50 Anni Non Li Dimostrano Affatto: Il Disco Folk Dell’Anno? Steeleye Span – Est’d 1969

steeleye span est'd 1969

Steeleye Span – Est’d 1969 – Park CD

Ed anche gli Steeleye Span, storico gruppo che insieme a Fairport Convention e Pentangle forma una ideale triade di band cardini del folk-rock inglese (a mio giudizio la pur ottima Albion Band è un gradino sotto), sono arrivati a celebrare i 50 anni di attività, essendosi formati nel 1969 su iniziativa del “Governatore” Ashley Hutchings. Ma a differenza dei Fairport, che a partire dal 25° anniversario hanno festeggiato ogni lustro in pompa magna, gli Span si sono limitati a fare quello che hanno sempre fatto, cioè incidere nuova musica e pubblicare un nuovo album (il loro 23° in studio), che limita al titolo, Est’d 1969, il riferimento alla ricorrenza in questione (*NDB Almeno il 40° Anniversario lo avevano festeggiato https://discoclub.myblog.it/2010/06/24/40-anni-e-non-sentirli-steeleye-span-live-at-a-distance/). Dopo anni di album di buon valore ma in cui prevaleva il mestiere rispetto a tutto il resto, le presente decade ha visto un ritorno dei nostri ad uno stato di forma invidiabile, prima con l’ottimo Wintersmith (2013, il loro disco più venduto dal 1976) e poi con l’ancora relativamente recente Dodgy Bastards di due anni e mezzo fa, un lavoro molto valido che vedeva un gruppo in palla ed alle prese con una serie di canzoni suonate con invidiabile grinta https://discoclub.myblog.it/2017/03/23/tra-folk-e-rock-una-storica-band-britannica-sempre-in-gran-forma-steeleye-span-dodgy-bastards/ .

Ma con questo Est’d 1969 andiamo aldilà di ogni più rosea previsione, in quanto i nostri ci hanno consegnato un disco di una bellezza sorprendente, nove canzoni ispiratissime ed eseguite da una band in stato di grazia: sarà stato l’anniversario, ma non esagero se dico che sembra di essere tornati agli anni settanta, e non ho paura di eleggere questo disco come il più bello uscito finora in ambito folk nel 2019. L’unica componente del nucleo originale è come saprete Maddy Prior, grande cantante e superba interprete, mentre l’altro membro con la più lunga militanza è il batterista Liam Genokey, in quanto l’ex marito della Prior Rick Kemp ha lasciato il gruppo (per la seconda volta) all’indomani delle sessions di Dodgy Bastards: gli altri componenti attuali sono Julian Littman, chitarra, tastiere e voce solista maschile, Andrey Sinclair, chitarra, Benji Kickpatrick (figlio di John), bouzouki, mandolino, banjo e chitarra, Jessica May Smart, violino, e Roger Carey al basso. Come di consueto, gli Span prendono brani della tradizione britannica e anche Child Ballads e le adattano al loro stile, ed in questo album arrotondano il tutto con un paio di brani di origine più recente. Est’d 1969 si apre con Harvest, un brano che non posso che definire splendido, un folk-rock elettrico dalla melodia emozionante e con un refrain corale dai toni epici, un pezzo tra modernità e tradizione che riesce a coinvolgere al massimo sin dalle prime note: dopo quattro minuti il brano cambia (in effetti è una sorta di medley tra due canzoni diverse) e si trasforma in un’altra fantastica folk song dalla maggiore vena rock ma con lo stesso livello di eccellenza. Sette minuti e mezzo di puro godimento, un pezzo che da solo vale l’album (e siamo solo all’inizio).

Old Matron è una folk ballad dal sapore antico, con accompagnamento potente in cui mandolino e violino vengono suonati con grinta da rock band, ed in più abbiamo la partecipazione del flauto di Ian Anderson (che in passato aveva già collaborato con gli Span, producendo Now We Are Six), che avvicina inevitabilmente il pezzo allo stile dei Jethro Tull di album come Songs From The Wood. The January Man è una canzone scritta da Dave Goulder ed incisa in passato anche da Christy Moore (ma la versione dei nostri è ispirata a quella che un giovane Tim Hart, altro loro ex membro fondatore, usava suonare nei folk club ad inizio carriera): l’incedere è drammatico ed il passo è cadenzato e quasi marziale, con il banjo a scandire il tempo ed un ottimo e pertinente intervento di chitarra elettrica, e con la voce vissuta della Prior ad aggiungere pathos. Decisamente bella anche The Boy And The Mantle, altro lungo ed epico brano impreziosito da un motivo corale splendido, e con il suono arricchito dal delizioso clavicembalo di Sophie Yates che dona al tutto un sapore “rinascimentale”; a seguire troviamo Mackerel Of The Sea, che forse ha un suono più addomesticato ma è nobilitata dalla solita impeccabile prestazione vocale di Maddy (e poi l’atmosfera è anche qui di grande presa emotiva), mentre Cruel Ship’s Carpenter è nettamente più rock delle precedenti, una ballata elettrica che unisce una bellezza cristallina ad un approccio vigoroso, e presenta l’ennesima linea melodica notevole.

La saltellante Domestic è di nuovo uno strepitoso e trascinante folk-rock eseguito in maniera superba, ancora con un cambio di ritmo a metà canzone ed un finale decisamente rock. Il CD si chiude con la lenta Roadways, forse il brano più “mainstream” ma suonato comunque con indubbia classe, e con la breve ma toccante e suggestiva Reclaimed (scritta da Rose-Ellen Kemp, figlia di Kemp e della Prior), cantata interamente a cappella. Buon compleanno quindi agli Steeleye Span, anche se questa volta il regalo lo hanno fatto loro a noi.

Marco Verdi

Gli Inizi Di Una Delle Band Fondamentali Del Folk-Rock Britannico. Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71

Steeleye Span box 1970-1971 All tings are quiet

Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71 – Cherry Tree/Cherry Red 3CD Box Set

Nonostante i Fairport Convention nel 1969 avessero raggiunto l’apice della loro carriera con il capolavoro Liege & Lief, il bassista e membro fondatore del gruppo Ashley Hutchings non era del tutto soddisfatto della direzione intrapresa, e quindi se ne andò per cercare di sviluppare un discorso più legato alla tradizione (anche Sandy Denny lasciò la band nello stesso periodo, ma questa è un’altra storia). Hutchings così si unì a Tim Hart e Maddy Prior, che erano già un affermato duo nei circuiti folk, e completò il nuovo quintetto con i coniugi Terry e Gay Woods, chiamando la nuova creatura Steeleye Span, proprio per riuscire a suonare quel tipo di musica che con i Fairport non riusciva più a fare, e cioè prendendo canzoni dallo sterminato songbook tradizionale inglese e scozzese (incluse molte delle cosiddette “Child Ballads”), e rivestendole con un arrangiamento che strizzava l’occhio a sonorità rock, con grande uso quindi di chitarre elettriche ed una sezione ritmica sempre presente: il risultato furono tre album di grande bellezza, dei quali almeno i primi due (Hark! The Village Wait e Please To See The King) sono considerati dei classici del folk-rock inglese. Oggi la Cherry Red riunisce quei tre album in questo bel boxettino intitolato All Things Are Quite Silent, corredato da un esauriente libretto con interessanti liner notes biografiche a cura di David Wells: i tre dischetti sono presentati così come sono usciti all’epoca, senza bonus tracks, con l’eccezione del terzo (Ten Man Mop, Or Mr. Reservoir Butler Rides Again, bel titolo corto e facilmente memorizzabile) che offre quattro tracce in più già uscite su una precedente ristampa del 2006. E’ chiaro che se già possedete questi album l’acquisto è superfluo, ma se viceversa conoscete gli Span più “commerciali” degli anni settanta (o non li conoscete affatto) direi che il box in questione diventa quasi indispensabile. Ma veniamo ad una disamina dettagliata dei tre album.

Hark! The Village Wait (1970). Inizio col botto da parte del gruppo, che aveva la particolarità all’epoca unica di presentare due voci soliste femminili: qui la line-up è completata da due batteristi che si alternano, entrambi con i Fairport nel destino, e cioè Dave Mattacks e Gerry Conway. I dodici brani presenti sono tutti tradizionali, con le eccezioni dell’introduttiva A Calling-On Song, un coro a cappella a cui partecipano tutti i componenti del gruppo, e l’intensa ballata che presta il titolo a questo box triplo, che ha comunque uno stile tipico delle canzoni di secoli prima. Il resto, come già detto, sono bellissime interpretazioni del songbook della tradizione britannica, a partire da una emozionante The Blacksmith, con la squillante voce della Prior a dominare ed un arrangiamento folk elettrificato, per proseguire con la drammatica Fisherman’s Wife, che vede il banjo cadenzare il tempo insieme alla sezione ritmica, Blackleg Miner, che fonde una melodia tipicamente British folk con un accompagnamento quasi “americano”, o Dark-Eyed Sailor, splendida e rockeggiante ballata dal motivo delizioso. Altri highlights di un disco comunque senza sbavature sono la squisita The Hills Of Greenmore, folk-rock di notevole impatto con un eccellente background sonoro per chitarre elettriche e concertina, la strepitosa Lowlands Of Holland, sei minuti di sontuoso folk elettrico dalla bella introduzione chitarristica, e la corale Twa Corbies (conosciuta anche come The Three Ravens), ricca di pathos.

Please To See The King (1971). Al secondo album la line-up cambia, in quanto le crescenti tensioni tra il duo Hart-Prior da una parte ed i coniugi Woods dall’altra, porta questi ultimi a lasciare la band, rimpiazzati dal grande cantante e chitarrista Martin Carthy, già molto conosciuto, e dal bravissimo violinista Peter Knight, che diventerà una colonna portante del suono degli Span. Please To See The King rinuncia alla batteria (come anche il suo successore), ma nonostante tutto preme ancora di più l’acceleratore su sonorità elettriche, diventando così l’album più popolare tra i tre, con versioni scintillanti di Cold Haily Windy Night, Prince Charlie Stuart, False Knight On The Road, Lovely On The Water (magnifica dal punto di vista strumentale), oltre ad una roboante Female Drummer, con la voce cristallina della Prior accompagnata in maniera pressante da violino e chitarra elettrica. Troviamo poi una diversa ripresa di The Blacksmith dal primo album, con Maddy circondata dalle chitarre e con un suggestivo coro, la bella giga strumentale Bryan O’Lynn/The Hag With The Money ed una versione di un pezzo che era già un classico per i Fairport, cioè The Lark In The Morning, molto più lenta e cantata anziché solo strumentale.

Ten Man Mop Or Mr. Reservoir Butles Rides Again (1971). Terzo ed ultimo lavoro con Hutchings alla guida del gruppo, questo album è meno cupo e più fruibile del precedente, anche se non allo stesso livello artistico (ma ci si avvicina molto), e “sconfina” fino a spingersi anche in Irlanda, cosa che non piacerà molto ad Ashley che, da buon purista, avrebbe voluto solo ballate di origine britannica. Ci sono due strepitosi medley strumentali, Paddy Clancey’s Jig/Willie Clancy’s Fancy e Dowd’s Favourite/£10 Float/The Morning Dew, ed altre ottime cose come la lunga Gower Wassail, con la voce solista declamatoria di Hart ed un bel coro alle spalle, la saltellante Four Nights Drunk, per sola voce (Carthy) e violino, con l’aggiunta della chitarra acustica nel finale, un’emozionante When I Was On Horseback, da brividi, la pimpante Marrowbones, che sembra quasi un canto marinaresco, e la vibrante Captain Coulston, tra le più intense dei tre dischetti. Come bonus abbiamo l’outtake General Taylor, un brano a cappella caratterizzato da eccellenti armonie vocali, e ben tre versioni del classico di Buddy Holly Rave On (anch’esse senza accompagnamento strumentale), la prima delle quali era uscita all’epoca solo su singolo. Dopo questo terzo album gli Span cambieranno manager, ingaggiando Jo Lustig che però vorrà spostare le sonorità del gruppo verso lidi più commerciali, cosa che causerà l’abbandono da parte di Hutchings (che fonderà la Albion Band) e Carthy, ma che aprirà nuovi orizzonti con album di grande successo come Parcel Of Rogues, Now We Are Six e All Around My Hat, lavori comunque molto belli che inaugureranno un nuovo capitolo di una storia che continua ancora oggi.

Marco Verdi

“Strano” Nome A Parte, In Pratica Sono I Decemberists Più Olivia Chaney Che Reinventano Il Folk-Rock Britannico! Offa Rex – The Queen Of Hearts

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Offa Rex – The Queen Of Hearts – Nonesuch/Warner

In effetti un po’ il nome “misterioso” della formazione rimanda a quei gruppi storici che hanno fatto la storia del folk-rock britannico, e ai quali la band si ispira: i Fairport Convention, gli Steeleye Span, l’Albion Band, tutte formazioni in cui una voce femminile guidava un organico che era impegnato a fondere il folk tradizionale delle Isole Britanniche con il rock (e qualche traccia, più o meno percepibile, della psichedelia che imperava in quegli anni oltre oceano, nella West Coast e altrove), con creatività ma anche amore per le radici della musica popolare, e, diciamolo, una buona dose di talento nei suoi praticanti. Forse non a caso tutti questi gruppi sono stati fondati ai tempi da Ashley Hutchings, vero “genio” del folk e dell’electric folk inglese. Nel caso dei Decemberists, e nello specifico il loro leader Colin Meloy, da sempre estimatore di questo filone musicale (oltre che del rock progressivo, sempre inglese, quello più complesso) che si è professato un fan di Olivia Chaney, sin dalla pubblicazione del primo album per la Nonesuch della cantante, The Longest River, pubblicato nel 2015 (e di cui vi avevo parlato in un post doppio ad inizio 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/01/04/recuperi-sorprese-inizio-anno-4-due-voci-femminili-scoprire-olivia-chaney-joan-shelley/ ): come racconta lei stessa, prima Meloy l’aveva contattata via Twitter esprimendo la sua ammirazione per quel album, invitandola ad andare in un tour americano con i Decemberists, e poi durante quella serie di concerti le ha proposto, con una frase che lascio volutamente in inglese, perché rende perfettamente l’idea:  ‘Have you ever thought of having a backing group? We’ll be your Albion Dance Band.'”!

Nel link del Post indicato sopra, potete trovare tutte le informazioni sulla Chaney, dei Decemberists ci siamo occupati spesso e volentieri sul Blog, basta usare la funzione ricerca e li trovate, per cui proseguiamo a vedere come è andata a finire la vicenda: intanto, per curiosità, Offa è stato un celebre Re di Mercia, un regno dell’antica Inghilterra, tra il 757 e il 796 Anno Domini, e se volete conoscerne la storia digitate in rete Offa di Mercia, ma visto che noi ci occupiamo di musica, la divulgazione culturale la lasciamo ad altri. Si diceva della proposta di Meloy, che è diventata una realtà, portando Olivia a Portland, Oregon, nella tana del leone, negli studi di Tucker Martine, per vedere cosa poteva scaturire dall’incontro tra i musicisti americani e una vera praticante del folk britannico (per quanto anche con le influenze americane citate nella recensione): insomma Sandy Denny Maddy Prior (ma anche Anne Briggs), vanno a braccetto con Joni Mitchell Natalie Merchant, nella splendida voce della Chaney, mentre i Decemberists provvedono a “ri-aggiornare” questo stile musicale, che comunque vanta ancora molti dei precursori originali in attività, e penso, oltre alla Prior e Hutchings a Richard Linda Thompson, ed altri che ricorderemo strada facendo.  Intanto lo fa andando a pescare nello stesso bacino tradizionale inglese-irlandese-scozzese da cui avevano attinto le prime band britanniche, a cavallo della fine anni ’60, primi anni ’70. Anche se la storia del disco non è solo questa: intanto agli arrangiamenti di The Queen Of Hearts ha contribuito la stessa Chaney, che nell’album, oltre a cantare con voce angelica suona pure clavicembalo elettrico, harmonium, piano, chitarra acustica e dobro, mentre Colin Meloy oltre ad essere un altro degli arrangiatori (con il resto della band) e co-produttore con Martine, suona tutti i tipi di chitarra, elettrica, classica, 12 corde ed  acustica, e, forse non è ancora stato detto, anche se si intuiva, il CD è veramente brillante e di grande qualità.

Per completare aggiungiamo che nel disco suonano pure Chris Funk, anche a lui a chitarra, mandolino, autoharp e hammered dulcimer, Nate Queery al basso, Jenny Conlee, piano elettrico Fender Rhodes, organo e fisarmonica, Jon Moen, batteria e percussioni, più Anna Fritz al cello, Ralph Carney a clarinetto e fiati, Mirabai Peart alla viola e Steve Drizos alle congas. A tratti si percepisce anche il sound abituale della band americana, specie nei brani più elettrici, ma il folk-rock (psichedelico o tradizionale) è all’ordine del giorno. Prendiamo il brano di apertura, la title track Queen Of Hearts, introdotta dal clavicembalo elettrico della Chaney poi si sviluppa in una cavalcata elettrica che sembra scaturire da Liege And Lief dei Fairport, con chitarre elettriche psych a duettare con la voce eterea e sognante di Olivia, in un pezzo dove qualcuno ha intravisto persino analogie con le prime Heart, quelle più bucoliche di inizio carriera di Dreamboat Annie. Blackleg Miner, cantata da Meloy (con Olivia poi alla seconda voce), ricorda moltissimo la versione degli Steeleye Span dal loro debutto Hark! The Village Wait, con un mandolino a guidare la melodia, mentre la versione di un altro traditional come The Gardener è direi splendida, una ballata, o “aria”, se preferite la terminologia folk, ricorda moltissimo appunto quelle ballate soffuse ed intense in cui Sandy Denny era maestra, e anche se la Chaney forse non raggiunge i vertici vocali della Sandy ci si avvicina moltissimo, con tutti i musicisti perfetti ai loro strumenti, dalla chitarra elettrica alla viola, alle tastiere, alla sezione ritmica discreta, ma comunque presente, veramente un ottimo brano. The First Time I Ever Saw Your Face è un brano celeberrimo di Ewan MacColl, un altro dei padri fondatori del revival del British folk (ha scritto anche Dirty Old Town), canzone famosa anche nella versione molto bella e quasi soft-soul di Roberta Flack, qui riacquista la sua dimensione tradizionale in un mood sonoro guidato dall’harmonium che rimanda al sound dell’Albion Dance Band a guida Shirley Collins, anche se la voce ricorda nuovamente sia la Denny che Natalie Merchant, quando affronta le canzoni folk.

Flash Company se non ricordo male dovrebbero averla cantata sia Norma Waterson (nel disco di famiglia Waterson:Carthy) che June Tabor, altre due delle grandi icone del folk inglese tuttora in attività, altra deliziosa ballata sulle ali di una chitarra elettrica e di un violino (o è una viola?) che rimanda alle più belle canzoni dei Fairport Convention di Richard Thompson e Sandy Denny, la voce, credo raddoppiata, di Olivia in questo pezzo è evocativa come raramente è dato sentire ai giorni nostri. The Old Churchyard uno dei brani più pastorali viceversa ricorda nuovamente gli Steeleye Span di Maddy Prior, anche vocalmente, tra intrecci di chitarra elettrica, tastiere, viola e harmonium, su cui svetta nuovamente la voce cristallina della Chaney. Constant Billy (Oddington) / I’ll Go Enlist (Sherborne) è un breve e coinvolgente strumentale, con la fisarmonica della Conlee a guidare letteralmente le danze, in un brano che rimanda moltissimo ai progetti più tradizionali di Hutchings nelle varie versione della Albion Band. Altro grande brano, uno dei più belli del disco è Willie o’ Wisnbury, che si ricorda in decine di versioni, forse le più famose quelle di Dick Gaughan, dei Pentangle e degli Sweeney’s Man (tra gli “antenati” dei Planxty): la rilettura degli Offa Rex, di oltre sette minuti, è un’altra di quelle canzoni dove si apprezza a fondo l’angelica voce della Chaney, ma anche la maestria del gruppo nel ricreare con pochi tocchi le malinconiche e suadenti atmosfere tipiche del miglior folk britannico. Poi replicate nelle note scandite e quasi marziali di Bonny May, altro brano legato a June Tabor, ancora pezzo corale di grande livello ed intensità. Ci avviciniamo alla fine con Sheepcrook and Black Dog, un altro dei brani più elettrici di questo CD, dove prevale l’anima più rock e psych, quasi sperimentale, del gruppo, con sciabolate di chitarre elettriche, la voce stranamente lavorata e grintosa e quell’aria tipica delle storie popolari, tra fato e disgrazie varie che si intrecciano nel racconto della canzone. L’ultimo brano viene pure dal songbook della famiglia Waterson, Lal nello specifico è l’autore di To Make You Stay, altra evocativa e sospesa ballata elettrica affidata ala voce di Colin Meloy (sempre con la doppia voce della Chaney), con chitarra acustica e pianoforte che creano altre magie sonore, orientali a tratti, che portano ad una degna conclusione questo splendido album.

Altamente consigliato, tra i migliori dischi del 2017 fino ad ora.

Bruno Conti

Tra Folk E Rock, Una Storica Band Britannica Sempre In Gran Forma! Steeleye Span – Dodgy Bastards

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Steeleye Span – Dodgy Bastards – Park CD

Il vulcanico bassista Ashley Hutchings, una delle figure più carismatiche del folk britannico degli ultimi cinquanta anni, detiene l’imbattibile record di essere stato membro fondatore di ben tre delle quattro band cardine del genere folk-rock inglese (l’unica con la quale non c’entrava niente erano i Pentangle), per poi abbandonarle tutte quante: i Fairport Convention sono di sicuro la più celebre tra queste, un vero e proprio dream team (con gente come Richard Thompson, Sandy Denny e Dave Swarbrick al suo interno non mi viene un altro termine per definirla) che però abbandonò dopo il capolavoro Liege & Lief per creare gli Steeleye Span, che lasciò a loro volta nei primi anni settanta per fondare la Albion Band. Parlando nel dettaglio di quanto successo con gli Span, Hutchings non era d’accordo di dare al gruppo, dopo i primi tre bellissimi album a carattere tradizionale, una svolta più commerciale, e se ne andò trascinando con sé anche Martin Carthy (altro storico folksinger inglese), sostituito da Rick Kemp, che in breve tempo si legò sentimentalmente con la cantante Maddy Prior e insieme diedero vita a diversi ottimi album di piacevole folk-rock, il più di successo dei quali è senz’altro All Around My Hat del 1975 (i primi sei lavori del nuovo corso sono stati riuniti qualche anno fa nell’imperdibile triplo CD A Parcel Of Steeleye Span).

Gli Span sono ancora oggi attivissimi, pur con diversi cambi di formazione tipici di questo tipo di band, anche se sia la Prior (unica tra i membri fondatori ancora in sella) sia Kemp sono sempre al bastone di comando, pur non essendo più sposati da tempo. Gli altri membri del gruppo attualmente sono Julian Littman alle chitarre, mandolino e pianoforte, la bravissima Jessie May Smart al violino (strumento indispensabile nell’economia della band), Liam Genockey alla batteria ed il nuovo chitarrista Andrew Sinclair, che sostituisce Pete Zorn purtroppo scomparso lo scorso anno. Dodgy Bastards è il nuovo album del sestetto (il loro ventitreesimo in totale), e giunge a tre anni dall’apprezzato Wintersmith, che era stato il loro disco più venduto degli ultimi 37 anni: Dodgy Bastards è un lavoro particolare, che prende spunto da alcune tra le più di trecento ballate popolari inglesi e scozzesi antologizzate nel diciannovesimo secolo dallo studioso americano Francis James Child (note al mondo come “Child Ballads”), ma le ripropone in versioni rivedute e corrette, sia nei testi che nelle musiche, con arrangiamenti che partono dalla base originale folk per arrivare ad assumere tonalità decisamente rock, in alcuni momenti anche piuttosto sostenuto. Il gruppo suona con la foga e la grinta di una band di giovani virgulti, e la Prior ha ancora una bellissima voce nonostante quest’anno per lei scattino le settanta primavere. C’è anche più di un brano con tendenza alla jam, con durate che superano i sette, otto ed in un caso anche i dieci minuti: basti pensare che tutto il disco (che comprende dodici canzoni) va ben oltre i settanta minuti, senza però risultare noioso o ripetitivo, ma al contrario conferma che gli Steeleye Span sono più vivi che mai, ed al contrario dei Fairport che da anni fanno dischi sì molto piacevoli ma decisamente sovrapponibili tra loro (e senza assumersi alcun rischio), non hanno perso la voglia di sperimentare e di rielaborare la tradizione.

Cruel Brother apre il CD con una bella introduzione corale a cappella, poi entrano all’unisono gli strumenti per un brano folk-rock davvero trascinante, guidato dalla splendida voce di Maddy, con un gustoso mix tra chitarre elettriche e violino ed un motivo di presa immediata, ed in più diversi cambi di ritmo e melodia che, uniti ad una durata che si avvicina agli otto minuti, fa del brano quasi una mini-suite. All Things Are Quite Silent è un’intensa e struggente ballata tutta basata sulla chitarra acustica, il violino e la voce cristallina della Prior, Johnnie Armstrong è un folk elettrificato dal carattere tradizionale, suonato però con grande forza e cantato con pathos da Kemp, mentre Boys Of Bedlam, già presente con un arrangiamento più tradizionale nel loro secondo album Please To See The King (1971), qui diventa una potente rock song elettrica, con il violino quasi stridente ed un’atmosfera al limite del minaccioso, il tutto mescolato mirabilmente con una melodia di stampo antico (si può parlare di folk-punk?). Anche la tosta Brown Robyn’s Confession (in cui canta la Smart) fonde in maniera egregia suoni moderni con un motivo chiaramente folk, con le chitarre ancora in primo piano ed un refrain scorrevole; Two Sisters è la rielaborazione di un noto standard folk conosciuto anche come Cruel Sister (brano che dava anche il titolo all’album dei Pentangle preferito dal sottoscritto), in una versione ancora tosta, diretta e potente, anche se le chitarre elettriche si mantengono nelle retrovie.

La fluida Cromwell’s Skull è un’oasi elettroacustica (canta Kemp) con una melodia molto bella ed emozionante, unita ad uno sviluppo strumentale vibrante che si dipana lungo otto minuti, con il violino grande protagonista ed uno strepitoso finale chitarristico: una delle più riuscite del lavoro. La title track è uno strumentale di “soli” tre minuti, una saltellante giga rock guidata ancora dallo splendido violino della Smart e da una chitarra che ne imita il timbro, Gulliver Gentle And Rosemary è di nuovo un folk-rock scintillante, dalla squisita melodia corale e decisamente coinvolgente, mentre The Gardener è puro rock, con le chitarre quasi hard, un’altra iniezione di energia appena smorzata dal violino. La nervosa ed ancora roccata Bad Bones prelude al gran finale, che è appannaggio del medley The Lofty Tall Ship/Shallow Brown, più di dieci minuti all’insegna di deliziose melodie tradizionali, cambi di ritmo ed interventi mai fuori posto da parte del violino, con momenti di pura poesia folk (Shallow Brown è splendida), per finire con una lunga ed affascinante coda strumentale.

Anche gli Steeleye Span si stanno avvicinando ai cinquanta anni di carriera, ma l’energia che esce da un disco come Dodgy Bastards indica chiaramente che non è ancora tempo per loro di appendere gli strumenti al chiodo.

Marco Verdi

Novità Di Novembre Parte V E Ultima. Duffy, Graham Parker, Paul Weller, Joan Armatrading, Sting, Jon Anderson & Rick Wakeman, Jenny & Johnny

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Pensavo che tra post dedicati alle novità, recensioni, aggiunte varie le uscite di novembre fossero state sviscerate tutte (almeno le più interessanti) e invece mi sbagliavo (e anche a dicembre ci sono ancora uscite sfiziose, oltre a quelle già citate, ad esempio un nuovo Ryan Adams (o due?) verso metà dicembre! Ma veniamo alle uscite imminenti, tutte previste per martedì 29 novembre (più o meno)

Cominciamo con il nuovo disco di Duffy Endlessly in uscita per la A&M/Polydor/Universal. La cantante gallese propone la solita miscela di sixties romantici e Dusty Springfield rivisitati ma questa volta, aldilà di Well, Well, Well a cui è difficile sfuggire vista la quantità di spot in televisione mi sembra che in questo nuovo album ci sia una deriva verso la proto/disco alla Blondie di My Boy, dance alla Kylie Minogue in Keeping My baby e simil-Madonna in Lovestruck e Girl. Mah, se vi piace. Il resto ad un ascolto veloce non mi sembra male sulla falsariga del precedente Rockferry. Uomo avvisato (e anche donna!).

Dopo Symphonicities poteva mancare un altro bel CD+DVD tratto dall’ultimo tour di Sting? Ma vi pare! E allora vai con Live In Berlin testimonianza di una data del concerto con orchestra al seguito in cui ripropone le vecchie canzoni in una veste classicheggiante. Etichetta Deutsche Grammophon, 14 brani sul Cd, 22 brani sul Dvd.

Dopo gli Yes, dopo l’accoppiata Jon & Vangelis, arriva il primo disco di Jon Anderson & Rick Wakeman insieme. Si chiama The Living Tree e sono nove canzoni nuove tutte composte per l’occasione. Sembra promettente ed interessante esce per la Gonzo Media/Voiceprint quindi in teoria distribuzione Ird.

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Per la sezione “vecchie glorie” (ma sempre valide e in questo 2010 sono molti gli artisti che hanno sorpreso con dei dischi assolutamente soddisfacenti) oltre al box dei Bootleg annunciato la settimana scorsa (e che dovrebbe uscire la prossima) Graham Parker edita anche un progetto collaterale Carp Fishing On Valium – The Songs anche questo già pubblicato dalla sua etichetta personale UP Yours (chissà perche questo nome ti manda un friccico nelle zone posteriori?) e ora disponibile per tutti gli amanti di questo geniale musicista inglese, grande rocker di razza. Sempre etichetta Evangeline/Ird.

Joan Armatrading negli anni ’70 è stata di gran lunga la migliore cantautrice prodotta dalla scena britannica (Sandy Denny veniva dagli anni ’60), in quel periodo non sbagliava un disco, poi dopo un lungo periodo di appannamento è tornata con due buoni dischi, Into The Blues e This Charming Life. Questo Live At the Royal Albert è un gagliardo concerto registrato nell’aprile di quest’anno con tutto il meglio della sua produzione in un doppio CD + DVD (peccato che il DVD ha “solo” 11 brani e non tutti i 31 del doppio CD). Ottimo il gruppo che la accompagna con John Giblin “mitico” bassista dei Brand X e Simple Minds, ma ha suonato anche con Kate Bush, Peter Gabriel e mille altri, anche con Lucio Battisti.

Quel disco della Maddy Prior band che vedete effigiato è nuovo come uscita, doppio, ma contiene due vecchi dischi degli anni ’80 da lungo irreperibili: si chiama Hooked On Glory e contiene Hooked On Winning e Going For Glory. L’etichetta è la Park Records.

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Paul Weller completa un’annata ricca a livello di novità e ristampe con questo doppio Find The Torch, Burn The Plans – Live At The Royal Albert Hall (doveva essere affollatissima, un via vai di artisti durante l’anno): Il DVD ha il concerto completo, 26 canzoni, in un paio di brani appare anche Kelly Jones degli Stereophonics. Oltre al concerto c’è anche un documentario girato da Julien Temple su Paul Weller e il clip promo per 7 & 3 Is The Strikers Name uno dei brani migliori dell’ottimo Wake Up The Nation. Il CD ha gli highlights del concerto alla RAH oltre ad alcuni brani registrati al BBC Theatre tra cui una collaborazione con Richard Hawley.

E infine, una ragazza molto indaffarata questa Jenny Lewis, oltre ai Rilo Kiley oltre agli ottimi dischi da solista ora ha formato anche questi Jenny And Johnny con il fidanzato Johnathan Rice. Fanno dell’ottimo power-pop-rock con eccellenti armonie vocali, leggero e piacevole ma assolutamente godibile (perché so tutto ciò? Perché è un po’ che voglio recensirlo ma rimando sempre per ragioni di tempo). Il disco si chiama I’m Having Fun Now ed esce per la Warner Bros.

Bruno Conti

40 Anni E Non Sentirli. Steeleye Span – Live At A Distance

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Steeleye Span – Live At A Distance – 2 CD + DVD – Park Records

A voler essere proprio pignoli sono 41 e sono gli anni di carriera degli Steeleye Span, festeggiati con la pubblicazione di questo mini cofanetto. Sono in ritardo, lo ammetto, ma ve ne parlo solo oggi in quanto il box è finalmente disponibile con facilità anche per il mercato italiano tramite la distribuzione Ird e comunque stiamo parlando di uno dei gruppi storici della prima onda del folk britannico che in questo periodo sembra godere di una seconda giovinezza.

Gli Steeleye Span sono stati tra i fondatori di quel movimento che fondeva il folk tradizionale dell’area britannica (quindi non solo irlandese o celtico) con un nuovo approccio e una strumentazione spesso anche elettrica: i “soci” fondatori del gruppo furono Ashley Hutchings, appena uscito dall’altro grande gruppo da lui fondato, i Fairport Convention, e due coppie Tim Hart e Maddy Prior e Gay & Terry Woods, quindi con due voci femminili, una formazione inconsueta anche per quei tempi di sperimentazioni. Questa formazione registrò un solo album Hark! The Village Wait, molto bello ma non tra i loro migliori e questa la dice lunga sulla qualità della produzione di quegli anni.

Per non farla troppo lunga (ma se volete me lo dite e ci ritorno in un prossimo Post) nel corso degli anni si sono avvincendati nella formazione, tra gli altri, anche Martin Carthy, Peter Knight, Bob Johnson, Rick Kemp, Nigel Pegrum, Liam Genockey e Ken Nicol con molti dei componenti che sono “andati e venuti” più volte nella formazione.

La formazione classica, quella che ha operato tra il 1971 e il 1975 (il periodo migliore), prima senza e poi anche con batterista in formazione, ha anche avuto un notevole successo commerciale: un singolo tratto da Below The Salt, forse il loro miglior disco, Gaudete ( o Gaudeitei come dicono loro), cantato in latino!, ha raggiunto i top 20 della classifica inglese in quel periodo natalizio. Addirittura All Around My Hat, tratta dall’album dello stesso titolo è arrivata fino al numero 5, il produttore era quel Mike Batt che oggi si occupa della carriera di Katie Melua.

Tra le curiosità, come non ricordare la partecipazione all’ukulele di Peter Sellers (peraltro un virtuoso dello strumento) nel brano New York Girls tratto da Commoners Crown uno dei loro migliori che comprende la lunga, strepitosa ballata Long Lankin.

In ogni caso il gruppo, tra alti e bassi (e lutti, Tim Hart è morto proprio la vigilia di Natale dello scorso anno), ha continuato la proprio carriera, fondando una etichetta, la Park Records, che pubblica sia il loro materiale, quello di altri artisti storici (Jacqui McShee degli amici-rivali Pentangle) e di talenti emergenti, Kirsty McGee, la figlia di Rick Rose Kemp, la grande suonatrice di cornamusa Kathryn Tickell, i Rock, Salt & Nails: l’ultima pubblicazione degli Steeleye Span (ma più o meno in contemporanea ne è uscito anche uno nuovo in studio, Cogs, Wheels And Lovers) è questo triplo dal vivo che raccoglie, nel doppio CD, materiale registrato in vari tour tra il 2002 e il 2008 e nel DVD un concerto del 2006 all’Hove Centre. Il materiale è differente tra i due formati, quindi molto interessante.

La formazione è quella con Prior, Kemp, Knight, Genockey e Ken Nicol (ex Albion Band, in questi gruppi le storie sono intricate e intrecciate tra loro), la più longeva del gruppo e il materiale non sfigura certo con quello di molti gruppi attuali. Anche se gli anni passano per tutti la voce di Maddy Prior rimane una delle più belle di questo panorama musicale e anche gli altri “vecchietti” si fanno rispettare.

Dall’iniziale accapella Who’s The Fool Now alla travolgente Two Magicians (tratta dal classico Now We Are Six), una giga elettrica con un testo che è una sorta di filastrocca ma che è assolutamente irresistibile, provate a farla sentire alla vostra fidanzata, a vostra madre, se avete bimbi piccoli in casa, animali domestici, dopo poche note vi ritroverete tutti a danzare con cani, gatti, bimbi e umani al ritmo di questa canzone che è deliziosa e senza tempo, oggi come 36 anni fa. Tra il repertorio più recente ci sono la suite Ned Ludd, Lord Elgin e Bonny Black Hare tratte dall’ottimo Bloody Men del 2006 (continuano a fare bei dischi, per chi ama il genere ma anche per chi vuole avventurarsi in territori celtici di qualità).

Non mancano classici come il tradizionale The Blacksmith che era nel primo album del 1970 o inediti come lo strumentale The Neck Belly Reel dal ritmo travolgente e con il violino di Peter Knight in evidenza.

Sia il CD che il DVD si concludono con il brano The Song Will Remain che è l’equivalente di Meet On The Ledge il brano simbolo dei Fairport Convention.

Questa è The Three Sisters che trovate sia nel Cd che nel Dvd, tra le migliori.

Bruno Conti