del precedente album di Gurf Morlix The Soul And The Heal (tra l’altro registrato prima, ma pubblicato dopo, un attacco di cuore quasi fatale avvenuto nel 2016) https://discoclub.myblog.it/2017/03/24/un-altro-gregario-di-lusso-gurf-morlix-the-soul-and-the-heal/ ), il musicista residente da molti anni a Austin, Texas ma nativo di Buffalo, si è sempre considerato un “gregario”, magari di lusso, uno che scrive, suona e produce per altri (Lucinda Williams, Blaze Foley, Ray Wylie Hubbard, Mary Gauthier, Slaid Cleaves, Robert Earl Keen, solo per citarne alcuni), ma approda comunque con questo Impossible Blue al suo decimo album di studio, in una carriera solista iniziata nel 2000. Morlix propone questo suo “blues” personale, dai testi spesso basati su esperienze personali, storie di amore e di vita ancor più rafforzate dal suo incontro ravvicinato con la morte, ma presenti da sempre nelle proprie canzoni, brutalmente oneste, buie e dure, con rare aperture ad un ottimismo dolente ed espresso a fatica: del nuovo album ha detto che secondo lui è il suo migliore di sempre (ma d’altronde non ho ancora sentito un artista dire che la sua ultima opera è la peggiore che abbia mai realizzato), però nel caso di questo album sembra essere vero.

Accompagnato come di consueto dal fedele batterista Rick Richards e per l’occasione dalla leggenda texana dell’organo Hammond B3 Red Young, oltre che dalle leggiadre armonie vocali femminili della brava Jaimee Harris, Gurf Morlix canta, suona le chitarre, il basso, le percussioni e le altre tastiere, produce, fa da ingegnere del suono e tecnico, il tutto nello studio di registrazione Rootball che dà anche il nome alla propria etichetta. E ovviamente scrive tutte le nove canzoni: la voce come al solito è roca, spezzata, dolente, molto vissuta, per certi versi vicina a quella di un paio di sue illustre clienti  e colleghe come la Williams e la Gauthier, ma riesce a convogliare questo spirito del blues according to Gurf. Turpentine apre su un riff che è un incrocio tra Green Onions e il suono “paludoso” dell’ultimo Tony Joe White, con la solista di Morlix che poi si intreccia con l’organo sinuoso di Red Young, abrasiva come l’acquaragia che vorrebbe usare per pulire una amante fastidiosa e petulante. 2 Hearts Beatin’ In Time è una sognante, pigra e delicata ballata, quasi sussurrata da Morlix che si avvale della voce dolce e suadente della Harris per impreziosire questa ode all’amore https://www.youtube.com/watch?v=Of0BDK1vrag , dove l’accompagnamento scarno e il suono secco della sezione ritmica evidenziano la melodia che ricorda molto certi “blues” personali di Lucinda Williiams.

My Heart Keeps Poundin’ è quasi una constatazione meravigliata sul fatto che il suo cuore, nonostante tutto, continui a funzionare, e il ritmo incalzante del brano, con il basso che pulsa e la batteria più indaffarata del solito, vive anche di essenziali sferzate di chitarra e organo. I’m A Ghost torna al suo innato pessimismo e all’oscurità che abita spesso nelle sue canzoni, benché la forma sonora prescelta sia quella di una ballata soffusa e quasi carezzevole, sempre grazie all’uso essenziale della voce elegante di Jaimee Harris, mente le schegge di luce presenti appunto in Sliver Of Light cercano di squarciare queste tenebre che abitano le sue composizioni, in questo caso una sorta di ode alla vita “on the road” da un concerto all’altro, in cui la musica cerca di animarsi più del solito a tempo moderato di blues-rock e un principio di ritornello con coretto, ma si torna subito alle “allegre” vicende di Bottom Of The Musquash River che narra del rimpianto, del lutto, di un uomo per la propria amante trovata annegata in fondo al  fiume, una ballata intensa e accorata che ricorda nuovamente il songbook della Williams, comunque molto bella, con Spinnin Planet Blues dove le 12 battute sono classiche come raramente accade nei suoi brani e sul tappeto dell’organo di Young Gurf Morlix si concede un lungo assolo ricco di feeling https://www.youtube.com/watch?v=fW_gMrK3EpQ .

I Saw You narra di un cuore spezzato e geloso con la partecipazione distaccata ma sentita tipica dei personaggi delle canzoni del nostro, che poi ci congeda con un brano scritto in ricordo di un vecchio amico (come aveva già fatto in passato per Blaze Foley), il batterista ed amico d’infanzia a Buffalo Michael Bannister, un pezzo quasi elegiaco e trasognato che mi ha ricordato certe ballate agrodolci del compianto Calvin Russell, dove risaltano nuovamente la voce flessuosa di Jaimee Harris e le languide mosse dell’organo di Young, per uno splendido brano che conclude degnamente questo ennesimo riuscito lavoro di Morlix. Un altro bel disco quindi, anche se fa sempre parte della serie “ah, trovarlo”, senza svenarsi.

Bruno Conti

Una Delle Migliori Nuove Voci In Circolazione. Sarah Shook & The Disarmers – Years

sarah shook years

Sarah Shook & The Disarmers – Years – Bloodshot/Ird

Ultimamente sembra di assistere ad un florilegio, a una fioritura di voci femminili, legate più o meno tutte a uno stile musicale, definito di volta in volta, per i loro album, roots music, alt-country, cow-punk, Americana, ma in fondo, secondo me, è sempre  il buon vecchio country-rock, che ogni tanto risorge dalle proprie ceneri, o forse non se ne è mai andato. A questa pattuglia di voci femminili, che annovera, tanto per fare qualche nome, ognuno più orientato verso una definizione o l’altra, Margo Price, Nikki Lane https://discoclub.myblog.it/2017/03/15/oltre-ad-aver-grinta-da-vendere-e-pure-brava-nikki-lane-highway-queen/ , Hurray For The Riff Raff, Jaime Wyatt, e alcune compagne di etichetta alla Bloodshot, come Lydia Loveless https://discoclub.myblog.it/2016/08/21/lydia-loveless-real-country-punk-bene/ , i Banditos, forse più virati verso il rock https://discoclub.myblog.it/2015/06/09/facce-raccomandabili-disco-molto-raccomandato-birmingham-alabama-via-nashville-banditos/ , l’australiana “naturalizzata” residente di Nashville Ruby Boots https://discoclub.myblog.it/2018/03/14/una-nuova-country-rocker-di-pregio-dalla-voce-interessante-parliamone-invece-ruby-boots-dont-talk-about-it/ , e, last but not least, perché forse è la migliore, o una delle migliori, Sarah Shook con i suoi Disarmers.

Sicuramente ce ne sono altre che ho dimenticato, ma è confortante che il genere (ma quale?) goda buona salute e sforni nuovi talenti: si diceva che quasi tutte sono legate alla country music, declinata in modo “moderno”, ma neanche più di tanto, perché se dovessi  paragonare Sarah Shook ad un nome del passato, il primo che mi salterebbe alla mente sarebbe quello di Maria McKee con i suoi Lone Justice, almeno quelli degli inizi, più selvaggi e meno inquadrati, e pure l’atteggiamento iconografico della Shook ricorda quello di Maria, volto molto giovane, imbronciato, la chitarra elettrica  imbracciata con piglio incazzoso, e una band dove spiccano due chitarristi di grande sostanza, l’ottimo Eric Peterson alla solista e il virtuoso della pedal steel Phil Sullivan.

Poi anche i riferimenti sono quelli giusti: ricordato che Sarah si scrive tutte le canzoni, nel  disco precedente, e primo della cantante, Sidelong,  c’era un brano intitolato Dwight Yoakam, uno che negli anni ’80 aveva fatto da ponte tra l’atteggiamento cowpunk e il classico sound di Bakersfield e poi dei cosiddetti “neo-tradizionalisti”, che, rivisitato, mi sembra viva in questo Years. Prendiamo il primo brano, la gustosa e deliziosa ballata mid-tempo Good As Gold, un pezzo che racconta le sfortunate vicende amorose dell’autrice, da sempre soggetto delle più belle canzoni country, il tutto con un piglio deciso, un suono solare dove le chitarre di Peterson e la pedal steel di Sullivan disegnano traiettorie sonore pregevoli su cui si muove la voce di Sarah Shook, una delle più belle in circolazione, calda, avvolgente, corposa,  decisa, inconsueta, matura, ben oltre i suoi anni, nettare per i padiglioni auricolari degli ascoltatori. Bellissima anche l’ironica e pimpante New Ways To Fail, giocata su un suono che rievoca i fasti del vecchio outlaw country, rivisto attraverso l’ottica e l’attitudine delle “nuove“ tendenze, moderna ed attuale il giusto, ma con rispetto ed amore per i suoni classici, e la pedal steel va che è una meraviglia, come se New Riders, Poco, Commander Cody, Flying Burrito non se ne fossero mai andati.

Tutti brani che sono al 90% meglio di quello che esce da Nashville oggi, quasi fossero solo lontani parenti del sound “plasticoso” della Music City: Over You è più briosa, con accenti rock e rimanda anche a cantanti come la mai troppo lodata Carlene Carter, voce spiegata e band sempre in grande spolvero, mentre The Bottle Never Lets Me Down è più buia e sinistra, dalle atmosfere sospese e affascinanti, con gli immancabili intrecci delle chitarre. L’incalzante Parting Words è un’altra piccola perla di equilibri sonori, mentre What It Takes ha un suono decisamente più cowpunk, con la voce della Shook che ricorda quella di Dolores O’Riordan. se fosse nata nel North Carolina come Sarah; Lesson mischia anni ’60 e roots-rock con il sound riverberato e grintoso dei “figli del punk”. Damned If I Do, Damned If I Don’t è puro honky-tonk, ma con una freschezza ed una verve invidiabili, ribadita in un’altra ballatona splendida come Heartache In Hell dove Sarah Shook sembra quasi una Lucinda Williams più country e meno dolente, e con la conclusiva Years che conferma tutto quanto di buono detto finora. Il talento c’è, le canzoni pure.

Bruno Conti  

Bello, Forse Si Poteva Fare Di Più, Forse… Beth Hart – Front And Center Live From New York

beth hart front and center

Beth Hart – Front And Center: Live From New York – CD/DVD Mascot/Provogue

Non sono passati neppure quattro mesi dall’uscita dell’ultimo album in coppia con Bonamassa https://discoclub.myblog.it/2018/01/21/supplemento-della-domenica-di-nuovo-insieme-alla-grande-anteprima-nuovo-album-beth-hart-joe-bonamassa-black-coffee/ ed ecco già un nuovo album, questa volta dal vivo, di Beth Hart, registrato a New York, nel famoso locale Iridium, il 7 marzo del 2017, accompagnata dalla propria band, ovvero Jon Nichols alle chitarre, Bob Marinelli al basso e Bill Ransom alla batteria. Come certo saprete leggendo questo Blog (e anche il Buscadero) il sottoscritto è un grande estimatore di Beth Hart (l’ho vista anche due volte dal vivo a Milano) che considero al momento la migliore vocalist rock in circolazione (senza dimenticare il blues e il soul), quella che più di tutte incarna la figura delle grandi cantanti del passato, bianche e nere, da Janis Joplin Etta James in giù, insieme ad poche altre voci che questa volta per brevità non citiamo, comunque un gradino più in basso del suo. I due ultimi album di studio hanno segnalato una raggiunta maturità pure a livello compositivo, soprattutto l’ultimo Fire On The Floor https://discoclub.myblog.it/2016/10/09/il-supplemento-della-musica-anteprima-beth-hart-fire-on-the-floor-il-disco-della-completa-maturita/un disco veramente completo e variegato.

Ma secondo me non è un caso se sia nei dischi di studio, dove usa quasi sempre musicisti di gran pregio, sia in quelli in coppia con Bonamassa, dove usa la band del musicista di Itaca, NY, il tiro e la qualità dei suoni e degli arrangiamenti è decisamente superiore a quelli dove appare la sua road band, peraltro ottima ed abbondante, ma non ai livelli eccelsi della vocalità di Beth Hart, per quanto i suoi concerti siano comunque un evento consigliato e da non mancare (e in Italia passa spesso). Un breve inciso: secondo voi anche Joe Bonamassa un altro bel live non sta per pubblicarlo a breve? Certo che sì, si chiama British Blues Explosion Live, in uscita il 18 maggio, molto bello incentrato sul repertorio di Beck, Clapton e Page, lo troverete recensito prima sul Buscadero e poi sul Blog a breve, fine della diversione. Questo Front And Center fa parte di una serie televisiva di concerti, trasmessa periodicamente dalla PBS, la televisione di stato americana, e forse anche qui sta un certo limite di questo CD+DVD, il fatto che non sembra un concerto completo: dura complessivamente 72 minuti: per onestà ci sono molti artisti, per esempio Van Morrison in primis, che non regalano molto di più ai fans in quanto a lunghezza dei concerti, ma di solito Beth Hart è meno sparagnina. Non giova neppure il fatto che la casa discografica abbia diviso il concerto in modo alquanto bizzarro: il CD comprende 15 brani, il DVD in teoria 10, ma poi tre pezzi della parte elettrica si trovano come bonus content e anche altri tre della parte acustica, tra cui My California che è esclusiva di questo segmento, Però poi alla fine tutto si trova nella confezione doppia, per cui non potevano lasciare la sequenza del concerto originale in entrambi i formati, mah?

Queste sono le piccole eccezioni da fare, poi il concerto è comunque bello: essendo registrato e ripreso in un ambiente intimo e raccolto come l’Iridium privilegia la Beth Hart cantautrice, ma non mancano i brani dove la cantante di Los Angeles può scatenare tutta la sua potenza, privilegiando in ogni caso il materiale di Fire On The Floor, che era l’album in promozione all’epoca, essendo uscito per il mercato americano alcuni mesi dopo la pubblicazione europea. Infatti da quel disco provengono ben cinque brani, più Tell Her You Belong To Me, che era la bonus appunto per il mercato degli States, con l’amico Jeff Beck, ospite alla chitarra in questa versione inedita. Ma andiamo con ordine, seguendo la sequenza dei brani del CD: Beth si presenta sul palco con un abbigliamento elegante, sempre sexy ed ammiccante, ma non con i suoi soliti completi da panterona, però la musica è subito sinuosa, Let’s Get Together sin dal titolo sembra un pezzo di Marvin Gaye, con un groove delizioso e la voce insinuante della Hart che titilla subito i padiglioni auricolari dell’ascoltatore con un brano che sprizza soul music di classe dai suoi pori, con i musicisti subito ben quadrati. Per Baddest Blues, dedicata alla madre, Beth Hart siede al piano, per una ballata intensa, triste, quasi straziante, ma pervasa da una forza espressiva che solo le grandi cantanti posseggono, con il pubblico che ascolta in religioso silenzio, grande musica. Jazz Man è il secondo brano estratto dall’ultimo album, un pezzo più ammiccante e swingato, che illustra il lato più divertente e divertito della sua personalità, sempre con i saliscendi vocali e gli elaborati scat degni dei grandi entertainer, mentre Nichols regala un assolo di chitarra misurato ed elegante: Delicious Surprise, un vecchio pezzo del 1999 viene dal passato più selvaggio e rock della nostra amica, un brano chitarristico e tirato, dove può estrinsecare tutta la sua potenza vocale, trascinando anche il pubblico, con Ransom che picchia sulla batteria, Nichols che “maltratta” la solista e tutta la band che tira di brutto, mentre Broken And Ugly da Leave The Light On del 2003 e che era anche sul Live At Paradiso, è un brano che mescola chitarre acustiche, ritmi R&R e inserti sixties, con qualche rimando al sound da revue della band di Ike & Tina Turner, con un po’ di soul in meno e qualche inserto “folk” in più, ma la stessa grinta (per credere sentitevi questa versione di Nutbush City Limits, sempre con Jeff Beck, tratta dalla trasmissione di Jools Holland per la BBChttps://www.youtube.com/watch?v=XPyeqLRNoc4 )

St. Teresa, dall’ottimo Better Than Home, è una sorta di preghiera laica, un brano che illustra il lato più spirituale della “nuova” Beth Hart, quella meno selvaggia e più matura, lontana dagli eccessi che erano anche causati dai disturbi bipolari che avevano esasperato il lato “sesso, droga e rock’n’roll” della sua musica, portandola quasi ai limiti dell’autodistruzione. La canzone, sulle ali di una chitarra acustica inizialmente appena accennata, e poi con la sezione ritmica che entra discretamente è una dellei più belle del suo repertorio, calda ed avvolgente, come la sua voce, che rimane sommessa anche per Isolation che fa parte del segmento acustico del concerto, e che come ricorda lei stessa è un altro dei brani che fanno parte del periodo in cui era, parole sue, “folle e fuori di testa” (e se vi capita di vedere il DVD del Live At Paradiso del 2004, che è comunque un ottimo concerto, capirete, anzi date un’occhiata qui https://www.youtube.com/watch?v=UgrBn072lMU ): un brano cupo ed intenso, che tratteggia  uno dei periodi più bui della sua vita.Tell Her You Belong To Me viceversa, è un’altra delle canzoni più dolci, intense e vivide del suo repertorio, degna erede delle deep soul ballads delle sue cantanti preferiti, la voce che esprime tutti i tormenti dell’amore con una forza interiore veramente toccante e questa versione è decisamente splendida, notevole anche l’assolo di Nichols, per quanto quello di Jeff Beck fosse di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=QTWxXG2NoKQ. Si ritorna poi al rock con una vigorosa Fat Man, uno dei pezzi più caldi e “riffati” di Fire On The Floor, con chitarra e batteria torride al punto giusto, con Love Gangster che ci riporta al blues-rock annerito dei suoi pezzi più incalzanti, la voce sempre torreggiante sulla strumentazione gagliarda della sua band, qui innervata dal pianoforte della stessa Beth, che poi dallo stesso strumento ci regala un’altra piccola perla sonora, sempre dal disco del 2003, un brano di grande impatto, proprio Leave The Light On,  solo voce e piano, ma che voce però, da pelle d’oca per la veemente intensità che trasmette, bellissima.

Ci avviamo all’ultima parte del concerto e Beth Hart ci regala un’altra splendida interpretazione di una ballata, only piano e voice, As Long As I Have A Song, nuovamente tratta da Better Than Home, il suo album più intimista. Ma poi, essendo quella che è, cioè una rocker intemerata, per il gran finale chiama sul palco il grande Sonny Landreth per un finale pirotecnico a doppia chitarra: prima Can’t Let Go, un blues-rock a tutta slide veramente turbinante, l’unica cover della serata, un pezzo scritto di Randy Weeks, tratto dal repertorio di Lucinda Williams, che era in origine su Seesaw, uno degli album con Joe Bonamassa, versione micidiale, e pure la successiva For My Friends non scherza, ancora un pezzo blues veramente potente, dove si apprezza l’interscambio tra Landreth e Nichols che veramente sono magnifici in questo brano, per non dire della voce che assume il suo timbro più selvaggio e scatenato. E per non farci mancare nulla a conclusione della serata un’altra canzone di squisita fattura come No Place Like Home, di nuovo con il lato più dolce e vulnerabile della personalità della cantante californiana regalato al pubblico presente all’evento in modo raffinato, con questa ennesima maestosa piano ballad che chiude anche il disco Fire On The Floor. E a proposito di brani acustici, tra le bonus di quel segmento presente negli extra del DVD si trova anche My California, un evocativo brano dedicato alla sua terra natale. Quindi concludendo, si poteva fare di meglio? Forse, ma forse, sì, almeno a livello di contenuti e durata, ma il concerto è comunque una ennesima conferma del talento di questa signora.

Bruno Conti

Ogni Tanto Si Fa Viva: Tra Fionde E Frecce Per Puntare Al Cuore Del Rock. Michelle Malone – Slings & Arrows

michelle malone slings and arrows

Michelle Malone – Slings & Arrows – SBS Records

A distanza di quasi tre anni dal precedente lavoro in studio Stronger Than You Think, torna una delle mie beniamine (e spero anche del blog) http://discoclub.myblog.it/2016/02/02/sia-pure-ritardo-atlanta-georgia-riceviamo-sempre-buona-musica-michelle-malone-stronger-than-you-think/ , la bravissima Michelle Malone, con il suo solito rock ricco di forti elementi “southern” che sfociano anche in un “roots-rock” venato di blues. Slings & Arrows è stato registrato dal vivo in studio, con la particolarità che i musicisti reclutati sono tutti della Georgia, e con la produttrice e protagonista Michelle Malone alle chitarre, armonica e mandolino, si sono presentati negli studi della sua etichetta personale (la SBS Records), i “georgiani” Robbie Handley al basso, Doug Keys alla chitarra elettrica, Christopher Burrows alla batteria, Trish Land alle percussioni, e come ospiti Peter Stroud (Sheryl Crow, Stevie Nicks) alla chitarra elettrice e acustica, il bravo polistrumentista Joey Huffman (Soul Asylum, Lynyrd Skynyrd, Hank Williams Jr. e altri), e il singer-songwriter di Atlanta Shawn Mullins (uno dei suoi migliori lavori, l’ottimo Lullaby del ’99).

Questo nuovo lavoro Slings & Arrows, è un ulteriore passo riuscito nella recente discografia della Malone, con il brano di apertura Just Getting Started, un potente “boogie” (si viaggia dalle parti dei più ispirati ZZ Top), con un sound dove è impossibile non muovere il piedino, per poi passare al piacevole ritmo funky-rock di Love Yourself, alle atmosfere pop-soul di Sugar On My Tongue, per virare al blues nell’intrigante Beast’s Boogie con dei riff chitarristici che rimandano a John Lee Hooker. Si prosegue con l’unica cover del disco, l’immortale I’ve Been Loving You Too Long di Mastro Otis Redding (al sottoscritto piace molto la versione di Ike & Tina Turner), cantata in coppia da Michelle e Shawn Mullins, in cui entrambi vocalmente danno il meglio nell’interpretare il classico Stax, che viene seguito da un altro rock-boogie classico come Fox And The Hound, con Michelle che svetta con il suo ottimo lavoro alla slide, mentre Civil War è un’altra buona miscela sonora di impianto roots, con il sostegno di una armonica e del mandolino acustico. Ci si avvia alla parte finale con il rock sudista della pimpante Matador, per poi avvicinarsi alle atmosfere di Lucinda Williams nella dolcissima ballata The Flame, e andare a chiudere con il rock-blues poderoso di una grintosa Boxing Gloves.

Questo nuovo disco della Malone Slings & Arrows contiene canzoni che parlano di desiderio e delusione, il tutto con un sound  infuocato percorso spesso dall’energia delle chitarre “slide”, che da sempre fanno parte del suo bagaglio personale: una vetrina per le diverse influenze della Malone, con il suo classico mix di rock blues, rock’n’roll, soul e folk, in questo raccolto in nove brani originali e una cover da “killeraggio” musicale. Pur con una trentennale carriera alle spalle, Michelle Malone rimane praticamente una semi sconosciuta (nonostante i nostri sforzi), e sono lontani i tempi in cui incideva per una major come l’Arista, cosa che l’ha costretta negli anni a fondarsi una propria etichetta indipendente dove ha continuato a sfornare eccellenti lavori, grintosi e variegati, diventando oltre che una rocker di razza una artista di “culto”. Tirando le somme, se siete “fans” di Bonnie Raitt, Susan Tedeschi e Sue Foley, tanto per non fare nomi, questo eccellente Slings & Arrows potrebbe essere un disco da scoprire nelle prossime settimane per conoscere una “nuova” amica. Basta andare sul suo sito e fare acquisti https://www.michellemalone.com/store.

Tino Montanari

Supplemento Della Domenica: Di Nuovo Insieme Alla Grande, Anteprima Nuovo Album. Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee

beth hart & joe bonamassa black coffee

Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee – Mascot/Provogue

Beth Hart e Joe Bonamassa presi singolarmente sono, rispettivamente, la prima, una delle più belle voci prodotte dalla musica rock negli ultimi venti anni, potente, grintosa, espressiva, eclettica, con una voce naturale e non costruita,, il secondo, forse il miglior chitarrista in ambito blues-rock (ma non solamente) attualmente in circolazione, entrambi degni eredi di quella grande tradizione che negli anni gloriosi della musica rock, quindi i ’60 e i ’70, sfornava di continuo nuovi talenti che ancora oggi sono i punti di riferimento per chi vuole ascoltare della buona musica. Messi insieme i due, grazie ad una indubbia chimica personale ed artistica, hanno dato vita ad un sodalizio che fino ad ora ci ha regalato tre album, due in studio ed uno dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/ , incentrati su una formula che fonde soul, blues, rock, R&B, qualche pizzico di jazz, uno stile ed un modo di concepire lo spettacolo che una volta si chiamava “soul revue”, quella di Ike & Tina Turner, del Joe Cocker di Mad Dog, o del Leon Russell della stessa epoca, di Eric Clapton con Delaney & Bonnie, forse anche della Band.. Nel caso di Beth e Joe in coppia, a differenza dei loro dischi solisti, il repertorio è formato rigorosamente da cover, non ci sono brani originali, quindi l’arte dell’interpretazione è fondamentale in questo approccio: i primi due dischi di studio, Don’t Explain del 2011 e Seesaw del 2013, ne erano fulgidi esempi, mentre lo splendido Live In Amsterdam del 2014, ne era la sublimazione in concerto.

beth hart & joe bonamassa black coffee 1

A distanza di quasi quattro anni i due hanno deciso di dare finalmente un seguito a quelle ottime prove: hanno chiamato ancora il produttore Kevin Shirley, che si conferma sempre più ottimo alchimista di suoni e persone, in grado di fondere il rock classico con un approccio moderno, l’irruenza vocale di Beth Hart ed il virtuosismo chitarristico di Joe Bonamassa in un tutt’uno di grande valore artistico, ma perfettamente ed immediatamente fruibile. L’eccellente band  di Bonamassa (che è superiore a quella che abitualmente accompagna la Hart) fa il resto: con qualche new entry rispetto ai dischi passati troviamo, in ordine sparso, Anton Fig (batteria, percussioni), Ron Dziubla (Sax), Lee Thornburg (Tromba/Trombone), Reese Wynans (Tastiere), Michael Rhodes (Basso), Rob McNelley (chitarra ritmica), Paulie Cerra (Sax), e le tre ragazze alle armonie vocali Mahalia Barnes, Jade Macrae e Juanita Tippins. Il resto lo fanno le dieci ottime canzoni scelte per questo Black Coffee (undici nella versione deluxe): non ci sono brani celeberrimi (forse a parte uno), ma l’equilibrio tra rock’n’soul e blues è perfetto, tra brani più mossi e tirati e qualche ballata o “lentone” blues. Il brano d’apertura è subito esuberante, una Give It Everything You Got di Edgar Winter, che si trovava su White Trash. disco del 1971 che fondeva classico soul alla Stax e hard rock, anche l’approccio di questa nuova versione è quello, chitarra con wah-wah a manetta, fiati sincopati, la voce poderosa e scatenata di Beth sostenuta dalle tre coriste e un groove estremamente godibile, che poi lascia spazio alla solista di Bonamassa che inchioda un assolo dei suoi, breve ma intenso.

https://www.youtube.com/watch?v=pELav-8aLeY

beth hart & joe bonamassa black coffee 3

Damn Your Eyes è l’ennesimo tributo di Beth Hart a Etta James, uno dei suoi idoli assoluti, una ballata blues intensa che si trovava su Seven Year Itch il disco del 1988 che segnava il ritorno sulle scene di una delle regine del soul, versione eccellente con la solista fluida ed intrigante di Bonamassa che sottolinea la voce dei Beth con una serie di soli ficcanti e pungenti, mentre le tastiere di Wynans e i fiati regalano un arrangiamento ricco e complesso. Black Coffee era proprio un brano di Ike & Tina Turner, che molti forse, spero, ricordano nella versione di Steve Marriott con i suoi Humble Pie, su cui è costruita questa rivisitazione in cui Beth cerca di emulare, riuscendoci, una delle più grandi voci “nere” di un bianco; Lullaby Of The Leaves era un vecchio brano, poco conosciuto, di Ella Fitzgerald, che qui diventa una splendida ballata pianistica intima e jazzy, sulla falsariga dei tributi a Billie Holiday dei dischi passati, cantata con misura e pathos dalla Hart, che qui mi ha ricordato la bravissima Mary Coughlan, molto bello anche l’assolo di Bonamassa, improvviso, torrenziale e lancinante. Why Don’t You Do It Right? è un oscuro pezzo degli anni ’40, swingato e divertente, modellato sulla versione di Peggy Lee, con i due e il gruppo in grande souplesse; Saved è uno dei brani ripresi dal repertorio di Lavern Baker,  una delle prime grandi cantanti del R&B.

beth-hart-2017-milano-concerto-foto joe bonamassa photo 1

https://www.youtube.com/watch?v=NooMzmbE0xc

L’altro è Soul On Fire, entrambi permettono di gustare la maturità vocale raggiunta dalla Hart, prima scatenata in un pezzo che ricorda le evoluzioni dei primi Isley Brothers, quelli di Shout, poi felpata ed incantevole nel secondo brano, un vera delizia per i padiglioni auricolari degli ascoltatori, con Bonamassa che incornicia entrambi i brani con degli interventi dove si apprezza l’eccellente tocco della sua solista. In grande spolvero pure in una versione splendida di Sittin’ On Top Of The World, uno dei classici del blues che ricordiamo in una memorabile versione dei Cream. Un’altra “cliente” abituale dei due è Lucinda Williams, di cui viene ripresa, con piglio energico, cadenzato e grintoso, molto bluesato, Joy, un brano che si trovava su Car Wheels On A Gravel Road, che quanto a spinta chitarristica non ha nulla da invidiare ai brani più rock della chanteuse americana. Manca l’ultimo brano Addicted, con la coppia, credo su suggestione di Shirley e della casa discografica, che va a pescare questa canzone dal repertorio della band trip-hop elettronica austriaca Waldeck: niente paura è molto meglio dell’originale, però confrontato con il resto solo un onesto pezzo pop-rock, nobilitato dagli assoli della solista di Bonamassa. Comunque non inficia il giudizio molto positivo di Black Coffee, che conferma la validità di questa coppia veramente bene assortita. P.S. La bonus della deluxe edition Baby I Love You non l’ho sentita per cui non vi so dire, presumo sia quella delle Ronettes (o dei Ramones). *NDB E invece era il brano di Aretha Franklin. Esce il 26 gennaio.

Bruno Conti