Il Nuovo Capitolo Del “Cantore” Della Solitudine. Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles

malcolm holcombe pretty little troubles

Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles – Gypsy Eyes Music

Da quando è tornato sobrio, esclusivamente per merito di sua moglie Cindy, il buon Malcolm Holcolmbe sembra rinato a nuova vita musicale, incidendo periodicamente negli ultimi anni una serie di ottimi lavori come Down The River (12), Pitiful Blues (14), The RCA Sessions (15), e Another Black Hole (16), tutti recensiti da chi scrive, su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2016/03/09/leggenda-dellunderground-americana-malcolm-holcombe-another-black-hole/ . Di conseguenza, di questo signore e della sua vita avventurosa, i lettori di questo blog sanno già tutto, quindi tralascio di ripercorrere per l’ennesima volta le sue note biografiche e la sua carriera, che lo hanno portato ad incidere questo undicesimo album in studio. Una delle prime cose che si nota ascoltando Pretty Little Troubles, è il forte contrasto tra la musica e la voce di Malcolm, e questo lo si deve in gran parte al noto polistrumentista e produttore Darrell Scott (autore in passato di svariati ottimi lavori solisti), che ha radunato negli Outlaw Music Sanctuary Studios in quel di Crawford nel freddo Tennessee, una serie di eccellenti musicisti, tra i quali il fidato Jared Tyler al dobro, mandolino e voce, Verlon Thompson alle chitarre acustiche e slide, Marco Giovino alla batteria, Dennis Crouch al basso, Joey Miskulin alla fisarmonica, e il bravo Kenny Malone alle percussioni, senza dimenticare il contributo di stagionati turnisti di area come Jelly Roll Johnson, Mike McGoldrick, e Jonathan Yudkin,  tutti impegnati ad assecondare Holcombe e la sua chitarra, suonata come sempre con il suo personalissimo “fingerpicking”.

I “piccoli problemi” di Malcolm si aprono  sulla sorprendentemente “bluesy”  Crippled Point O’View, con un arrangiamento leggermente funky, a cui fanno seguito la commovente Yours No More (dedicata agli immigrati, il country-folk quasi da “campi di cotone” di una briosa Good Ole Days, la sofferta elegia di Outta Luck, con in sottofondo l’armonica di Jelly Roll Johnson. Troviamo anche l’atmosfera “zingaresca” della bellissima South Hampton Street, dove oltre alla voce di Holcombe svetta la fisarmonica di Miskulin, come pure nella seguente splendida ballata Rocky Ground, mentre la title track Pretty Little Troubles è di nuovoun moderno blues acustico, eseguito come lo avrebbe suonato il bravo Steve Seasick, per poi passare alla divertente Bury, England, dove il dobro di Jared Tyler gareggia in bravura con la chitarra di Malcolm. Il sound spoglio e acustico di Pretty Little Troubles si manifesta anche nella chitarra e voce di Damm Weeds, per poi ampliarsi con una strumentazione da brano  celtico come in The Eyes O’Josephine, una ballata romantica popolare senza tempo, e avviarsi alla fine dei “problemi” con una rustica e incalzante The Sky Stood Still, valorizzata alle corde dal bravo Jonathan Yudkin, e chiudere con gli accordi crepuscolari di una intima e scarna We Struggle.

Questo “signore” ormai lo ascolto da oltre vent’anni, e oggi come ieri Malcolm Holcombe mi pare un cantautore apparentemente di un’altra epoca, in quanto principalmente il nostro in fondo è un musicista di montagna, che scrive canzoni sempre intriganti (soprattutto quelle basate sulle proprie esperienze), con una voce che raschia in gola e raccoglie ogni suono, partendo dal primo Dylan, passando per Johnny Cash, e finendo con il Tom Waits più notturno. Amato da molti musicisti (in primis da Steve Earle e Lucinda Williams) e riconosciuto dalla critica internazionale, Holcombe si conferma un artista essenziale nel proporre il suo “talkin’ blues”, raccontando storie di provincia che lui vive sulla propria pelle (come in questo ultimo Pretty Little Troubles), cantate con voce calda e profonda, con risultati che lo innalzano ancora una volta alla pari dei grandi storytellers americani, e verso il “gotha”, se esiste, dei cantautori di culto!

Tino Montanari

Una Leggenda Dell’Underground “Americana”! Malcolm Holcombe – Another Black Hole

malcolm holcombe another black hole

Malcolm Holcombe – Another Black Hole – Gypsy Eyes Music / Proper Records

Per chi scrive è sempre un grande piacere occuparsi di un nuovo album di Malcolm Holcombe (con questo siamo arrivati a quattro negli ultimi anni http://discoclub.myblog.it/2015/04/30/musica-che-graffia-lanima-malcolm-holcombe-the-rca-sessions/ ), in quanto l’intensità della sua musica, sempre con testi importanti, accompagnata da una voce tagliente, imbevuta probabilmente da mille Bourbon (oltre che da mille sigarette), lo porta ad essere uno degli ultimo “narratori underground” della musica Americana. In occasione del suo ultimo passaggio dalle nostre parti ( fu lo scorso anno, quando tenne  un magnifico concerto anche al Bar Trapani in quel di Pavia, a cui ha assistito pure chi vi scrive), ci aveva anticipato che stava lavorando ad un nuovo lavoro, e si auspicava di poter coinvolgere nello sviluppo delle canzoni la magica chitarra del grande Tony Joe White.

Fortunatamente il progetto è andato in porto, Malcolm ha radunato nei “mitici” Room & Board Studios di Nashville la sua abituale band, composta da musicisti stellari, tra i quali ricordo l’abituale pard Jared Tyler alla chitarra, banjo, mandolino e dobro, David Roe al basso, Ken Coomer (Wilco, Uncle Tupelo) alla batteria e percussioni, e come ospiti Roy Wooten Aka Future Man alle percussioni aggiunte, la brava Drea Merritt alle armonie vocali, e, come detto, Tony Joe White, presente con la sua chitarra in gran parte dei brani, il tutto con la produzione del pluridecorato Ray Kennedy (Steve Earle, Billy Joe Shaver).

L’album prende il via in grande stile con Sweet Georgia, un moderno bluegrass con il banjo di Tyler a dettare il ritmo, seguita dalla title track Another Black Hole, uno “swamp blues” dove entra in azione la slide guitar di White, per poi passare al cadenzato country di una solare To Get By, alle note quasi narrate di una suggestiva Heidelberg Blues, e ad un accenno di blues nella viscerale Don’t Play Around, accompagnata dalla voce imbevuta di soul della Merritt. Si riparte con il banjo a mille di una “appalachiana” Someone Missing, il “rocking blues” di Papermill Man dove si evidenzia ancora l’anima soul di Drea, mentre l’acustica September è un breve colloquio quasi recitato dal vocione di Malcolm, per poi ritornare allo “swamp country” di Leavin’ Anna (chissà perché mi ricorda Polk Salad Annie dell’ospite Tony Joe White? Mistero!), andando a chiudere con le dolci melodie di Way Behind, da sempre marchio di fabbrica del suo inimitabile “sound”.

Il solito “modus operandi” di Holcombe persiste in tutte le canzoni di questo Another Black Hole, brani che mescolano country, bluegrass, blues e folk, su testi poetici che raccontano storie di vita della North Carolina, da un artista maestro del “fingerpicking” che ultimamente sforna dischi a ritmo costante (dopo la sua ammirevole rinascita artistica), aumentando e consolidando la sua fama di artista di “culto”. Nonostante un talento infinito, Malcolm Holcombe è il tipico caso di un cantautore destinato ad una piccola cerchia di adepti, un “beautiful loser”, nel senso più vero del termine, che prosegue imperterrito a fare la sua musica come una sorta di Tom Waits dei Monti Appalachi, a scrivere canzoni di cristallina bellezza che vengono sublimate dalla sua caratteristica voce. Ci sono poche certezze nella vita, un nuovo album di Holcombe è una di queste, e chi avrà la voglia di andare a recuperare i suoi  dischi precedenti, non potrà che rimanere letteralmente conquistato dalla sua arte musicale.

Tino Montanari

Una Musica Che Graffia L’Anima! Malcolm Holcombe – The RCA Sessions

malcolm holcombe the rca sessions

Malcolm Holcombe – The RCA Sessions – Gypsy Eyes Music/Proper Records/Ird – Deluxe Edition CD+DVD

Di Malcolm Holcombe i lettori di questo blog sanno già tutto, avendone chi scrive parlato a suo tempo, per l’uscita dei precedenti lavori Down The River (12) http://discoclub.myblog.it/2012/10/05/lungo-il-fiume-del-country-blues-malcolm-holcombe-down-the-r/  e Pitiful Blues (14) http://discoclub.myblog.it/2014/08/09/le-ballate-pietose-poeta-blues-malcolm-holcombe-pitiful-blues/ , ma torno con piacere a parlarne in occasione dell’uscita di questo nuovissimo The RCA Sessioins, che celebra i 20 anni di carriera di uno dei musicisti più originali della scena folk contemporanea americana. The RCA Sessions è una raccolta di canzoni scritte tra il 1994 e 2014, tratte dai suoi precedenti dieci album e EP (salvo un brano inedito), tutte rifatte in una nuova veste sonora per questa occasione, il tutto con il supporto di una band stellare composta dal fido Jared Tyler a dobro e lap-steel (visto dal sottoscritto a Pavia nel recente concerto al Bar Trapani), Dave Roe al contrabbasso, Ken Coomer (ex Wilco) alla batteria, la brava Tammy Rogers al violino e mandolino, e “special guests” come l’armonicista Jelly Roll Johnson, Siobhan Maher-Kennedy (cantante dei River City People e in seguito corista per Willy DeVille, Steve Earle e altri), e una delle mie cantanti preferite, Maura O’Connell (richiestissima negli ultimi tempi, vedere recensione dell’ultimo lavoro di Tom Russell), il tutto registrato nei mitici RCA Studios di Nashville con la produzione di Ray Kennedy e Brian Brinkerhoff.

Le “sessions” si aprono sul riff acustico di Who Carried You, e proseguono con l’armonica dolce di Jelly Roll Johnson in una suadente Mister In Morgantown, per poi passare al violino di Tammy Rogers di una danzante I Feel Like A Train (era nell’EP Wager),  il blues dei monti Appalachi di Doncha Miss That Water,  le atmosfere rilassate e sofferte di una The Empty Jar, cambiando poi decisamente ritmo con la travolgente Butcher In Town, il punk-blues di To Drink The Rain, e la ballata commovente Early Mornin’, dove la voce di Malcolm sembra uscire dall’anima.

Dopo un sorso opportuno di aranciata (ma temo sia stata altra in passato la sua bibita preferita), si riprende con il folk acustico di I Never Heard You Knockin, per poi trovare l’unico inedito del lavoro una Mouth Harp Man dove si manifesta nuovamente la bravura di Jelly Roll Johnson, per proseguire con il rock-blues tirato di I Call The Shots, seguito dal ritmo mosso My Ol’Radio, con al controcanto la vocina di Siobhan Maher-Kennedy, e una Goin’ Home che viene valorizzata da un coretto importante, mentre Down The River viene riproposta in versione country-agreste; si termina con il violino di Tammy Rogers che accompagna una leggermente “psichedelica” e intrigante Pitiful Blues, e inifne una morbida e avvolgente ballata popolare A Far Cry From Here, cantata in duetto da Malcolm con la voce meravigliosa della cantante irlandese Maura O’ Connell. Il Dvd accluso arricchisce il lavoro con le immagini delle “sessions”, ed è un bel vedere.

malcolm holcombe 1 malcolm holcombe 2

Si può provare a cercare qualsiasi aggettivo per descrivere Malcolm Holcombe e la sua musica, ma  la sua voce baritonale impastata di catrame e i suoi testi, sono solidi come le montagne da cui viene (i monti Appalachi nella Carolina Del Nord) https://www.youtube.com/watch?v=5R_OUKXjm7c , e questo The RCA Sessions  è un’ulteriore conferma della sua bravura, se ce ne fosse bisogno, serve per celebrare nel migliore dei modi vent’anni di carriera, vissuti anche pericolosamente (un periodo a lungo sopraffatto dall’alcolismo), ma portati avanti con la coerenza e la fierezza da un personaggio che deve assolutamente essere scoperto dagli amanti della buona musica, un perfetto beautiful loser. Anche se non è “nuovo”, forse siamo di fronte al suo album più bello in assoluto.

Tino Montanari

Le Ballate “Pietose” Di Un Poeta Blues! Malcolm Holcombe – Pitiful Blues

malcolm holcombe pitful blues

Malcolm Holcombe – Pitiful Blues – Gypsy Eyes Music

L’ultima volta che ho visto Malcolm Holcombe dal vivo (qualche mese fa nel locale dell’amico Paolo Pieretto, in quel di Pavia), sono rimasto impressionato per la carica e l’intensità che era in grado di comunicare con la sua musica, accompagnato solamente dalla chitarra acustica e dalla sua voce roca e piena di dolore, in un concerto dove si evidenziava la sua maestria al “fingerpicking”.  A meno di due anni dall’uscita di Down The River (puntualmente recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2012/10/05/lungo-il-fiume-del-country-blues-malcolm-holcombe-down-the-r/ ), arriva dalle nostre parti (e ovunque) il nuovo lavoro di Holcombe, intitolato Pitiful Blues, dieci canzoni di folk-blues suonate in punta di dita, con un manipolo di eccellenti musicisti, tra i quali il produttore Jared Tyler, anche chitarre dobro e mandolino, Paddy Ryan, batteria, solo in Words Not Spoken, Matt Hayes, contrabbasso, Luke Bulla, violino, Travis Fite, chitarra ed ingegnere del suono,  Arthur Thompsonbatteria, nel resto del disco, tutti uniti per raccontare, come sempre, storie della provincia americana, con le quali il nostro buon Malcolm convive quotidianamente.

malcolm holcombe 2

L’album si apre con l’intensa title-track Pitiful Blues, un brano tagliente e sofferto come pochi https://www.youtube.com/watch?v=GwWKrfUKj7w , seguito dalle trame guidate da un violino malinconico in Roots e poi dalla giocosa Sign For A Sally, passando per lo strisciante blues di Savannah Blues https://www.youtube.com/watch?v=CiA_uDtzeqY  e per le atmosfere prettamente folk di Another Despair. Le ballate e i racconti “pietosi” si intensificano con il country-blues di By The Boots, con la dolce e malinconica Words Not Spoken, negli arpeggi acustici con sottofondo di violino di Words Of December, passando per una strepitosa ballata “appalachiana” come The Music Plays On e chiudendo con la commovente e sentita For The Love Of A Child, dove il cuore e il “songwriting” di Malcolm si dimostra più nostalgico del solito.

malcolm holcombe3

Pitiful Blues, decimo album di Holcombe (se non ho sbagliato i conti), contiene il “solito” buon mix di ballate sospese tra blues e folk, accompagnate, oltre che dalla sua chitarra acustica, da slide guitar, violino e banjo, che lascia gli ascoltatori del genere “americana” (quello che viene dalle radici) pienamente soddisfatti, ricco di canzoni dure ma anche piene di speranza, interpretate con la sua voce vissuta ed inconfondibile. Malcolm Holcombe è uno di quegli artisti davvero unici (adorato da personaggi come Steve Earle https://www.youtube.com/watch?v=ESxmy3JmgMs Lucinda Williams), e anche se a chi ultimamente ha visto i suoi concerti appare esteriormente come un vagabondo senza un soldo, uscito miracolosamente con l’aiuto della moglie dalla dipendenza dall’alcolismo e altro, è invece uno che canta meravigliose canzoni ricche di poesia https://www.youtube.com/watch?v=eMVSM8hrxDE , con una voce impregnata di una vita vissuta “pericolosamente”, uno stile che lo avvicina a musicisti come Guy Clark e Townes Van Zandt, tra i pochi che non si limitano a cantare le canzoni, ma le vivono, perché con Malcolm quello che si sente è quello che si ottiene: un segreto della canzone d’autore americana, che una volta tanto sarebbe bene che venisse svelato.

Tino Montanari

Prossimamente Su Questo Blog: Tom Petty, Eric Clapton, Young Dubliners, Jenny Lewis, John Hiatt, Mary Gauthier, Allman Brothers & More To Come

tom petty hypnotic eye

Oggi, una sorta di prossimamente, quello che leggerete nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, non si chiude per ferie (così mi obbligo a scrivere delle ultime uscite, finito il compito per il Buscadero, la rivista dove scrivo abitualmente, e che vi invito a leggere), un misto delle prossime novità, ad esempio Tom Petty Hypnotic Eye, che vedete qui sopra e il nuovo della Jenny Lewis The Voyager

jenny lewis the voyager

Eric Clapton & Friends e il box degli Allman Brothers, The 1971 Fillmore Recordings, tutti in uscita, martedì prossimo 29 luglio

eric clapton & friends call me the breeze

allman brothers band fillmore east recordings box 6 cd

E ancora il nuovo degli Young Dubliners Nine, e Pitiful Blues di Malcolm Holcombe di cui vi parlerà Tino

young dubliners nine

malcolm holcombe pitful blues

E a seguire, in una sorta di rubrica ad hoc, “Ripassi per le vacanze”, qualche titolo uscito di recente, ma non solo, che per vari motivi era scappato, tipo il nuovo John Hiatt Terms Of My Surrender e Mary Gauthier Trouble & Love

john hiatt terms of my surrender

mary gauthier trouble

E altri titoli, l’ultimo dei Phish Fuego, i moe No Guts No Glory, i due nuovi titoli di Guy Forsyth, quello di Elvin Bishop su Alligator Can’t Even Do Wrong Right, alcuni titoli di gruppi e solisti italiani emergenti, sconosciuti ai più ma validi, tipo I Viaggi di Jules e Carlo Ozzella & Barbablues. Oltre a molti altri titoli che stazionano da tempo in (dis)ordinate pile di fianco al PC, o in file più ordinati all’interno dello stesso. Per non dire di alcuni titoli, tipo il nuovo Joe Bonamassa Different Shades Of Blue (esatto, un altro!), di cui non vi posso parlare, perché uscirà solo il 23 settembre: che è bello, posso anticiparlo o lo strepitoso doppio dal vivo dei Blackberry Smoke Leave A Scar.

joe bonamassa different shades blackberry smoke leave a scar

Di molti altri titoli, noti e meno noti, avete letto puntualmente, rimanete “sintonizzati” con il Blog e, nei limiti del possibile, sarete informati sulle cose più valide ed interessanti in uscita, ad insindacabile giudizio del titolare del Blog e dei suoi collaboratori. Nel caso qualcosa di interessante sfugga potete segnalarlo nei commenti e magari, ove possibile e tempo permettendo, si cercherà di parlare anche di quello.

E’ tutto, a domani.

Bruno Conti

Un “Oscuro” Storyteller Americano Da Scoprire! Mark Lucas – Uncle Bones

mark lucas uncle bones.jpgmusica. bruno conti. discoclub,mark lucas. country,bluegrass,blues,ray wylye hubbard,malcolm holcombe,guy clark,lyle lovett,mickey newbury,tom mortensen,jeneé fleenor,martina mcbride

 

 

 

 

 

 

Mark Lucas – Uncle Bones – Skillet Dog Records

Nativo del Kentucky (da non confondere con l’omonimo australiano), tra Sud e Midwest, confinante con Missouri e Tennessee, uno non penserebbe che la musica di questo signore, dall’età indefinita ma apparentemente sulla quarantina, possa essere influenzata dalla musica degli Appalachi, dalle string bands e da bluegrass e country, oltre ad un pizzico di blues, anche se Nashville è a due passi, ma questo è quello che si ricava dall’ascolto di Uncle Bones, secondo capitolo (dopo Dust) della saga musicale di uno “storyteller” che risponde al nome di Mark Lucas. Non sono tra coloro che vorrebbero tenere stretti per sé nomi nuovi che, di volta in volta, si affacciano sulla scena americana, anzi più si sparge la buona novella meglio è, se ne vale la pena naturalmente, senza tanti diritti di primogenitura o jus primae noctis, tipo questo l’ho scoperto io prima di te! E nel caso di Lucas vale la pena.

Paragonato a Ray Wylie Hubbard o a Malcolm Holcombe per il tipo di voce vissuta, ma forse più vicino a Guy Clark o al primo Lyle Lovett (con cui condivide un suonatore di dobro e pedal steel sopraffino come Tom “Bleu” Mortensen), Mark Lucas sembra uno di quei tipici “raccontatori di storie” che ogni tanto appaiono come dal nulla nel panorama musicale americano. E oltre allo stile musicale, in questo Uncle Bones, sono molto importanti i testi (che purtroppo non sono inclusi nella confezione del CD ma si trovano integralmente sul suo sito brothermarkmusic.com): anzi direi fondamentali. Dall’iniziale Uncle Bones una sorta di storia di Orfeo ed Euridice rivisitata nella campagna americana, con “Dicey” che muore per il morso di un serpente e viene cercata fino agli inferi dal suo “Orphie”, disposto a suonare laggiù con il suo violino per Uncle Bones in cambio del ritorno della sua amata, ma anche lui commette l’errore di guardarsi indietro e lì suonerà il suo fiddle per l’eternità (in questo caso la bravissima Jeneé Fleenor si limita a fare guizzare il suo violino per i 3:36 della canzone, ben coadiuvata dal dobro di Mortensen, che ha suonato anche con Mickey Newbury, un altro che di belle canzoni se ne intendeva), il banjo di Wanda Vick e la chitarra dello stesso Lucas aggiungono spessore “rurale” a questa bella favola.

La delicata e deliziosa Take Me Back, Water, cantata con dolcezza e partecipazione genuina dal bravo Mark, racconta la storia della ragazza che “piangeva perle”, su un tappeto di violino e dobro si dipana questa piccola delizia sonora. Dragon Reel con delle piccole percussioni aggiunte e il solito violino indiavolato della Fleenor (che abitualmente suona con Martina McBride) è un’altra storia peculiare a tempo di giga country-irish, quella di un assassino che “parlava” per enigmi, mentre Every Day I Have The Greens potrebbe essere uno di quei brani acustici ed ironici che ci deliziavano nei primi dischi di Lyle Lovett (ma anche Guy Clark, potrebbe essere un riferimento) e anche la voce è impostata in modo simile. Altro giro, altro racconto, Carrying Fire narra di un padre che porta le braci di un fuoco fino alla “fine del mondo”, questa volta sono il mandolino della Vick e il solito violino della Fleenor, unite al dobro di Mortensen, ad accompagnarci in questo viaggio epico, con il ritmo sottolineato dal contrabbasso di Matt McKenzie. Grits And Redeye Gravy con il basso elettrico di Lucas a segnare il tempo, se esiste questo formato musicale, è una sorta di boogie-bluegrass-country.

Hezekiah è il classico valzerone country, sempre uguale ma sempre diverso, se ben suonato, e come al solito violino, dobro e chitarra acustica dominano. Improvvisamente in Big Bad Love le sonorità diventano più elettriche, basso, una batteria sintetica, chitarre elettriche e un suono bluesato che ci porta dalle parti di Hubbard e Holcombe, un’altra faccia della musica di Lucas che introduce anche il suono di quella che potrebbe una chitarra con il wah-wah ma probabilmente è il violino elettrificato della Fleenor, proprio brava la ragazza. Per sottrazione, nella successiva The Price, l’ottimo Mark si presenta in solitaria solo voce e acustica, per un brano che potrebbe essere anche dello Springsteen più intimista, tanto è bella. Pick Up è un altro blues elettrico mid-tempo caratterizzato dalle svisate della pedal steel di Blue Mortensen e con un’altra storia surreale inventata dalla mente geniale di Lucas, una vedova che manda un messaggio al cellulare nella bara del marito infedele! Trouble è un country-blues,ancora con il violino che guida le danze, anche se in tono minore rispetto ad altri episodi del disco. Per dirla in due parole, anzi tre: uno bravo, consigliato!

Bruno Conti    

Lungo Il Fiume Del Country Blues. Malcolm Holcombe – Down The River

malcolm holcombe.jpg

 

 

 

 

 

 

Malcolm Holcombe – Down The River – Gispy Eyes Music 2012

Vita dura per i folksingers di talento come Malcolm Holcombe: il “nostro” nasce e cresce a Weaverville, un paesino dei monti Appalachi nella Carolina del Nord, e in gioventù impara a suonare la chitarra tra i boscaioli del posto. Dopo la morte di entrambi i genitori, Malcolm, nella migliore tradizione americana, si mette “on the road” con una rock band, i Redwing, e la strada lo porta a Nashville, dove si esibisce nelle caffetterie e gli avventori sono conquistati dal suo stile innovativo, grezzo, carico di blues e soul. Dopo il promettente esordio con A Far Cry From Here, nel ’96 firma un contratto con la Geffen Records, sembra la svolta della sua carriera, ma per gravi problemi di alcolismo, non riesce a tenere fede ai suoi impegni e la casa discografica rinuncia a pubblicare il suo disco, che uscirà soltanto nel ’99, lo stupendo A Hundred Lies. Segue un periodo buio, che si manifesta in sbronze e una forte depressione, poi il ritorno in North Carolina e il taglio netto con l’alcool, lo rimettono sulla giusta via e nel periodo successivo autoproduce una serie di dischi di ottima qualità a partire da Another Wisdorn (2003), I Never Heard You Knocking (2005) e Not Forgotten (2006), che lo riabilitano all’onore dell’ambiente musicale. Con Gamblin’ House (2007) riceve finalmente l’apprezzamento della critica , con ottime recensioni sulle riviste del settore (Rolling Stone e Billboard Magazine), e partecipazioni ai più importanti programmi radio e TV americanei Sull’onda del tardivo successo, seguono For The Mission Baby (2009) che ospita partecipazioni importanti (come Tim O’Brien e Mary Gauthier) e To Drink The Rain (2011).

A breve distanza dall’ultimo lavoro, Holcombe si riunisce con Ray Kennedy (produttore degli ultimi dischi) negli Room & Board Studios di Nashville, e affiancato da musicisti di valore, tra i quali Ken Coomer batteria e percussioni (ex Uncle Tupelo e Wilco), Victor Krauss al basso, Russ Pahl al banjo e pedal-steel, più una serie di “personcine” in qualità di ospiti come Tammy Rogers al violino e mandolino, Steve Earle all’armonica, Darrell Scott alle chitarre, e ai cori la moglie del produttore Siobhan Kennedy, Perry Coleman e due promesse che scommetto faranno strada, Kim Richey e una certa Emmylou Harris.  Down The River  ha sfumature elettriche più accentuate ed un fascino multiforme, cercando di unire le diverse anime del suo songwriting, e brani come il country-blues delle iniziali Butcher in Town e I Call the Shots ne sono la testimonianza.

La purezza folk-rock della sua scrittura è tutta nell’apertura di Gone Away At Last, mentre The Crossing, The Door e The Empty Jar (con lo straziante violino di Tammy Rogers) sono dolci ballate rurali cantate con la voce ruvida e malinconica di Malcolm. Si ritorna ad alzare il ritmo con Twisted Arms, cui fa seguito una splendida In Your Mercy con la dolce voce di  Emmylou Harris al controcanto, mentre Whitewash Job è un ringhioso sincopato country-blues. L’armonica di Steve Earle introduce Trail O’Money cantata in duetto con il protagonista, per chiudere con il capolavoro del disco una Down The River dove tutti gli strumenti dei musicisti (chitarre, dobro, violino, banjo) disegnano un multiforme tessuto sonoro, arricchito dai cori, per uno dei momenti più emozionanti del disco.

Malcolm Holcombe è uno “storyteller” di prima grandezza, racchiude in sé il fascino rude di un Greg Brown, l’asprezza bluesy di Dylan , l’intensità lirica di texani come Townes Van Zandt o Guy Clark, miscelato con lo spirito di chi vive tra boschi e baracche. Down The River è il lavoro (per il vostro umile recensore) più riuscito ed equilibrato dai tempi indimenticabili degli esordi, una piccola gemma cantautorale che non merita di passare inosservata, al cospetto di tanti songwriters (erroneamente) celebrati.

Tino Montanari