Il Diavolo Secondo Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can

Ray Wylie Hubbard Tell the Devil

Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can – Bordello Records/Thirty Tigers

Parafrasando un vecchio detto “non c’è due senza tre”, dopo The Grifter’s Himnal (12), e The Ruffian’s Misfortune (15) http://discoclub.myblog.it/2015/04/17/grande-vecchio-texano-doc-ray-wylie-hubbard-the-ruffians-misfortune/ , torno a parlarvi sul Blog di Ray Wylie Hubbard, un vero musicista di culto della scena musicale texana, in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro, dal titolo lunghissimo che per comodità abbreviamo in Tell The Devil…, il diciassettesimo della sua carriera (se non ho sbagliato i conti con il pallottoliere). Proseguendo nelle tematiche degli ultimi lavori e miscelando sempre più sacro e profano, Hubbard porta negli studi di registrazione The Zone a Dripping Springs, Texas, un manipolo di validi musicisti, a partire da suo figlio Lucas Hubbard (sempre più bravo) alle chitarre elettriche, Kyle Schneider e Joseph Mirasole  che si alternano alla batteria, l’ottimo Jeff Plankenhorn a dobro, lap steel guitar e mandolino (e ottimo cantautore anche in proprio), Pat Manske al basso, e il grande Bukka Allen (BoDeans, Joe Ely, Alejandro Escovedo e figlio di Terry Allen) all’Hammond B3, con l’aggiunta di validi “turnisti” locali tra i quali Edward Braillif, Billy Cassis, Jack O’Brien, Lisa Mednick Powell, Curtis Roush e con il produttore Mike Morgan, che è anche il proprietario degli studi di registrazione, i quali, tutti insieme a Ray Wylie (armonica, chitarra acustica e elettrica, e voce), danno vita ad undici brani “diabolici”, con la partecipazione non secondaria di ospiti vocali di grande valore come Lucinda Williams, Patty Griffin, Eric Church; canzoni intrise come al solito di rock, blues, e sonorità voodoo, con una spruzzata abbondante di country texano.

I sermoni si aprono con la spettrale God Looked Around (ispirata dal Libro Della Genesi), con un bel giro di armonica che la caratterizza, a cui fanno seguito lo sporco blues di Dead Thumb King, le sonorità voodoo di una ossessiva Spider, Snaker And Little Sun, un tributo a “Spider” John Koerner, Dave “Snaker” Ray e Tony “Little Sun” Glover,  passando poi per lo sferzante groove di Lucifer And The Fallen Angels, un lungo viaggio letterale nell’inferno, che Hubbard dice essere stata ispirata da Turn the Page di Bob Seger. Con l’acustica Open G Hubbard dimostra di essere anche un chitarrista slide di prim’ordine, mentre la tagliente ballata House Of The White Rose Bouquet racconta la storia di un rapporto tra un giocatore e una “Lady”, preludio alla meravigliosa Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, cantata in duetto con Eric Church e Lucinda Williams (una voce talmente personale che si riconosce anche in punto di morte), con uno splendido finale chitarristico, e che sempre secondo l’autore si rifà alle sonorità di Rod Stewart in Maggie May, con mandolino e organo in evidenza, per riscoprire pure le sonorità “psichedeliche” in The Rebellious Sons, suonata al meglio con i Bright Light Social Hour (una poco conosciuta rock band “psichedelica”di Austin). Ci si avvia alle “fiammate” finali con il blues ballabile di Old Wolf  (con tanto di ululato simulato), una sofferta melodia alla Townes Van Zandt come Prayer, e chiudere in gloria questa favola “rock-blues con la delicata In Times Of Cold cantata in duetto con la brava Patty Griffin, con solo accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

Questo signore ha superato i settanta (e li dimostra tutti guardando la cover del CD), ma sono anche cinquant’anni che Ray Wylie Hubbard è in pista fra palchi e studi di registrazione, e questo nuovo Tell The Devil….prosegue nel solco degli ultimi due dischi citati ad inizio Post, disco che lo certifica ancora una volta come una figura di culto nell’ambito della scena musicale “texana”, con il suo cocktail affascinante composto da rock, blues e roots music, e per chi lo segue da sempre c’è la certezza che dalla sua penna usciranno comunque eroi e perdenti che non sono né buoni né cattivi, ma che lottano e si dibattono tra il bene e il male. Personaggio difficilmente “etichettabile”, Ray Wylie Hubbard per chi lo conosce ed ama sta diventando sempre più importante disco dopo disco,  ed al quale manca soltanto (e per chi scrive, fortunatamente) la celebrità, che non arriverà neppure dopo questo lavoro, da assaporare comunque con gusto fino all’ultima nota.

Tino Montanari

Torna Una Delle Regine Della Moderna “Texas Music”. Robyn Ludwick – This Tall To Ride

robyn ludwick this tall to ride

Robyn Ludwick – This Tall To Ride – Late Show Records

Dopo un meraviglioso disco come Out Of These Blues (11), seguito dall’ottimo Little Rain (14) http://discoclub.myblog.it/2014/09/02/ultimi-ripassi-lestate-dal-texas-la-sorella-musicale-lucinda-williams-robyn-ludwick-little-rain/ , secondo chi scrive non era facile riproporsi ai quei livelli, ma Robyn Ludwick, sorella di Bruce e Charlie Robison (una delle più interessanti dinastie delle Texas Music), mi smentisce e si ripresenta con questo quinto lavoro This Tall To Ride (il tutto uscito nell’arco di una dozzina d’anni), affidando la produzione al marito e musicista John Ludwick (dopo gli ultimi due gestiti dal grande Gurf Morlix), per dieci brani di grande passione, che non cambiano di una virgola (è questo, almeno secondo me, è un pregio), il “sound” dei dischi precedenti. This Tall To Ride, inciso negli Zone Recording Studios a Dripping Springs in Texas, vede come sempre il marito John al basso, Rick Richard alla batteria, e come ospiti il polistrumentista Bukka Allen, e il bravissimo chitarrista David Grissom (Storyville, Mellencamp, Joe Ely), dove la signora Ludwick spicca sempre con il suo stile di scrittura, come già detto in passato, certamente influenzato da Lucinda Williams, con le canzoni che raccontano di personaggi dalle vicende tragiche ma anche ricche da grintosi messaggi d’amore, che spesso sono il tema principale delle sue canzoni.

Nella prima traccia l’energica ed elettrica Love You For It si nota subito la presenza della chitarra di Grissom, canzone seguita dalla “sociale” Rock’n’Roll Shoes (dove paragona il sesso con la cocaina), una ballata urbana dove le note delle chitarre e la voce di Robyn la fanno da padrone, per poi passare alle melodie “classicamente country” di Lie To Me, e commuoverci con la meravigliosa Freight Train, giocata tra chitarra elettrica ed acustica, e finire la prima parte con le note di un dolce pianoforte in perfetto Lucinda Williams “style”. Con Bars Ain’t Closin’ (cantata con il consorte) si racconta la storia di un musicista alla fine di una relazione, mentre nella seguente Insider descrive la vita di una donna sottoposta ad abusi, entrambe con testi attuali e importanti, suonate con arrangiamenti grintosi e incisivi, mentre Mexia inizia con una chitarra acustica, per poi svilupparsi in una lunga e dolente ballata dai sapori “texani”, passando poi ancora alla bella melodia rock di Wrong Turn Gone, con la chitarra elettrica di Grissom che “singhiozza” all’unisono con la voce di Robyn, e il resto dei musicisti che lavora di fino come in tutto l’album. Nella parte finale la Ludwick si fa più concreta, come nel personale autoritratto della sofferta Junkies And Clowns o nella conclusiva Texas Jesus, un ottimo country-folk che si sviluppa in un diluvio di pedal-steel, con dei risultati superiori alla media di questo pur ottimo album.

Il senso di questo disco, This Tall To Ride (una colonna sonora perfetta per sognare le infinite strade americane) è una manciata di canzoni che giocano sul dolore dei rapporti di solitudine e speranza per trovare un senso nella vita, e, come già detto, oltre a quello di Lucinda Williams nelle canzoni di Robyn Ludwick affiorano molti altri stili che portano ai nomi di Patty Griffin, Mary Gauthier, Rosanne Cash (le prime che mi vengono in mente): una carriera fatta di una musica intensa, un insieme di canzone d’autore e folk-rock, una donna tosta e ostinata che non ha paura di rivaleggiare con le “signore” sopracitate, certificando che, a parere di chi scrive, della famiglia “canterina” allargata (i fratelli Charlie e Bruce, le nuore Kelly Willis e Emily Erwin (Dixie Chicks), da qualche anno lei è forse la migliore della “dinastia” Robison. Sicuramente a fine anno farà parte del mio “listone”.

Tino Montanari

*NDB. Questa volta lo aggiungo io: manco a dirlo, ancora una volta, il CD purtroppo non è di facile reperibilità nelle nostre lande, e di conseguenza anche abbastanza costoso da recuperare oltre oceano, buona ricerca.

Un Altro Gregario Di Lusso! Gurf Morlix – The Soul And The Heal

gurf morlix the soul and the heal

Gurf Morlix  – The Soul And The Heal – Rootball Records

Quasi tutte le recensioni dei dischi dei Gurf Morlix partono dallo stesso assunto, e quindi ci sarà un fondo di verità: il musicista di Buffalo, NY, ma da anni cittadino di Austin, Texas, viene ricordato soprattutto per il suo lavoro come musicista e produttore, attraverso una carriera trasversale che lo ha portato prima ad essere la mano destra di Blaze Foley appunto in Texas, poi all’inizio degli anni ’80 si è trasferito in California dove ha condiviso i primi passi di una emergente Lucinda Williams, forgiandone anche il suono, grazie al suo lavoro di chitarrista e produttore in due ottimi album come l’omonimo Lucinda Williams e Sweet Old World. Poi quando era arrivato il momento di raccogliere i frutti con il fantastico Car Wheels On A Gravel Road, i due si sono scontrati di brutto in studio, e la versione del disco con Morlix, pronta per il 90%, è stata accantonata e non utilizzata. Ma il suono della musica di Lucinda è rimasto negli anni quello forgiato con Gurf,  quel roots-rock scarno, con ampie schegge di country, blues e folk, che si accende in improvvise cavalcate chitarristiche. Anche la musica di Gurf Morlix, ovviamente, viaggia su queste coordinate sonore, arricchita da anni di collaborazioni con spiriti eletti come, cito alla rinfusa, Ray Wylie Hubbard, Tom Russell, Mary Gauthier, Slaid Cleaves, l’amico Ray Bonneville, Buddy Miller, persino i Barnetti Bros di Chupadero, Sam Baker, e mi fermo, ma se c’è bisogno di uno che sa suonare tutti i tipi di chitarra, tastiere, basso, banjo, arrangiarsi alle percussioni, magari producendovi anche il disco nei suoi Rootball Studios di Austin, non cercate altrove.

E qui forse sta l’inghippo, perché in teoria, dall’inizio degli anni 2000, Morlix farebbe il cantautore, con nove album (anzi dieci, perché uno, strumentale, è il rifacimento del precedente senza le parti vocali), ma purtroppo pochi se ne accorgono: i dischi hanno una diffusione molto difficoltosa, pochi ne parlano, anche se lui testardamente, ogni paio di anni circa ne pubblica uno nuovo, l’ultimo è questo The Soul And The Heal, il contenuto è più o meno sempre il “solito”, dieci brani incentrati sui temi della rinascita, della guarigione dalle ferite della vita, spesso tosta, buia e con poche speranze, attraverso un suono denso, ripetitivo, insistito, che parte dalla sua interpretazione del blues, del rock e del country, in un modo quasi idiosincratico, che si apprezza magari solo dopo ripetuti ascolti, e anche se non sempre si eleva verso vette qualitative decise, spesso ha le stimmate dell’artista di culto. Quindi non aspettiamoci grandi voli pindarici, ma un album con dieci solide canzoni che si apre sul laidback blues dell’iniziale Deeper Down, dove il groove inesorabile viene scandito dalla batteria di Rick Richards, il “Buddha del Beat” come lo chiama Morlix nelle note, molto scarne, del CD, forse per il suo stile imperturbabile e ripetuto, usato anche negli album di tutti gli artisti citati poco fa, il resto lo fanno le svisate d’organo di Nick Connolly e il basso cavernoso e la chitarra dello stesso Gurf, che ogni tanto si impenna con brevi e mirati interventi che non tendono mai al virtuosismo, ma sono funzionali all’atmosfera della canzone; Love Remains Unbroken potrebbe essere appunto il titolo di una canzone di Lucinda Williams,e anche lo stile è quello, una ballata, cantata con voce roca e spezzata, ma graziata da una bella melodia che si dipana sul solito arrangiamento scarno ma al tempo stesso austeramente raffinato, con la chitarra che regala un piccolo solo di grande classe e feeling.

Bad Things aggiunge al menu l’armonica minacciosa di Ray Bonneville, per un blues desertico e scheletrico, scandito dalla batteria quasi metronomica di Richards e con un assolo minimale della slide di Morlix nella parte centrale; Cold Here Too, ancora più narcotica, lavora sempre di sottrazione, su ritmi e arrangiamenti, dove, sinceramente, forse un po’ di varietà in più non guasterebbe, anche se la chitarra cerca di prendere vita, mentre Right Now tenta la strada del ritmo reggae, con l’organo sibilante e i tom-tom più vivaci del solito, ma giusto un po’, perché questa è la musica del nostro. E quindi la strada della ballata sembra quella più proficua, come nella languida e malinconica Move Someone, dove il country-blues è di nuovo molto vicino alle tematiche sonore della Williams, perfino con un accenno di armonie vocali; I’m Bruised, I’m Bleedin’ è una ulteriore variazione sui temi bui delle canzoni di Morlix, anche se uno spicchio di speranza si percepisce sempre, sia nei testi, come nelle musiche. E infatti Quicksilver Kiss, sempre su questi parametri sonori, è comunque più mossa e vivace, quasi “ottimistica”, con tocchi rock leggeri ma percepibili nel delizioso assolo di chitarra, ancora più accentuati in My Chainsaw  dove il nostro amico lascia andare la sua chitarra in un mordente solo su un ritmo rock, prima di chiudere l’album con il piccolo gioiellino folk della ballata conclusiva The Best We Can, solo voce e chitarra acustica. Per chi ama la sua musica e quella della sua “amica”, una conferma.

Bruno Conti

Un’Altra Grande Serata Per Una Grande Cantante! VV.AA. – The Life And Songs Of Emmylou Harris

life and songs of emmylou harris

 VV.AA. – The Life And Songs Of Emmylou Harris – Rounder CD – CD/DVD

Se Loretta Lynn è giustamente considerata la regina del country classico (ed il fatto che sia ancora tra noi ed attiva è una piacevolissima combinazione), è altrettanto vero che Emmylou Harris può aspirare allo stesso titolo per quanto riguarda il country contemporaneo. Nel corso di una carriera ormai più che quarantennale, la cantante dai capelli d’argento (adesso, una volta erano nerissimi) non ha mai sbagliato un solo disco, sostenuta sempre da una voce formidabile, una classe immensa, un gusto raro per la scelta delle canzoni da interpretare (solo ultimamente si è messa a scrivere di suo pugno con una certa continuità) e dei musicisti e produttori con i quali lavorare. Con l’età ha poi ampliato lo spettro interpretativo, e, più o meno a partire dal magnifico Wrecking Ball (1995), è diventata una musicista a 360 gradi, non necessariamente solo country, anche se il country è comunque sempre la base di partenza. Era dunque d’uopo omaggiare la Harris in maniera consona, e questo The Life And Songs Of Emmylou Harris è la testimonianza di una splendida serata a lei dedicata, un concerto ricco di ospiti tenutosi il 10 Gennaio del 2015, più o meno a quarant’anni dal suo esordio su major Pieces Of The Sky, evento tenuto alla Dar Constitution Hall di Washington.

Un CD, 19 canzoni (qualcunaa in più nel DVD, ma la versione audio è più che sufficiente *NDB Non sono d’accordo, visto che il DVD ha ben otto brani in più, vedi sotto e tutti piuttosto interessanti, tra cui una versione bellissima di Pancho & Lefty, con Steve Earle, Lee Ann Womack e Herb Pedersen) che testimonia uno show decisamente bello ed emozionante, nel quale un parterre di ospiti eccezionale ha omaggiato Emmylou attraverso canzoni sue o comunque da lei cantate nel corso degli anni, con la partecipazione qua e là della stessa Harris (a mio parere forse un tantino troppo centellinata) ed una house band davvero da sogno: Buddy Miller ed Audrey Freed alle chitarre, Don Was (più attivo che mai ultimamente) al basso e direzione musicale, Sam Bush al mandolino e banjo, Sara Watkins al violino e voce, l’ottimo Matt Rollings al pianoforte, Fred Eltringham alla batteria e, dulcis in fundo, il formidabile steel guitarist Greg Leisz, uno dei grandi protagonisti della serata.Il concerto ha inizio con Buddy Miller che interpreta al meglio One Of These Days: voce perfettamente country, bel suono pieno e fluido per una bella canzone che apre la serata nel modo migliore; poi è subito tempo di superclassici con la signature song della Carter Family, Will The Circle Be Unbroken, riletta molto bene da Mavis Staples, voce tonante e grande forza interpretativa, in una versione più blues che gospel. Chris Hillman e Herb Pedersen si cimentano con Wheels (Flying Burrito Brothers), due grandi voci ed una grande canzone, il risultato non può che essere eccellente (anche perché la house band suona da Dio, con una nota di merito per la steel di Leisz).

Orphan Girl è una splendida ballata di Gillian Welch, e vede la brava Holly Williams (nipote di Hank) interpretarla insieme a Chris Coleman con la giusta dose di feeling, mentre Steve Earle rilegge da par suo Sin City, altro grande successo dei Burritos (non dimentichiamo che la figura di Gram Parsons è stata fondamentale per Emmylou ad inizio carriera), puro country e grande suono, con Steve che ritorna allo stile dei suoi esordi. Hickory Wind è forse la più bella canzone che Parsons portò in dote ai Byrds per il capolavoro Sweetheart Of The Rodeo, e vorrei che quella sera non l’avessero affidata a Lucinda Williams, anzi avrei proprio voluto che la bionda cantautrice se ne fosse rimasta a casa sua (*NDB De gustibus), anche se obiettivamente qui fa meno danni del solito; meno male che c’è Rodney Crowell a rimettere le cose a posto, anche se stranamente non sceglie un brano suo ma uno di George Jones, You’re Still On My Mind, ma la classe non è acqua e la canzone, uno scintillante honky-tonk, è tra i più riusciti della serata. Born To Run non è il classico di Springsteen, bensì un brano scritto per Emmylou da Paul Kennerley, e la brava Lee Ann Womack la fa sua con piglio da vera country-rocker, mentre la toccante ballad degli O’Kanes When We’re Gone, Long Gone vede finalmente salire sul palco la festeggiata (insieme a John Starling dei Seldom Scene), e la temperatura sale di conseguenza, e di parecchio. Emmylou rimane e viene raggiunta da Daniel Lanois, che interpreta con lei Blackhawk, una sua composizione tratta da Wrecking Ball (da lui prodotto), un brano intensissimo e con la chiara impronta del musicista canadese (e che voce la Harris, ma questo non lo scopriamo certo oggi).

All The Roadrunning è una splendida canzone dal sapore irlandese scritta da Mark Knoplfler per l’omonimo album in duo che l’ex Dire Straits aveva registrato con Emmylou: Mary Chapin Carpenter e Vince Gill sono bravissimi, ma io avrei preferito nettamente avere i due interpreti originali (e secondo me Knopfler andava assolutamente coinvolto). Il vulcanico Conor Oberst, con le backing vocals di Shawn Colvin e Patty Griffin, propone la bella The Pearl, tratta da Red Dirt Girl, una bella canzone, densa e vibrante, che dimostra che anche la Harris songwriter sa il fatto suo, mentre Martina McBride ci delizia con una fresca rilettura di When I Stop Dreaming dei Louvin Brothers, e la Griffin fa lo stesso con Prayer In Open D, altro pezzo scritto da Emmylou, ripresa in una versione acustica e purissima. Torna Vince Gill per due brani, il classico honky-tonk di Buck Owens Together Again, ancora con un grande Leisz, e, insieme a Sheryl Crow, una trascinante e roccata Two More Bottles Of Wine di Delbert McClinton, davvero splendida. Kris Kristofferson è un’altra leggenda vivente, e come apre bocca fa venire giù il teatro, e poi Loving Her Was Easier è una delle sue ballate più belle; la serata sta per chiudersi, il tempo del pezzo più noto di Crowell, Till I Gain Control Again, interpretato alla grandissima dalla splendida Alison Krauss, in una versione per piano, voce e poco altro, veramente toccante, e per il gran finale con Emmylou Harris e tutti gli ospiti insieme per la più famosa tra le canzoni da lei composte, quella Boulder To Birmingham che da sempre occupa un posto speciale nei suoi concerti.

Una bellissima serata ed un CD imperdibile, anche se personalmente avrei preferito una presenza maggiore da parte della padrona di casa, un po’ come ha fatto Joan Baez nel suo recente concerto per i 75 anni.

Marco Verdi

*NDB

[CD]
1. One Of These Days (Buddy Miller)
2. Will The Circle Be Unbroken (Mavis Staples)
3. Wheels (Chris Hillman & Herb Pedersen)
4. Orphan Girl (Holly Williams & Chris Coleman)
5. Sin City (Steve Earle)
6. Hickory Wind (Lucinda Williams)
7. You’re Still On My Mind (Rodney Crowell)
8. Born To Run (Lee Ann Womack)
9. When We’re Gone, Long Gone (John Starling & Emmylou Harris)
10. Blackhawk (Daniel Lanois & Emmylou Harris)
11. All The Roadrunning (Mary Chapin Carpenter & Vince Gill)
12. The Pearl (Conor Oberst, Shawn Colvin & Patty Griffin)
13. When I Stop Dreaming (Martina McBride)
14. Prayer In Open D (Patty Griffin)
15. Together Again (Vince Gill)
16. Two More Bottles of Wine (Sheryl Crow & Vince Gill)
17. Loving Her Was Easier (Kris Kristofferson)
18. Till I Gain Control Again (Alison Krauss)
19. Boulder To Birmingham (Emmylou Harris)

[DVD/Blu-ray]
1. One Of These Days (Buddy Miller)
2. Will The Circle Be Unbroken (Mavis Staples)
3. The Darkest Hour Is Just Before Dawn (Sara Watkins)
4. Red Dirt Girl (Shawn Colvin)
5. Michelangelo (The Milk Carton Kids)
6. Wheels (Chris Hillman & Herb Pedersen)
7. Orphan Girl (Holly Williams & Chris Coleman)
8. Sin City (Steve Earle)
9. Bluebird Wine (Trampled By Turtles)
10. Hickory Wind (Lucinda Williams)
11. You’re Still On My Mind (Rodney Crowell)
12. Born To Run (Lee Ann Womack)
13. When We’re Gone, Long Gone (John Starling & Emmylou Harris)
14. Blackhawk (Daniel Lanois & Emmylou Harris)
15. Wrecking Ball (Iron & Wine & Daniel Lanois)
16. Leaving Louisiana In The Broad Daylight (Shovels & Rope)
17. All The Roadrunning (Mary Chapin Carpenter & Vince Gill)
18. The Pearl (Conor Oberst, Shawn Colvin & Patty Griffin)
19. When I Stop Dreaming (Martina McBride)
20. Prayer In Open D (Patty Griffin)
21. Pancho And Lefty (Steve Earle, Lee Ann Womack & Herb Pendersen)
22. Together Again (Vince Gill)
23. Two More Bottles of Wine (Sheryl Crow & Vince Gill)
24. Loving Her Was Easier (Kris Kristofferson)
25. Till I Gain Control Again (Alison Krauss)
26. Cash On The Barrelhead (Alison Krauss)
27. Boulder To Birmingham (Emmylou Harris)

Recuperi Estivi. Un Gruppetto Di Voci Femminili 3: Se Questo E’ Country, Voglio Solo Dischi Come Questo. Elizabeth Cook – Exodus Of Venus

elizabeth cook exodus of venus

Elizabeth Cook – Exodus Of Venus – Agent Love Records/Thirty Tigers

Ci sono dei dischi che al momento dell’uscita, o anche prima, ascolto e poi metto da parte, ripromettendomi di ritornarci sopra, ma poi tralascio per motivi vari, soprattutto di  tempo (tra Blog e Buscadero mi capita spesso di scrivere più di una recensione al giorno ed i dischi, per parlarne con cognizione, bisogna anche sentirli, e bene) oppure perché me ne dimentico e poi vengono superati da altre uscite. Nella parte centrale dei mesi estivi (ma anche a cavallo della fine dell’anno) faccio una serie di “recuperi”, con relative recensioni di dischi che mi erano parsi meritevoli e avevo magari solo segnalato brevemente nella rubrica delle Anticipazionim oppure avevo saltato brutalmente. In qualche caso mi domando anche come ho fatto ad essere così “pirla” da non averne scritto, perché sono veramente belli, questo Exodus Of Venus di Elizabeth Cook è uno di quei dischi. Come dico nel titolo del Post, se questo è un album di country li voglio tutti così: non è vero, è una iperbole, i dischi country, purché belli, continuano a piacermi, come peraltro quelli di qualsiasi altro genere, ma il disco in questione non lo è, anche se proveniente da una artista da sempre etichettata come country, che pur essendo nata a Wildwood in Florida, ha fatto il suo debutto alla Grand Ole Opry di Nashville nel lontano 2000, anno in cui usciva il suo debutto pubblicato a livello indipendente, The Blue Album, e poi sulla scia di quel disco l’album per la Warner Bros Nashville, Hey Y’All con tutta la solita truppa dei musicisti della Music City, alcuni molto bravi e il marito dell’epoca Tim Carroll, alla chitarra elettrica. Salvo venire mollata dalla major in questione in un battibaleno, come usa in quel mondo perfetto e plastificato.

Però la critica aveva apprezzato i suoi album, i colleghi pure, e nel disco del 2007, Balls, prodotto da Rodney Crowell,  e con una bella cover di Sunday Morning dei Velvet Underground (della serie non solo country, già allora), apparivano Nanci Griffith Bobby Bare Jr, e nel successivo Welder del 2010, prodotto da Don Was, oltre a Crowell di nuovo, c’erano anche Dwight Yoakam Buddy Miller. In seguito le cose hanno iniziato ad andare storte, è morto il padre (e poi anche la madre), ha divorziato dal marito, sono morti altri parenti, qualcuno del suo giro ha avuto problemi di dipendenza, si è incendiata la casa dei suoi genitori: una serie di fatti non ideali per continuare in serenità una carriera che pareva brillante. Eppure in questo periodo, anche senza dischi nuovi, David Letterman, un fan dichiarato, l’ha voluta tre volte nella sua trasmissione, la prima volta con Jason isbell a cantare brani di Townes Van Zandt, la seconda alle prese con un brano di Blind Willie Johnson dal suo Ep Gospel https://www.youtube.com/watch?v=D5NrGOpV5cA e la terza con una cover di Pale Blue Eyes, di nuovo dei VelvetIn mezzo alle sue vicissitudini ha pubblicato nel 2012 un mini album Gospel Plow, ha partecipato al disco dei Great American Taxi, al disco tributo a Jerry Jeff Walker di Todd Snider (che firma con lei uno dei brani del nuovo album), ha cantato con gli Hard Working Americans, con Seasick Steve Carlene Carter, oltre ad apparire nel tributo a Bob Wills con gli Asleep At Wheel e al disco Cayamo Sessions At Sea di Buddy Miller.

elizabeth cook exodus 1

Nel frattempo ha sistemato i suoi affari personali e familiari ed ha iniziato a registrare questo nuovo album, prima autofinanziato, e poi per la stampa e la distribuzione, con l’aiuto delle piattaforme di crowdfunding. Ed il disco che ne è uscito è splendido: con Matt Chamberlain alla batteria, Willie Weeks al basso, Ralph Lofton alle tastiere e soprattutto i due chitarristi, Dexter Green, che è anche il produttore e Jesse Aycock (degli Hard Working Americans) alle prese con lap steel e pedal steel che fa il Greg Leisz della situazione. Tra gli ospiti Kevn Kinney, Buddy Miller alla Mando Guitar e Patty Loveless, alla seconda voce, nel pezzo più country del disco, una Straightjacket Lover che parte lenta e poi diventa immediatamente una sorta di turbinante bluegrass-rock elettrico e vibrante degno delle migliori cose dei Lone Justice. Proprio al sound della prima Maria McKee, o di Lucinda Williams, però con un’altra voce, forse più gentile e impostata, ma pur sempre ricca di grinta, mi viene in mente si rifaccia questo Exodus Of Venus, con brani che hanno titoli come Dyin’ , Slow Pain, Broke Down In London on The M25 Methadone Blues, e influenze varie tra blues, swamp, rock, Americana, ma anche R&B, oullaw country, persino leggera psichedelia e garage, per un album che ha un suono tirato ed elettrico, veramente bello e corposo e una serie di canzoni di grande spessore, decisamente un CD tra i più belli usciti nel 2016 nel genere (se riuscissi a decidere che genere è, quindi diciamo in generale nell’ambito voci femminili)! 

Anche se la Cook è stata inserita in quel ennesimo filone del country e della roots music che è stato definito “Ameripolitan” (siccome non ce n’erano già abbastanza) in questo Exodus Of Venus direi che fa soprattutto rock. Dal primo riff di chitarra di Dexter Green nell’iniziale title-track East Of Venus si capisce dove andremo a parare, un brano bluesy, con tastiere e la lap steel minacciosa di Aycock, ben coadiuvate da quella stellare sezione ritmica, a creare un sound dalle atmosfere swampy, variegate; i testi dei brani, come ricordato poco sopra, sono amari e rancorosi, e anche la musica ha questo substrato sofferente, dove le sferzate elettriche del gruppo sono piccole vendette per Elizabeth; prendiamo la successiva Dyin, con un lavoro chitarristico di nuovo eccellente, e improvvise aperture di organo, mentre la nostra amica vocalmente ricorda quella Maria McKee citata in precedenza, i cui Lone Justice proponevano un country-punk con punte garage-psych qui replicate da una angolatura più meditativa, per restare in tempi più recenti, vicine alle atmosfere di Lucinda Willams. Ancora eccellente il groove rock di Evacuation, con le chitarre di Green e Aycock veramente assatanate nei loro interventi solisti, mentre l’Hammond B3 di Lofton lavora di fino sullo sfondo, e le armonie vocali di Laura Mayo aggiungono ulteriore profondità. Ci sono anche brani più riflessivi come Dharma Gate, ballata sognante e dall’arrangiamento avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=5PSnDWMMMAU , o Slow Brain, canzone di impianto quasi psichedelico, graziata anche da un paio di assoli taglienti e cattivi della lap di Aycock e della solista dell’ottimo Green, che firma anche la quasi totalità dei brani con la Cook https://www.youtube.com/watch?v=VmJzfPGdWzI .

Di Straighjacket Love si è detto, il brano che mantiene i legami con il passato country di Elizabeth anche grazie alla chitarra twangy di Green e alla pedal steel di Aycock, mentre Broke Down On The London M25 è di nuovo un bel pezzo rock dal riff aggressivo, con un lavoro eccellente dell’organo e delle chitarre, con Methadone Blues, gemella ideale di una Heroin Addict Sister che appariva su Welder (devono essere le influenze di Lou Reed che emergono), un funky rock con l’eccellente lavoro del Fender Rhodes e dell’organo di Lofton che gli conferiscono sonorità sudiste e swampy, fino all’ingresso delle chitarre sempre protagoniste di interventi notevoli. Cutting Diamonds è il brano scritto con Todd Snider, un altra blues ballad “spaziale” e leggermente psych, degna dei migliori episodi dell’ultima Lucinda Williams (e per la gioia di chi non ne ama la voce, con una cantante dall’impostazione vocale più tradizionale), molto bella la parte centrale strumentale. Orange Blossom Trail, fin dal titolo, è uno dei rari episodi dove lo spirito outlaw country meglio si sposa con le attitudini più rock dell’album, esemplificate dai “soliti” splendidi interventi dei due chitarristi e delle tastiere. Per concludere in gloria il tutto rimane Tabitha Tuder’s Mama, altra bellissima ballata, dove sembra di ascoltare la Emmylou Harris di Wrecking Ball prodotta da Daniel Lanois, fragile e vulnerabile ma dallo spirito indomabile.

Bruno Conti

Dopo Le Celebrazioni Poteva Mancare Un Bel Tributo Ai Grateful Dead? Various Artists. – Day Of The Dead. Giorno 2

day of the dead

VV. AA. – Day Of The Dead – 4AD/Beggars 5CD Box Set 

Seconda parte, segue da ieri http://discoclub.myblog.it/2016/05/24/le-celebrazioni-poteva-mancare-bel-tributo-ai-grateful-dead-various-artists-day-of-the-dead-giorno-1/

CD3: ecco ancora i National alle prese con un’emozionante rilettura di Peggy-O, un traditional ripreso di sovente da Garcia e soci: la bravura del gruppo sta nell’approcciare la canzone nel loro tipico stile senza modificarne la struttura, bravi; Bryce Dessner si presenta da solo con il bizzarro strumentale Garcia Counterpoint, seguito dalla suite Terrapin Station, ripresa in maniera perfetta da Daniel Rossen e Christopher Bear dei Grizzly Bear (con i National come backing band), uno dei momenti top del cofanetto. Clementine Jam è uno strumentale da parte dell’Orchestra Baobab, tra jazz e samba, gradevole ma superfluo, mentre la lunga jam China Cat Sunflower/I Know You Rider (Stephen Malkmus & The Jicks) è perfettamente calata nello spirito dell’operazione, chiudete gli occhi e quasi vi sembrerà di sentire i Dead. Splendida anche Jack-A-Roe, ad opera di Kate Stables alias This Is The Kit, con la sua suggestive atmosfera western anche se forse sarebbe più adatta ad una voce maschile. Bill Callahan si impegna molto per rovinare Easy Wind e direi che ci riesce, mentre Wharf Rat, ad opera di Ira Kaplan degli Yo La Tengo, è lunga, fluida, psichedelica ed indubbiamente azzeccata; ecco arrivare anche Lucinda Williams alle prese con il classico Going Down The Road Feelin’ Bad: Lucinda come al solito rallenta il ritmo (proprio non riesce a farne a meno, riuscirebbe a rallentare anche gli Iron Maiden), personalizzandola totalmente e condendo il tutto con la sua tipica voce sgraziata (so che sulla bionda rockeuse della Louisiana sono una voce fuori dal coro, ma proprio non ce la faccio…). Chiusura ottima con And We Bid You Goodnight, rifatta dal folksinger Sam Amidon con voce e poco altro.

CD 4: il dischetto più “difficile”, che però parte bene con una fluida Ripple eseguita da The Walkmen, indie band di New York che affronta la splendida canzone con lo spirito giusto, mentre purtroppo Truckin’ è letteralmente distrutta dai Marijuana Deathsquad, una versione rumoristica senza capo né coda, inascoltabile; anche la Dark Star dei Flaming Lips non mi piace per niente, rilettura modernista e finto-psichedelica, cantata in maniera imbarazzante. Stella Blue non mi faceva impazzire neppure nella versione dei Dead, figuriamoci sentirla così stravolta e destrutturata da parte dei Local Natives, ed il CD non si risolleva neppure con la caotica Shakedown Street degli Unknown Mortal Orchestra (ma chi sono?), ma stavolta anche per la pochezza della canzone. Finalmente un po’ di buona musica, ancora con l’Orchestra Baobab che dona un bel sapore caraibico a Franklin’s Tower, rendendola irriconoscibile ma intrigante; Tal National, da non confondere con i padroni di casa (sono un gruppo del Niger, ma dove li hanno trovati?), rilegge in maniera solare Eyes Of The World, e funziona, mentre il famoso banjoista Bela Fleck propone Help On The Way in una interessante versione tra roots e tribale. Estimated Prophet nelle mani dei Rileys diventa quasi un canto propiziatorio indiano (nel senso di pellerossa), fin troppo strana per i miei gusti, mentre What’s Become Of The Baby nelle mani degli Stargaze si trasforma in uno strumentale cerebrale e poco immediato (in poche parole, due palle). L’americano di origine indiana (dell’India stavolta) Vijay Iyer sarà anche un grande pianista classico, ma la sua King Solomon’s Marbles per piano solo mi annoia assai, mentre Bonnie “Prince” Billy, sempre solo col pianoforte ma anche con la voce, riesce ad emozionare con If I Had The World To Give.

CD 5: ancora Phosphorescent con il suo consueto stile crepuscolare/etereo alle prese con la bella Standing On The Moon, ed il gruppo di Matthew Houck si dimostra una scelta vincente; i Tallest Man On Earth, band svedese, rilegge invece Ship Of Fools con pieno rispetto dell’originale ma con un tocco personale, e la canzone ne esce alla grande. Di nuovo Bonnie “Prince” Billy con Bird Song, altra bella rilettura, molto classica e con la melodia in primo piano. Brown-Eyed Women è una delle preferite in assoluto dal sottoscritto, e sono lieto che gli Hiss Golden Messenger la rispettino al 100%, versione ottima di un brano grandioso, tra le migliori del lavoro. Here Comes Sunshine è poco conosciuta, ed i Real Estate né danno una lettura molto seria e solida, armonizzando molto bene con le voci, mentre sulla confusa Cumberland Blues di Charles Bradley stenderei un velo, e così anche su Drums/Space (Man Forever, So Percussion e Oneida), intermezzo batteristico/lisergico che era già una palla colossale nei concerti dei Dead. Cream Puff War viene dal primo periodo del gruppo di Garcia, ma l’interpretazione tra rock e noise dei Fucked Up (bel nome…) mi lascia molti dubbi, anche per la voce molto trash metal del leader. Non mi ricordavo di Rosemary, ma Mina Tindle è fin troppo leggerina ed eterea per farmela apprezzare a fondo, mentre High Time trova nuova luce nell’interpretazione ancora del duo Rossen-Bear dei Grizzly Bear, partenza acustica e finale full band. Till The Morning Comes del duo australiano Luluc è soave e molto raffinata, ma mi piace, mentre Winston Marshall dei Mumford & Sons (assieme a Kodiak Blue e Shura) mostra di risentire del momento no della sua band, rilasciando una versione assolutamente piatta ed insipida dell’altrimenti bellissima Althea. Il monumentale box si chiude con Attics Of My Life, rivista da Angel Olsen quasi fosse un coro ecclesiastico, strana ma non da buttare, e con Bob Weir (sì, proprio lui), che prima coi Wilco (St. Stephen) e poi coi National (I Know You Rider), entrambe dal vivo, sigilla alla grande il cofanetto con due riletture potenti e intrise fino al collo dello spirito deaddiano.

In definitiva, a parte qualche incertezza fisiologica per un box quintuplo (e comunque in gran parte concentrate nel quarto CD), c’è una sola parola con la quale definire quest’opera: imperdibile. Anche perché, per una volta, il costo è decisamente contenuto.

Marco Verdi

In Crociera Fra Amici! Buddy Miller And Friends – Cayamo Sessions At Sea

buddy miller cayamo sessions at sea

Buddy Miller & Friends – Cayamo Sessions At Sea – New West

La consuetudine della crociera musicale è ben radicata tra i musicisti americani: c’è la Legendary Rhythm & Blues Cruise, quella che va verso i Caraibi e che discograficamente ha prodotto vari frutti, tipo i CD di Tommy Castro, Joe Louis Walker, Elvin Bishop, oltre al recente http://discoclub.myblog.it/2016/01/06/nuovo-musicisti-crociera-mitch-woods-jammin-on-the-high-cs-live/, di cui mi sono occupato a più riprese su queste pagine virtuali, ma abbiamo anche un evento come Keeping The Blues Alive At Sea, con il suo viaggio che va da Miami a Cozumel in Messico, e che nella nuova edizione, prevista tra il 15 e il 19 febbraio p.v., ha un cast da sogno, ho sbirciato, ci saranno Robert Randolph, Blues Traveler, Vintage Trouble, James Hunter Six, SIMO, Shemekia Copeland e moltissimi altri artisti, tra cui Beth Hart e l’headliner Joe Bonamassa, che si esibiranno da soli e in coppia (a proposito,se eravate preoccupati, il nuovo album di Joe, Blues Of Desperation è previsto per il 26 marzo, e poi su questo Blog, ma probabilmente il fatto che la Hart e Bonamassa si esibiscano insieme dovrebbe essere anche il preludio per una nuova collaborazione tra i due che era peraltro già prevista).

Tornando ai musicisti in crociera un’altra delle attrazioni più frequentate è quella delle Cayamo Cruises, che sempre da Miami vanno verso le Antille Olandesi (St. Barts e St. Croix), e che nel corso degli anni ha visto avvicendarsi gente come John Prine, Lyle Lovett, Lucinda Williams, Richard Thompson, quest’anno anche John Hiatt, Steve Earle, Shawn Colvin, Chris Stapleton, Jason Isbell e moltissimi altri, tra cui Jim Lauderdale Buddy Miller, che sono due dei fedelissimi di quest evento che spesso li ha visti nelle vesti di animatori delle jam sessions organizzate come The Buddy & Jim Radio Hour, in qualità di DJ officiali della Radio che trasmette dalla crociera (se volete rifarvi gli occhi e magari prenotare per qualche evento futuro http://www.cayamo.com/).

Alcuni dei nomi citati sopra li ritroviamo in questo CD pubblicato dalla New West in questi giorni (ma se volete approfondire su YouTube ci sono decine di video che trattano delle precedenti edizioni); si chiama Cayamo Sessions At Sea ed è attribuito a Buddy Miller & Friends: il bravissimo cantante e chitarrista è il padrone di casa di questi eventi, con la sua band, che vede, fra gli altri, David Jacques al basso, Marco Giovino alla batteria, Fats Kaplan, che suona tutto il resto che non suona Miller, ossia mandolino, chitarra, fisarmonica, banjo, violino, pedal steel, armonica, voi lo nominate e lui lo suona (benissimo). Il repertorio del CD è incentrato prevalentemente sulle cover, con un paio di eccezioni: si parte con After The Fire Is Gone, il famoso brano di Loretta Lynn Conway Twitty, interpretato con puro spirito country e grande profusione di pedal steel, dall’accoppiata Lee Ann Womack Buddy Miller, poi da lì in avanti Miller è il partner fisso dell’ospite che si alterna di brano i brano. La bravissima emergente Kacey Musgraves è alla prese con il divertente honky tonk di una Love’s Gonna Live Here che viene dal songbook del grande Buck Owens, con tanto di violino guizzante e la twangy guitar di Buddy Miller. Kris Kristofferson, noblesse oblige, interpreta alla grande la sua Sunday Morning Coming Down, bellissima versione (il video sotto è un’altra versione, con Shawn Mullins).

Just Someone I Used To Know, con la giovane e brava newcomer Nikki Lane nella parte che fu di Dolly Parton e Miller nei panni di Porter Wagoner, è un’altra perla di puro country classico. Lucinda Williams per il suo brano ha scelto una delle canzoni più belle di Grams Parsons, Hickory Wind, in una versione rallentata e struggente, tipica del suo fare musica. Anche il grande Richard Thompson è della partita e interpreta da par suo Hank Williams, uno dei padri fondatori della country music, qui rappresentato da Wedding Bells, che benissimo si attaglia allo stile del musicista britannico che ne rilascia una versione stupenda. If Teardrops Were Pennies è un altro brano dell’accoppiata Parton/Wagoner, più mossa e brillante, è interpretato dalla meno nota Elizabeth Cook, che con la sua leggiadra vocina ricorda quella dell’interprete originale e che comunque a 43 anni non si può certo definire una debuttante. A seguire un brano dei “famosi autori country” Jagger-Richards, Wild Horses, in una versione cantata da Shawn Colvin che qualcuno ha definito turgida ma che secondo me, viceversa, è una delle più belle di questa raccolta di esibizioni Live, intensa e cantata come Dio comanda.

Come Early Morning è il titolo di un film non particolarmente noto del 2006, con Ashley Judd, ma è anche il titolo di una canzone di Don Williams, uno degli autori preferiti da Clapton in ambito country, qui cantata da Jill Andrews, di cui confesso ignoravo l’esistenza, ma anche lei non è una novellina assoluta, militava negli Everybodyfields, che invece conoscevo ma non associavo alla Andrews, buona cantante di stampo country-folk. L’altro artista non alle prese con una cover è Doug Seegers, ex cantante di strada in quel di Nashville, ma nativo di New York, che a dispetto dei suoi 60 anni passati è un quasi esordiente, grazie all’ottimo album del 2014 Going Down To The River, che ha raggiunto il 1° posto delle classifiche svedesi, conquistando il disco d’oro, è strano il mondo! Comunque il nostro amico è bravo, un vero cowboy, e la sua Take The Hand Of Jesus uno dei brani più coinvolgenti del disco. Che si conclude con un’altra perla preziosa con l’accoppiata Lone Bellow e Brandi Carlile, per una versione sontuosa del capolavoro di John Prine Angel From Montgomery, veramente stupenda.

Speriamo quindi in altre crociere se producono dischi belli come questo Cayamo Sessions At Sea (guardatevi per esempio questa versione di Calvary Cross, una delle mie canzoni preferite di sempre, con l’accoppiata Richard Thompson/Dawes, nella crociera del 2013 https://www.youtube.com/watch?v=CCnnS4lFOsg). 

Bruno Conti

Il Miglior Disco Del 2016? Forse E’ Presto, Ma… Lucinda Williams – The Ghosts Of Highway 20

lucinda williams the ghosts of highway 20

Lucinda Williams – The Ghosts Of Highway 20 – 2 CD Highway 20/Thirty Tigers

Ovviamente è presto per fare pronostici, ma Lucinda Williams ci aveva lasciato nell’ottobre del 2014 con quello che poi si era rivelato, probabilmente (come si sa, ognuno ha i suoi gusti), come uno dei migliori dischi dell’anno, Down Where The Spirit Meets The Bones, un formidabile doppio album che aveva confermato il suo status come una delle migliori cantautrici sulla faccia del pianeta http://discoclub.myblog.it/2014/09/30/il-buon-vino-invecchiando-migliora-sempre-piu-lucinda-williams-down-where-the-spirit/ , ed ora, a poco più di un anno, ne pubblica un altro, The Ghosts Of Highway 20, sempre doppio, ma con 14 canzoni rispetto alle 20 del precedenti, che è altrettanto bello, forse un filo meno immediato e quindi da assimilare magari più lentamente. Le canzoni dell’album ruotano attorno alla Highway 20, la cosiddetta Interstate 20, che dal South Carolina porta al Texas, attraverso gli Stati del Sud degli States Come al solito per Lucinda, storie di perdenti, amanti, paesaggi che gravitano intorno alla strada e si intrecciano con il suo percorso, personaggi veri ed inventati, passati e presenti, “fantasmi” che popolano l’immaginario dei suoi brani, sempre imbevuti da un’anima musicale profondamente rock: 86 minuti di musica divisi su due compact, dove i suoi compagni di avventura sono più o meno i soliti, Tom Overby, il marito della Williams, è sempre, con lei, il produttore del disco, e firma anche la title-track, Greg Leisz, con tutte le sue chitarre, soprattutto lap e pedal steel, di cui ormai è maestro incontrastato, questa volta è anche co-produttore, e divide con Bill Frisell il ruolo di solista.

Val McCallum, impegnato anche con Jackson Browne, appare solo in due brani, come chitarrista aggiunto, mentre la sezione ritmica è affidata ai soliti, e solidi, Butch Nortonalla batteria e David Sutton al basso, niente tastiere questa volta, visto che anche la Williams è impegnata a chitarre acustiche ed elettriche: solo nell’ultimo brano Faith And Grace, il più lungo, con i suoi quasi 13 minuti, appaiono come ospiti Carlton “Santa” Davis (il vecchio batterista di Peter Tosh) e il percussionista Ras Michael, all’hand drum. Partiamo proprio da questo pezzo, uno dei più ritmati, tinto, come era ovvio, vista la presenza di un batteria giamaicano, di ritmi reggae e caraibici, che chi mi legge saprà non prediligo particolarmente, se non presi in piccole dosi, ma in questo caso ci sta, visti in un’ottica jam che comunque mi piace: Greg Leisz in questo pezzo è più defilato, con la chitarra di Frisell che fa da contraltare alla voce di Lucinda nelle lunghe elucubrazioni di questa canzone, che conclude degnamente un album che adesso andiamo a vedere nella sua interezza.

Il paragone con il vino che invecchia l’ho già usato per il vecchio album, ma rimane valido anche per questo The Ghosts Of Highway 20, che si apre con un brano, Dust, ispirato da un poema di Miller Williams, il papà di Lucinda, scomparso circa un anno fa, il 1° gennaio del 2015, poeta, traduttore ed editore, che ha lasciato una profonda influenza sulla figlia: la canzone che prende lo spunto dalla polvere che ricopre le strade ha la classica andatura di molte delle canzoni della Williams, lenta e maestosa, si dipana sul lavoro delle chitarre di Leisz Frisell che poi nella parte centrale e finale del brano si lanciano nella classiche jam chitarristice che spesso contraddistinguono i suoi brani. E se il buongiorno si vede dal mattino anche la successiva House Of Earth, una ballata lenta, dolente e notturna, è una gran canzone, meno rock e tirata, ma sempre affascinante nel suo dipanarsi elettroacustico, ancora caratterizzato dal finissimo lavoro di cesello dei due chitarristi, il testo è di Woody Guthrie, con Lucinda Williams che ha aggiunto la musica. La forma della ballata, quella che forse Lucinda predilige viene ripresa anche nella successiva I Know All About It, qui messa in musica con un approccio quasi western, con tocchi jazz, dei due solisti, sempre soffuso e delicato il loro lavoro, in grado di dare forza alle liriche. Testi che sono importantissimi anche in Place In My Heart, brano dolcissimo che vive sull’interpretazione molto calda e malinconica della voce della Williams, accompagnata solo dalle due chitarre che sottolineano lo spirito delicato del brano, una sorta di valzer minimale. Eccellente anche Death Came (ma ci sono brani brutti?), che parte ancora solo con le due chitarre ma poi si anima leggermente con l’ingresso della sezione ritmica, sempre discreta e raffinata. Doors Of Heaven, più mossa e bluesy, ha anche uno spirito country e swampy nel suo Dna, grazie al lavoro intricato delle due chitarre, con Leisz alla slide, brano che fa da preludio alla lunga Louisiana Story, che ci porta nei territori natali della nostra amica, una ballata che riprende in parte i temi di Baton Rouge e li sviluppa, sempre in modo gentile e raffinato, attraverso un lento e meditato dipanarsi che si gusta con ripetuti ascolti, nei vecchi vinili questo segnerebbe la fine del primo album, ma vale anche in questo caso, per il doppio CD.

Si riparte con la title-track, The Ghosts Of Highway 20, uno dei due brani dove appare Val McCallum alla chitarra e qui il tessuto sonoro si fa decisamente più rock, con i solisti che si fronteggiano sui due canali dello stereo, fino alla immancabile coda strumentale, in una di quelle canzoni epiche che sono tipiche della musica di Lucinda Williams. Bitter Tears, di nuovo in solitaria con Frisell e Leisz, è un pezzo country fatto e finito, dal tempo veloce ed incalzante, una riflessione amara sui tempi passati. Poi c’è la sorpresa che non ti aspetti: una cover di Factory, proprio il pezzo di Bruce Springsteen, che però la nostra amica fa alla Williams, con il tempo rallentato ed avvolgente, solo la chitarra di Frisell a disegnare la melodia in modo acido e jazzato (ricordo un suo assolo memorabile in una versione di Going Going Gone di Dylan, cantata da Robin Holcomb per un tributo per i 40 anni della Elektra https://www.youtube.com/watch?v=ALM2SI0GZj8). Viceversa in Can’t Close The Door On Love è la melodia a fare da trave portante al tessuto sonoro della canzone, questa volta più ottimista e positiva, una ballata elettrica stupenda, una delle canzoni più belle del disco, da sentire e risentire.

lucinda williams photo shoot

Ci avviciniamo alla conclusione, rimangono If My Love Could Kill, brano giocato intorno all’elegante groove della batteria di Butch Norton, altra riflessione poetica sugli effetti dell’amore malato e senza futuro. di nuovo impreziosito dal lavoro dei due chitarristi, che poi lasciamo spazio a Val McCallum che torna per la solare e malinconica (sembra un contrasto insanabile, ma nelle canzoni della Williams non lo è) If There’s A Heaven, altro tassello della costruzione sonora di questo album che conferma, ribadisco, lo status di Lucinda Williams come una delle più grandi in assoluto nella musica che conta. Last but not least, come detto, troviamo i ritmi vagamente reggae-rock della lunghissima Faith And Grace che conclude in gloria un disco che si candida fin da ora tra i migliori del 2016! Esce venerdì 22 gennaio, in questi giorni è in tour in Europa, ma niente Italia.

Bruno Conti

Il Ritorno Dell “Aquila” Texana! Don Henley – Cass County

don henley cass county

Don Henley – Cass County – Capitol CD – Deluxe Edition

Don Henley, batterista, cantante e co-leader, insieme a Glenn Frey, degli Eagles, cioè una delle band più popolari del pianeta, da solista non è mai stato molto prolifico: solo cinque dischi (compreso l’ultimo) in 35 anni, cioè da quando le Aquile si sono separate (prima della reunion del 1994), e ben quindici anni lo separano dal precedente Inside Job. Di Cass County (titolo che deriva dal luogo da cui proviene Don, in Texas) si vociferava ormai da un paio d’anni, ed ora è finalmente disponibile in due versioni, normale con dodici brani e deluxe con sedici (che è quella di cui vado a parlarvi), e se Inside Job era un buon disco di rock californiano, qui indubbiamente siamo su un livello superiore.

 

La caratteristica principale di Cass County è di essere un disco di musica country, ma non country-rock alla maniera delle Aquile, proprio country classico: una serie di ballate perlopiù lente, dove dominano chitarre, piano e steel (oltre alla voce sempre bellissima di Henley), suonate, come si suole dire, in punta di dita, da un manipolo di veri e propri fuoriclasse, tra cui l’ex Heartbreaker Stan Lynch (che produce il disco e scrive con Don la maggior parte delle canzoni), Glenn Worf, Gregg Bissonette, l’ottimo chitarrista Steuart Smith (che nella live band degli Eagles ha preso il posto di Don Felder), Jerry Douglas, Greg Morrow e Dan Dugmore, mentre Don non suona nessuno strumento, neppure la batteria, occupandosi soltanto di cantare, riuscendoci piuttosto bene. Neppure gli Eagles avevano mai fatto un disco tutto di country, eppure Don non solo se la cava come il più consumato dei country singers, ma porta a termine un lavoro che si pone tra i più riusciti del genere in tutto il 2015: oltre alle canzoni una segnalazione la merita il suono, davvero scintillante, e, come ulteriore ciliegina, una quantità di ospiti d’onore veramente impressionante (che nominerò man mano), artisti che danno lustro ad un disco che però avrebbe retto benissimo anche senza di loro.

L’album parte con una cover di Tift Merritt, scelta sorprendente se consideriamo la statura di Henley rispetto alla pur brava musicista texana: Bramble Rose è una dolce country ballad, lenta e meditata, dall’ottimo impatto emotivo e nobilitata dalle voci (cantano una strofa a testa) di Miranda Lambert e soprattutto di sua maestà Mick Jagger (anche all’armonica), che con tutto il rispetto per Henley quando apre bocca fa salire la temperatura. The Cost Of Leaving vede la partecipazione di un’altra leggenda, cioè Merle Haggard, ma il brano, uno slow intenso e toccante, si regge sulle sue gambe, anche se Hag aggiunge carisma; No, Thank You, con la voce e la chitarra di Vince Gill, è invece un gustosissimo rockin’ country, elettrico e decisamente coinvolgente. Waiting Tables (con Jamey Johnson e Lee Ann Womack), è un perfetto country-rock di stampo californiano, un pezzo solare che più degli altri starebbe bene in un disco delle Aquile https://www.youtube.com/watch?v=9jNA5pLMjEs , mentre Take A Picture Of This è una ballata ad ampio respiro, con un deciso sapore sixties ed una melodia ben costruita. Too  Far Gone (scritta da Billy Sherrill e portata al successo da Lucille Starr), che vede ancora Johnson alle armonie, stavolta con Alison Krauss, è un puro honky-tonk d’altri tempi, con il piano in evidenza ed uno stile figlio di George Jones; That Old Flame (in duetto con Martina McBride) ha un ritmo pulsante ed un ottimo crescendo, un pezzo meno country e più rock, anche se torniamo subito in zona ballad con una cover bucolica e cristallina del classico di Jesse Winchester, The Brand New Tennessee Waltz, con Don che canta come sa e regala emozioni a palate.

Siamo appena a metà CD, ma il resto prosegue sullo stesso livello: Words Can Break Your Heart ospita Trisha Yearwood, ed il brano è una rock ballad solida e vibrante, subito seguita da When I Stop Dreaming, un classico dei Louvin Brothers, nel quale il nostro divide il microfono con Dolly Parton, e la canzone, un country che più classico non si può, è uno dei più riusciti del lavoro. L’intensa Praying For Rain è un chiaro esempio di songwriting maturo che trascende i generi, Too Much Pride è ancora honky-tonk deluxe, mentre She Sang Hymns Out Of Tune, una hit di Harry Nilsson scritta da Jesse Lee Kincaid, è uno scintillante valzerone texano che Don canta con l’ausilio di due terzi delle Dixie Chicks, cioè le sorelle Martie Maguire ed Emily Robison, dette anche Court Yard Hounds https://www.youtube.com/watch?v=4QHkhiWEUyg . Non avevamo ancora incontrato Lucinda Williams, ed ecco che la troviamo armonizzare con la sua caratteristica voce nella fluida Train In The Distance; l’album termina con la gentile A Younger Man, suonata e cantata con la consueta classe, e con Where I Am Now, elettrica e potente, in assoluto la più rock del disco. (NDM: esiste una versione del CD in esclusiva per la catena Target con due brani ancora in più, che però non ho ascoltato: It Doesn’t Matter To The Sun (con Stevie Nicks) https://www.youtube.com/watch?v=jKe7AusIgo4  e Here Comes Those Tears Again).

Stabilito quindi che Cass County è il miglior disco da solista di Don Henley, può essere giudicato il migliore solo album di un Eagle in assoluto? Direi di sì, anche se a dire il vero non ci voleva molto.

Marco Verdi

Cantautrice E Rocker Di Spessore. Romi Mayes – Devil On Both Shoulders

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Romi Mayes – Devil On Both Shoulders – Factor Records/Romi Mayes Music

Romi Mayes viene da Winnipeg, Canada (dove è molto popolare, anche a livello critico) e dopo un esordio poco considerato e ancor meno ascoltato, The Living Room Sessions Vol.1 (05) ( *NDB Per la verità, tra il 1997 e il 2004, ne erano usciti altri tre, ormai irreperibili!), sotto la produzione di Gurf Morlix incide un ottimo album di folk-roots Sweet Somethin’ Steady (08), con chiari riferimenti a Lucinda Williams (e non poteva essere altrimenti), trovando l’attenzione degli addetti ai lavori e una forte dimensione di cantautrice di “culto”, confermata poi con il seguente Achin In Yer Bones (09), un lavoro duro e sofferto (sempre prodotto da Morlix), con una miscela di brani blues, rock e country, che vengono certificati dal successivo Lucky Tonight (11), registrato in presa diretta dal vivo  http://discoclub.myblog.it/2011/06/30/ci-vuole-coraggio-romy-mayes-lucky-tonight/  con un gruppo elettrico guidato dal chitarrista Jay Nowicki (membro anche della rockin’ blues band The Perpetrators) dove Romi inizia un nuovo percorso, e dopo un silenzio abbastanza lungo eccola tornare con una band elettrica al completo per questo nuovo disco Devil On Both Shoulders, affidandosi alla produzione di Grant Siemens (degli Hurtin’ Albertans, che ammetto di non conoscere).

La Mayes ha riunito nei Private Ear Studios del suo paese natio una band tosta, con componenti di “glorie locali” tra i quali il citato Grant Siemens alle chitarre, Damon Mitchell alla batteria, Bernie Thiessen al basso, Marc Arnould alla tastiere, e con il contributo alle armonie vocali delle brave Alexa Dirks e Joanne Rodriguez, dando seguito al questo nuovo percorso con un lavoro assolutamente intrigante.

E lo si nota subito dall’iniziale title-track Devil On Both Shoulders, un moderno blues chitarristico, una canzone da cantare nelle notti d’estate lungo il delta del Mississippi, seguita dalle svisate sempre bluesy di una grintosa Monkey Of A Man, lo spettacolare impatto di Let You Down (figlia bastarda degli Stones) con i graffianti “riff” della Telecaster di Grant Siemens https://www.youtube.com/watch?v=co2iDJwEVtA , che fa da preludio ad una ballata che sembra sbucare dai solchi di un disco di Lucinda Williams, una Gonna Miss Me con la splendida voce di Romi in evidenza; troviamo ancora un tagliente blues come Bee Sting, dove il buon Grant si supera con un lavoro di chitarra degno del miglior Ry Cooder https://www.youtube.com/watch?v=JqhwaX0S8Mc. Con Soul Stealer Romi propone una variazione al tema, una sorta di “garage-blues” tutto scossoni e rasoiate di chitarra, mentre con Make Your Move si torna alla ballata confidenziale, prima di approdare ad una Low Light Lady con un ritmo che non sentivo dai tempi eroici della Tina Turner di quarant’anni fa e oltre https://www.youtube.com/watch?v=qDLJBB05BmE , quelli con Ike (anche se Beth Hart ultimamente…), mentre con Wonder How si torna al blues grezzo con violente sventagliate di roots-rock, andando a chiudere il cerchio con la meravigliosa ballad pianistica Walk Away (fin d’ora una delle canzoni dell’anno), cantata con grazia e la voce appena incrinata di Romi (forse troppe sigarette bruciate) https://www.youtube.com/watch?v=1vtJTz8Ar3Y , un brano che a chi scrive ricorda una cantante di cui purtroppo ho perso le tracce, tale Chi Coltrane.

Questa signorina, nella sua pur breve, ma non troppo, carriera, ha condiviso il palco con artisti del calibro di Levon Helm, Derek Trucks, Ricky Sgaggs, Jim Cuddy, Guy Clark, Sue Foley, Fred Eaglesmith, Joe Ely, Blackie & The Rodeo Kings, e molti altri, e questo Devil On Both Shoulders (per i pochi che conoscono la Mayes), nel seguire il suo percorso, è il classico disco che mi aspettavo, duro, sofferto, bluesy, ma anche dall’anima tenera, con alcune canzoni indimenticabili. Chiunque abbia a cuore i percorsi della buona musica, farebbe bene a tenere in considerazione Romi Mayes, il suo talento e la sua voce parlano per lei. Vivamente consigliato!

Tino Montanari