Un Omaggio A Jimmie Rodgers E Alla “Vecchia” Musica Country Delle Origini. Paul Burch – Meridian Rising

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Paul Burch – Meridian Rising – Plowboy Records 

Paul Burch è uno dei tanti musicisti che vivono ed operano nel “lato buono” di Nashville, quello lontano dal country-pop plastificato delle majors, e vicino alla musica delle radici, al country più genuino, alla buona musica insomma. Il nativo di Wahington, DC festeggia quest’anno venti anni di attività discografica, con una dozzina di album pubblicati a proprio nome. Da molti anni nei suoi dischi suonano i WPA Ballclub, un collettivo di musicisti ed amici che ricorrono anche in questo album, con un cenno di merito per Fats Kaplin, violino, chitarre, banjo, nonché l’ottimo Dennis Crouch, contrabbassista di grande gusto e tecnica,tra i musicisti preferiti di T-Bone Burnett, che lo usa spesso e volentieri nelle proprie produzioni. In questo Meridian Rising troviamo anche Jen Gunderman a piano e fisa, Tommy Perkinson e Justin Amaral, che si alternano alla batteria, e tra i tanti ospiti presenti nel disco, ricordiamo Richard Bennett alla chitarra, Jon Langford (Waco Brothers(, vocalist aggiunto, Tim O’Brien al bouzouki e Garry Tallent, bassista di quel gruppo di cui al momento mi sfugge il nome, nelle inconsuete vesti di suonatore di tuba.

Forse non abbiamo ancora detto che questo album è un tributo alla musica di Jimmie Rodgers, ma non attraverso la rivisitazione delle sue canzoni, come avevano fatto il compianto Merle Haggard con Same Train, A Different Time o Bob Dylan con il Songs Of Jimmie Rodgers, bensì attraverso una sorta di autobiografia fittizia costruita dallo stesso Paul Burch, che immagina di raccontare attraverso una serie di canzoni scritte per l’occasione, la vita e la musica di colui che è stato definito di volta in volta, “The Father Of Country Music”, “Singing Brakeman”, “The Blue Yodeler”, “Yodeling Cowboy”, inserendo anche nei brani elementi di western swing, blues, folk, jazz e musica tradizionale in generale, quello che si sentiva in quell’epoca, durante  una vita, breve ma intensa, durata solo dal 1897 al 1933. Il risultato di questo album mi ha ricordato in parte quei dischi anni ’70 di David Bromberg, album in cui questi generi venivano frullati in una sorta di composito che brillava per la capacità, l’ironia, il gusto per l’old fashioned che si sprigionava da quei solchi. Mi sembra che pure Paul Burch, con il suo stile laconico ma espansivo, pieno di affetto per la musica che rivisita, in modo rigoroso ma anche divertente, abbia centrato l’obiettivo che si era proposto, ovvero trasportare quella musica e quelle melodie nel 21° secolo, senza essere troppo didascalico, ma un poco sì, perché l’insieme lo richiede: forse già sentito altre volte, ma quando è ben fatto si ascolta con piacere, sarà pure revivalismo, ma non è solo fine a sé stesso.

Burch, come si può rilevare dal suo sito http://www.paulburch.com/the-story-of-meridian-rising , ha fatto un accuratissimo lavoro di ricerca sulla vita di Rodgers, quindi la biografia in musica è assolutamente attendibile e i brani sono tutti molto gradevoli: dall’apertura con la piacevole Meridian, un brano attraversato dal clarinetto di Chloe Feoranzo, che potrebbe quasi uscire da un disco di Bix Beiderbecke, non fosse per la chiarezza cristallina del suono, perfettamente delineata da una produzione quasi filologica; Cadillacin’ è un boogie swing pianistico che racconta l’abitudine di Jimmie di girare gli States con la sua Cadillac per recarsi ai concerti da una città all’altra, mentre Us Rte 49 ci trasporta sulla Route 49 con un brano dove il blues, misto a ragtime, è il tema del pezzo. Non poteva mancare Baby Blue Yodel, un breve tuffo nello yodeling tipico di Rodgers, molto bella la delicata Black Lady Blues, ambientata in Louisiana e con il violino di Fats Kaplin, oltre al sax baritono di Cal Gray ed alla tuba di Tallent. Bromberg a parte, si potrebbero ricordare gli album di Pokey La Farge http://discoclub.myblog.it/2013/07/14/uno-strano-tipo-bravo-pero-5509769/  o di Meschiya Lake http://discoclub.myblog.it/2014/02/15/giovane-vecchia-meschiya-lake-the-little-big-horns-foolers-gold/ , altri revivalisti doc, oppure potrei citare Maria Muldaur e il suo folk country blues da jug band, anche se il sound è più complesso.

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Ain’t That Water Lucky è più “scura” e malinconica, un country-blues lungo il Mississippi, con June che è uno dei vari brevi sketches strumentali che punteggiano la narrazione, ce ne sono altri cinque fino alla fine del disco, con il dixieland di Oh, Didn’t He Ramble che chiude la storia. Ma prima troviamo il viaggio in Europa di To Paris (with regrets) dove la fisarmonica di Kaplin, aggiunge ulteriori sapori retrò allo stile Reinhardt/Grappelli del brano, con Gunter Hotel Blues, che con le sue 12 battute classiche tiene fede al titolo, o la divertente The Girl I Sawed In Half, che racconta di quegli anni di feste paesane e circhi itineranti, in questo caso a tempo di deliziosa New Orleans music. O la denuncia sociale del valzerone country di Poor Don’t Vote e la divertente e soffusa diapositiva seppiata rappresentata in Back To The Honky Tonks, cantata in modo sornione da Paul Burch. Piacevole e diverso da molta musica in circolazione al momento.

Bruno Conti