Anche Agli Extraterrestri Piace Il Rock & Roll! Jack The Radio – Creatures

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Jack The Radio – Creatures – Pretty Money CD

Non so quanti, soprattutto dalle nostre parti, si ricordino dei Jack The Radio, rock band proveniente da Raleigh (North Carolina), dal momento che il loro ultimo CD risale ormai ad un lustro fa. Eppure il quartetto guidato dal chitarrista-cantante-songwriter George Hage (con Danny Johnson alla chitarra solista, steel e tastiere, Dan Grinder al basso e Kevin Rader alla batteria) dal 2011 al 2015 si era fatto notare con quattro album di puro roots-rock made in USA, una miscela stimolante di rock’n’roll, country e folk che aveva loro permesso di farsi un nome se non altro a livello locale; poi, dopo Badlands del 2015, il silenzio (interrotto solo da un paio di singoli in streaming), un lungo periodo di cinque anni in cui i nostri hanno comunque continuato ad esibirsi dal vivo, oltre a mettere in commercio una loro personale marca di birra! Ora però i JTR tornano più pimpanti che mai con il loro nuovo lavoro Creatures, un vero progetto multimediale dato che in abbinamento esce anche un’antologia di fumetti che si rifanno alle storie di extraterrestri sci-fi degli anni cinquanta-sessanta, con i vari racconti ispirati dai titoli delle canzoni.

Ma a noi ciò che interessa di più è la parte musicale, e devo dire che Creatures è davvero un bel dischetto di rock’n’roll chitarristico, diretto e senza fronzoli, che rivela influenze che vanno dai Rolling Stones a John Mellencamp e nel quale anche le ballate sono eseguite con grinta ed un approccio elettrico. In più, data la provenienza di Hage e compagni, l’elemento sudista è molto presente nei vari brani, sia come suono che come stile di scrittura. Dopo una durissima introduzione di soli 42 secondi in stile quasi heavy metal si parte sul serio con Don’t Count Me Out, altra rock song ma più vicina al suono Americana, con la sezione ritmica che picchia sicura e le chitarre in tiro: il motivo centrale è fluido e coinvolgente ed il pezzo presenta i primi connotati southern. Trouble è una ballatona ariosa ma sempre di stampo elettrico, con la steel a stemperare la tensione e la doppia voce di Jeanne Jolly, mentre la partner femminile per i due brani seguenti è Tamisha Waden: il primo, Creatures, è una bella rock song dal ritmo cadenzato sullo stile di Gimme Shelter degli Stones (con la Waden a fare le veci di Lisa Fisher), a differenza di We’re Alright che è un rock-blues sanguigno e tosto, sempre con le chitarre che riffano che è un piacere.

Niente male anche Let’s Be Real, altra rock ballad distesa e piacevole ma senza tentazioni zuccherine (anzi, il tasso elettrico è sempre alto); Paint The Sky è di nuovo uno slow ma di qualità superiore, una canzone davvero bella e ricca di pathos che ricorda le ballate sudiste dei seventies, peccato duri solo tre minuti. Swimming With The Sharks è un godibile folk-rock elettrificato dalla melodia tersa, Getting Good è l’ennesimo lentaccio di ottima fattura stavolta sfiorato dal country e con l’aiuto vocale della brava Lydia Loveless https://discoclub.myblog.it/2016/08/21/lydia-loveless-real-country-punk-bene/ , mentre Hurricane è un notevole midtempo con dietro una slide malandrina, che mischia in egual misura southern music e Tom Petty. La tostissima Elevator arrota le chitarre allo spasimo ma forse è un gradino più in basso rispetto alle altre (sembrano gli ultimi Lynyrd Skynyrd quando fanno i metallari), meglio la ritmata Socks e soprattutto il puro rock’n’roll di In The Trees, tra le più coinvolgenti del CD.

L’ottima ballata d’atmosfera Secret Cities, un pezzo crepuscolare che risente dell’influenza di Springsteen, chiude in maniera intima un dischetto che ogni amante del rock’n’roll con implicazioni sudiste dovrebbe ascoltare, con l’unico fattore negativo al solito rappresentato dalla scarsa reperibilità.

Marco Verdi

Dal Punk Al Country Il Passo (Non) E’ Breve! Austin Lucas – Between The Moon & The Midwest

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Austin Lucas – Between The Moon & The Midwest – Last Chance CD

Austin Lucas è un musicista originario dell’Indiana che, solo recentemente, ha preso la strada del cantautorato country-roots-folk, dopo un passato discografico abbastanza caotico: attivo dagli anni novanta come bassista della indie band Twenty Third Chapter, Lucas è poi entrato a far parte come chitarrista e cantante solista prima dei Rune ed in seguito dei K10 Prospect (tutte band alternative e dal suono abbastanza lontano dai “nostri! gusti), e diventando anche il chitarrista di un gruppo della Repubblica Ceca, dove ha vissuto per qualche anno, i Guided Cradle, incarico che ricopre ancora oggi a tempo perso. Nel mezzo, Austin ha pubblicato anche diversi album da solo (ed uno in duo con Chuck Ragan http://discoclub.myblog.it/2016/02/27/colonna-sonora-oscar-videogioco-anche-bel-live-chuck-ragan/ ) dal carattere piuttosto rock, quasi punk, anche se si intravedevano già quegli elementi più bucolici e folk che, a partire da A New Home In The Old World del 2011, ma più incisivamente in Stay Reckless del 2013, cominciano a diventare il suo pane quotidiano.

Between The Moon & The Midwest (gran bel titolo) è la naturale prosecuzione del discorso, ma direi senza paura di essere smentito che in questo lavoro Lucas ha trovato un equilibrio quasi perfetto tra un country decisamente robusto ed ispirato in parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens ed in parte dal movimento Outlaw degli anni settanta, ed un gusto più folk-pop con influenze “cosmiche” (Flying Burrito Brothers e Gram Parsons solista), consegnandoci un disco che non esito a definire sorprendente, e che per certi versi accomuno all’ultimo Sturgill Simpson http://discoclub.myblog.it/2016/04/23/il-classico-disco-che-ti-aspetti-caso-del-complimento-sturgill-simpson-sailors-guide-to-earth/ , anche se qui la componente country è decisamente maggiore. Le dieci canzoni dell’album, prodotte da Lucas stesso con Joey Kneiser (altro artista indipendente), vedono Austin accompagnato da un numero non molto elevato di sessionmen, tra cui spiccano Ricky White alle chitarre elettriche, Steve Daly alla steel, Alex Mann al basso e Aaron Persinger alla batteria, oltre ad ospiti di un certo nome alle armonie vocali, come John Moreland, Lydia Loveless e Cory Branan. L’inizio di Unbroken Hearts (il cui testo contiene la frase del titolo dell’album) è quasi distorto, poi il brano si normalizza e diventa un godibilissimo country & western elettrico e ritmato, con chiari riferimenti agli Outlaws, soprattutto Waylon. Ancora più diretta e gradevole Ain’t We Free, un uptempo fluido e scorrevole, con Austin che mostra di avere la voce perfetta per questo tipo di musica; Kristie Rae è una delicata folk song acustica (ma poi entra la sezione ritmica ed il tempo si velocizza nettamente) che personalmente mi ricorda tantissimo uno come Greg Trooper, sia nella voce che nello stile.

Bella anche Wrong Side Of The Dream, una country song classica e con rimandi ai primi anni settanta, l’epoca d’oro di un certo tipo di musica, e con la doppia voce della Loveless che aggiunge elementi preziosi al pezzo, uno dei più belli del disco; Lucas è una bella sorpresa, e lo conferma con i brani successivi, come la splendida Pray For Rain, uno slow che non si sposta idealmente dalla decade menzionata prima (i seventies), con suggestivi rintocchi di pianoforte ed una melodia centrale davvero affascinante. The Flame inizia in maniera un po’ inquietante, poi si tramuta in un country’n’roll spedito e trascinante, un’altra gemma che si aggiunge ad una collana sempre più preziosa; Next To You è crepuscolare, notturna, quasi attendista, ma è anche una delle più emozionanti (e qua la voce sta quasi dalle parti di Cat Stevens), mentre la diretta Call The Doctor è un energico western tune elettrico. Il CD, ripeto, davvero sorprendente e riuscito, termina con la vibrante William, solo voce e chitarra ma con una montagna di feeling, e con Midnight, altro lento dalla struttura acustica ma con la steel sullo sfondo a dare una nota di malinconia, ed un accompagnamento che ancora sembra uscire da un disco di quaranta anni fa.

Forse solo in America uno può fare un disco di questo livello dopo aver passato anni a suonare tutt’altra  musica: Austin Lucas è un nome da segnarsi sul taccuino, o sull’agenda elettronica se siete dei tipi digitali.

Marco Verdi

Lydia Loveless – Real. Non Solo Country-Punk, E’ Un Bene?

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Lydia Loveless – Real – Bloodshot/Ird

La giovane cantante dell’Ohio Lydia Loveless (26 anni il 4 settembre) approda al terzo album per la Bloodshot (più un Mini e un disco pubblicato nel 2010, ma registrato anni prima e poi tenuto in sospeso per parecchio tempo) e rispetto al country-punk, all’honky-tonk e all’alternative country dei dischi precedenti, Somewhere Else del 2014 e Indestructible Machine http://discoclub.myblog.it/2011/09/13/giovani-talenti-lydia-loveless-indestructible-machine/, c’è una maggiore svolta verso un pop-rock più morbido, meditato e bene arrangiato, anche se, come dice lei stessa nella presentazione di questo Real, i suoi testi sono sempre “onesti, veri e reali” https://www.youtube.com/watch?v=OuoYv56HVpA (e questa volta dopo Steve Earle Chris Isaak, niente “omaggi” ad altri cantanti).Il produttore è pur sempre lo stesso dei dischi precedenti, il fedele Joe Viers, i musicisti  in gran parte anche, compreso il bassista Ben Lamb, ed essendo il marito si comprende pure. La voce rimane pimpante, calda ed espressiva, uno degli aspetti migliori della sua musica, anche le chitarre sono presenti in modo massiccio, però quasi tutti i musicisti utilizzati nell’album sono accreditati pure con l’uso delle tastiere, al posto del violino e del banjo del passato, creando in parte una impressione più levigata, patinata (il termine inglese slick rende bene l’idea) e anche se il disco ha avuto ottime critiche, fin ad ora una media dell’otto, o se preferite quattro stellette, si ha come l’impressione che questa svolta pop e radiofonica non sia più così aderente ai suoi infuocati e selvaggi concerti https://www.youtube.com/watch?v=0rkd4ou8v8M , dove la Loveless spesso si presenta come una vera forza della natura (a questo proposito esiste un bellissimo recente documentario su di lei, Who Is Lydia Loveless?) https://www.youtube.com/watch?v=D1aIaHL38A8 .

Potrebbe essere, ma non credo, che la sua passione per cantanti come Kesha, Katy Perry e Prince (?!?), dei quali Lydia ha eseguito (ed anche inciso) cover dei loro pezzi, abbia un po’ annacquato la sua grinta o forse per rimanere nell’industria discografica, sia pure quella indipendente rappresentata dalla Bloodshot, si richiede qualche compromesso. Sta di fatto che questo album mi sembra ripercorra, se non nelle voci quantomeno nell’approccio, le strade di Maria McKee, selvaggia e senza compromessi all’inizio, nei primi Lone Justice, o della Chrissie Hynde dei Pretenders, rispetto alle loro versioni successive più “leggere” e pop(olari). Magari è una semplice evoluzione naturale della sua musica, più matura e meno ruspante. Il disco al sottoscritto non dispiace per niente, ma rimpiango ogni tanto quelle belle schitarrate ed esplosioni di energia che caratterizzavano le prove precedenti, magari sarà solo un disco interlocutorio e in ogni caso, nell’ambito pop a cui appartiene, è sicuramente nettamente superiore alla media dei prodotti equivalenti. Canzoni come l’iniziale Same To You, una bella combinazione di chitarre twangy e pedal steel, un ritmo incalzante e la bella voce, sicura e dal timbro ricco e variegato, di una che conosce come trattare la materia rock, costituiscono un buon esempio del nuovo sound più radio-friendly, diverso dal passato ma comunque sempre valido, basta abituarcisi; Longer, con qualche tocco di tastiere in più, ha comunque un bel riff R&R, interessanti intrecci di chitarre cristallini e incantevoli armonie vocali per una incalzante costruzione sonora, in aria di 70’s rock https://www.youtube.com/watch?v=Pr4RZNDIJik . More Than Ever è una delicata mid-tempo ballad,dalla seducente melodia, con il suono delle Rickenbacker ad evocare quello della conterranea Chrissie Hynde, mentre Heaven, scritta con il chitarrista Todd May (che, in riferimento al brano precedente, ha pubblicato un disco che si chiama Rickenbacker Girls) è basata su un “grasso” ed insistente giro funky del basso e potrebbe ricordare la Stevie Nicks meno romantica e più carnale, altro riferimento ricorrente, pure in passato, delle influenze vocali di Lydia Loveless.

Anche Out On Love rimane in questo ambiente sonoro vicino ai Fleetwood Mac, di nuovo una ballata romantica, con la voce in primo piano e raffinati tocchi di chitarra e tastiere, ma niente ritmica, ad avvolgere il cantato https://www.youtube.com/watch?v=r8-Pl7u1wyM . Midwestern Guys è un’altra gagliarda canzone di impianto pop-rock, che quello che parzialmente perde in grinta acquista in un raffinato arrangiamento, dove la voce è comunque sempre la trave portante della costruzione sonora. Bilbao vira verso un alternative-indie-rock piacevole, forse troppo già sentito e manieristico, magari poco incisivo, con Europeans che è probabilmente la canzone che più si avvicina al classico rock’n’country degli album precedenti, con acustiche ed elettriche che si intrecciano piacevolmente sul cantato sempre gradevole ed in questo caso decisamente partecipe della nostra amica. Non manca il momento acustico della dolce Clumps, dove la voce è più vulnerabile e meno assertiva, per quanto sempre affascinante  https://www.youtube.com/watch?v=eraIC6hoYrw. La conclusione è affidata alla bella title-track Real, di nuovo affidata al cristallino e rintoccante suono delle chitarre e della pedal steel di Jay Gasper, altro perfetto esempio di “pure pop for now people” come direbbe Nick Lowe https://www.youtube.com/watch?v=Cmvr4sdoqOA , Vedremo cosa porterà il futuro, il talento c’è, le canzoni richiedono qualche ritocco qui e là, ma più o meno ci siamo.

Bruno Conti 

Giovani Talenti. Lydia Loveless – Indestructible Machine

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Lydia Loveless – Indestructible Machine – Bloodshot/Ird

Quando mi hanno dato il “promo” di questo CD da ascoltare la prima cosa che mi aveva incuriosito era sapere se fosse parente o meno della più famosa Patty. Appurato che Lydia Loveless, nativa di Coshocton, una piccola località vicino a Columbus, Ohio, non ha nessun legame di parentela con la citata Patty, mi sono detto già che ci sono diamogli una ascoltata. E questo Indestructible Machine si è rivelato una gradevole sorpresa. La nostra amica, come si vede dalla foto, è giovanissima, 21 anni compiuti da poco, ma ha già la grinta e la classe di una veterana. Dotata di una pimpante e squillante voce e di un repertorio che come per molti colleghi alla Bloodshot mischia country e punk, “roots” e tradizione a sonorità rock, la giovane Loveless è stata definita da molti giornali e riviste (americani, qui ancora non pervenuta) come un incrocio tra Neko Case ed Exene Cervenka, una novella Shane MacGowan al femminile, con abbondanti spruzzate di Loretta Lynn e Jeannie C. Riley. Lei cita tra le sue influenze giovanili (cioè di ieri) Charles Bukowksi, Richard Hell e Hank Williams III (ma anche il nonno fa capolino tra le pieghe).

Confermo tutto ma, se devo essere sincero, il primo nome che ho pensato mentre ascoltavo il brano di apertura Bad Way To Go è stato quello di Maria Mckee e dei suoi Lone Justice ad inizio carriera (che fine ha fatto? E’ un po’ che tace). Con i dovuti aggiustamenti da allora ad oggi, ma la grinta nella voce, l’abilità, condivisa con i suoi musicisti, nel miscelare un banjo tipicamente country a velocita supersonica a delle chitarre elettriche sferraglianti come nemmeno Jason and Scorchers ai tempi d’oro, fanno del brano iniziale un viatico per un viaggio divertente tra le pieghe di un country-punk-rock di grande impatto.

Can’t Change Me con il suo riff alla London Calling e la voce sicura e matura di una cantante di grande appeal è persino meglio e le chitarre elettriche ruggiscono con il giusto abbandono del rock di qualità. More Like Them è power pop rock and roll irresistibile con le chitarre, elettriche e pedal steel, ancora sugli scudi e quella voce fantastica a narrare la solita storia dell’outsider come neppure Willie Nile avrebbe saputo fare in modo migliore.

Dopo un inizio così scoppiettante Lydia Loveless lascia spazio anche alla sua anima più country e How Many Women è una stupenda ballata con una seconda voce maschile e un violino insinuante nel corpo della canzone con un contrabbasso che si insinua tra le pieghe del ritmo, e la voce sempre magnetica. Il suo sestetto con Todd May alla chitarra solista, il banjo di Rob Woodruff, la pedal steel di Barry Hensley, il violino di Adrian Jusdanis, il basso slappato di Ben Lamb, e papà Parker Chandler alla batteria ha una perfetta conoscenza della materia e un brano come Jesus Was A Wino avrebbe fatto felice la giovane Emmylou Harris. Poi racconta anche storie divertenti come Steve Earle, titolo della canzone, giuro! Le avventure del “damerino” del paese a tempo di honky tonk, quello che insidia le ragazze, autonominatosi “lo Steve Earle di Columbus”. E anche magnifiche canzoni cantate a piena voce come Learn to say no con un ritornello che ti si insinua nel cervello e non se ne vuole andare, marchio della buona qualità.

I brani sono “solo” nove e quindi ci avviamo alla conclusione ma non prima di avere ascoltato Do Right un’altra scatenata sarabanda country-punk a velocità supersonica, pensate ai Pogues se avessero vissuto in America. Conclude Crazy, un’altra bellissima canzone che sembra incredibile provenga da una ragazza di soli 21 anni, se nella sua prossima carriera vorrà dedicarsi alla musica folk, questo brano accompagnato solo da chitarra acustica e violino è un punto di partenza magnifico. Ma attenzione, questa ragazza, a 19 anni, aveva già pubblicato un album (non so quanto reperibile), The Only Man per la Peloton Records da cui è tratta questa Back On the Bottle che ascoltate qui sotto.

Lydia Loveless, appuntatevi questo nome perché se ne parlerà nei prossimi mesi. Il mensile inglese Uncut (non ho ancora letto il nuovo numero) le ha dato quattro meritatissime stellette. Approvo!

Bruno Conti