Ogni tanto mi rituffo nelle mie vesti virtuali di “Numero Uno” (anche del Blog), in questo caso per la mia classifica di fine anno, molto ampia ed articolata, e vi annuncio sin d’ora che ci sarà anche una appendice corposa, che mi riservo in qualità di Boss, ma soprattutto perché scorrendo le uscite del 2019 mi sono accorto che sarebbero rimasti fuori dalla lista molti titoli meritevoli, già individuati, che però avrebbero reso questo Post quasi un romanzo. Per cui andiamo con il Best Of in versione “normale”, il resto a seguire. Non sono in stretto ordine di preferenza, esclusi i primi sette o otto.
Bruno Conti Il Meglio Del 2019
Top 15
Van Morrison – Three Chords & The Truth
Janiva Magness – Sings John Fogerty Change In The Weather
Christy Moore – Magic Nights
Mavis Staples – We Get By
Gov’t Mule – Bring On The Night Live At Capitol Theatre
Marc Cohn And Blind Boys Of Alabama – Work To Do
Mike Zito & Friends – Rock ‘n’ Roll – A Tribute To Chuck Berry
Reese Wynans And Friends – Sweet Release
John Mayall – Nobdoy Told Me
Jack Ingram – Ridin’ High Again
Chris Knight – Almost Daylight
Over The Rhine – Love And Revelation
Allison Moorer – Blood
Delbert McClinton – Tall, Dark & Handsome
Insieme e alla pari, alla faccia di chi ne ha parlato male!
Bruce Springsteen – Western Stars + Western Stars: Songs From The Film
Le Migliori Ristampe Nel senso più ampio del termine.
Jimi Hendrix – Songs For Groovy Children The Fillmore East Concerts
Bob Dylan The Rolling Thunder Revue – The 1975 Live Recordings
Fleetwood Mac – Before The Beginning
Rory Gallagher – Blues
Allman Brothers Band – Fillmore West ’71
Van Morrison – The Healing Game 3 CD
The Band – The Band 50th Anniversary Edition 2 CD
Richard Thompson – Across A Crowded Room Live At Barrymore’s 1985
Steve Miller Band – Welcome To The Vault
Rolling Stones – Bridges To Buenos Aires
Jorma Kaukonen & Jack Casady – Before We Were Them
E’ uscito all’inizio dell’anno e molti se lo sono dimenticato, ma merita.
Bob Dylan – Travelin’ Thru The Bootleg Series Vol. 15 1967-1969
L’altro cofanetto di quest’anno di Bob Dylan (e Johnny Cash).
Gregg Allman – Laid Back
Carole King – Live At Montreux 1973 CD/DVD
Marvin Gaye – What’s Going On Live
Pretty Things – The Final Bow CD/DVD/10″
Recensione nei prossimi giorni: ospiti nel concerto Van Morrison e David Gilmour.
Sturgill Simpson – Sound And Fury Ovvero, il disco più brutto dell’anno! Intendiamoci, ce ne sono a decine, a centinaia, di più brutti, ma da “uno dei nostri” non me lo aspettavo.
Per ora è tutto, ma nei prossimi giorni, come promesso all’inizio del Post, una corposa appendice con il Resto Del Meglio.
Siamo arrivati a quel periodo dell’anno in cui si fanno i bilanci e le scelte sulle cose migliori successe nel 2019 in ambito musicale. Come vedete è stato aggiunto un pensatore al nostro trust di cervelli rispetto agli anni passati, ma visto che sta ancora decidendo, per sveltire le procedure vi propongo cosa hanno scelto i collaboratori del Blog, e partiamo, non in ordine di importanza, ma semplicemente in base a chi ha mandato prima le proprie classifiche. Ovviamente queste liste vogliono essere anche un promemoria per chi magari si è perso qualche disco, cofanetto o ristampa nel corso dell’anno. Partiamo con uno dei due Marchi, Marco Frosi. Non so dirvi se sono in stretto ordine di preferenza oppure alla rinfusa, come di solito faccio io. Comunque buona lettura.
Bruno Conti
Marco Frosi Best Of 2019
SHAWN MULLINS: Soul’s Core Revival
*NDB Anche se è una doppia ristampa rivisitata di un disco del 1998, ed è pure uscita nel 2018! Ma visto che è bello…
MICHAEL MC DERMOTT: Orphans
Di questo non abbiamo parlato nel Blog, andrebbe recuperato.
LITTLE STEVEN & THE DISCIPLES OF SOUL: Summer Of Sorcery
Marc Cohn & Blind Boys Of Alabama – Work To Do – BMG Rights Management
Come dice il titolo, sulla carta questa accoppiata potrebbe sembrare “strana”, ma in effetti è stata rodata in lunghi anni di frequentazione: già nel 2017 Marc Cohn aveva collaborato con loro nel disco Almost Home con il brano Stay On The Gospel Side, scritto con John Leventhal (che è anche il produttore di questo Work To Do), basandosi su dei versi inediti di Clarence Fountain, il vecchio leader del gruppo che nel frattempo è scomparso nel 2018. Negli ultimi anni Cohn e i BBOA hanno effettuato diversi tour insieme e da una serata speciale al Katharine Hepburn Cultural Arts Center di Old Saybrook, Connecticut, registrata per l’emittente PBS per la serie The Kate, sono stati estratti sette brani registrati dal vivo, che sono stati aggiunti a tre canzoni di studio che inizialmente dovevano costituire un EP di materiale inedito. Il materiale di Work To Do, a parte due pezzi tradizionali notissimi come Walk In Jerusalem e Amazing Grace, è costituito per gran parte da canzoni scritte da Marc Cohn stesso. In effetti ascoltando il repertorio di Marc Cohn, a partire dal suo cavallo di battaglia e maggiore, nonché unico grande successo, Walking In Memphis, la musica del 60enne cantautore di Cleveland ha comunque sempre avuto degli afflati gospel, inseriti comunque in un contesto di pop raffinato e di grande sostanza, ed è quindi un grande piacere riascoltare la voce di Cohn che non pubblica un album da Listening Booth 1970 del 2010, che però era composto tutto da cover di brani usciti in quell’anno, quindi l’ultimo CD di materiale originale, Join The Parade, risale al 2007.
Il nostro amico avrà anche perso tutti i capelli, ma la voce è rimasta uno strumento affascinante, dalle tonalità “scure” e di grande impatto emotivo, se poi viene rafforzata dalle armonie vocali fantastiche dei Blind Boys (di cui aveva già goduto anche Ben Harper, nel suo There Will A Light del 2014) il risultato è assicurato. Oltre a Cohn al piano e alla chitarra, troviamo Leventhal che suona di tutto, tastiere, chitarre, basso e batteria, e nella parte live, Randall Bramblett, anche lui a tastiere e organo, Joe Bonadio alle percussioni, Tony Garnier di dylaniana memoria al contrabbasso e i cinque BBOA alle voci. Proprio loro aprono le operazioni con una rilettura scintillante di Walk In Jerusalem, uno dei tre brani di studio, dove le loro voci vissute si incrociano, si sovrappongono, si sostengono, alternandosi come soliste, con l’accompagnamento affidato solo al battito delle mani e poco altro, mentre nella mossa Talk Back Mic, il pezzo nuovo scritto da Cohn e Leventhal, ci sono elementi sonori rock, swamp e soul, con l’eccellente lavoro full band di tutti gli strumentisti e la voce di Cohn, sicura e assertiva, circondata da quelle splendide di Beasley, Carter, McKinnie, Moore e Williams. Il terzo e e ultimo pezzo nuovo di studio è la title track Work To Do, una ballata pianistica di impianto sudista splendida, dove sembra di ascoltare la Band migliore, con le doppie tastiere in grande spolvero e le armonie vocali da arresto per flagranza di bellezza dei cinque Blind Bloys, tra gospel e soul dai celestiali risultati, a dimostrazione che Cohn non ha perso il tocco di autore, e potrebbe ancora stupirci in futuro.
I brani in concerto, con Marc impegnato al piano; Bramblett alle tastiere, Garnier al Basso e Bonadio alle percussioni, si aprono con Ghost Train, una canzone che era sull’omonimo esordio del 1991, una ariosa ed avvolgente ballata pianistica, tipica del suo repertorio che, con l’aggiunta delle voci e del semplice schioccare delle dita dei BBOA, diventa irresistibile; Baby King viene da Rainy Season e il call and response tra un ispirato Cohn e le voci senza tempo del quintetto vocale in puro stile gospel, lascia senza fiato. Listening To Levon, da Join The Parade del 2007, fa il paio come bellezza con Levon, il celebre brano che Elton John dedicò al grande vocalist e batterista della Band Levon Helm, altra esecuzione da urlo per una ballata splendida che Marc interpreta con grande trasporto, anche senza la presenza delle splendide voci dei co-protagonisti della serata, che tornano però a farsi sentire nella lunghissima versione di Silver Thunderbird, soprattutto nella seconda parte, quando cominciano ad improvvisare ad libitum titillando e spingendo Cohn e soci verso le praterie celestiali del migliori gospel, con Jimmy Carter e Paul Beasley che fanno venire giù il piccolo teatro dove si svolge il teatro. Non contenti i cinque decidono di affrontare in modo inconsueto e geniale Amazing Grace, riarrangiata sulla melodia di House Of The Rising Sun e cantata divinamente dal quintetto. Ci si avvicina alla conclusione ma non può mancare naturalmente una stupenda rivisitazione di Walking In Memphis, il “piccolo” capolavoro di Marc Cohn che forse riceve il suo trattamento definitivo nell’occasione, grazie ai cori gospel dei BBOA. Molto bella anche One Safe Place, altra sontuosa ballata posta in chiusura. Peccato che manchi dalla serata televisiva una versione travolgente di If I Had A Hammer, al limite la trovate qui https://thekate.tv/artist/marc-cohn-and-the-blind-boys-of-alabama/, dove si può vedere tutto il concerto completo.
In ogni caso non inficia il giudizio complessivo dell’album che rimane una delle più piacevoli sorprese di questo scorcio di stagione discografica.
Ho sempre pensato che la “cover” per un musicista possa essere una sfida pericolosa e affascinante, in quanto si prende una canzone altrui, magari un brano con cui si avverte una qualche sintonia, si smonta il più delle volte l’arrangiamento per arrivare al cuore del brano e dell’autore, e il risultato in certi casi può essere sorprendente, quasi un’altra canzone, alla quale di volta in volta l’artista dà una nuova immagine e una nuova anima. Tutto questo preambolo per dire che questa “arte” Shawn Colvin è una che la conosce bene, in quanto è stata una “cover girl” per molto tempo, durante i lunghi anni del suo apprendistato nei locali del circuito folk americano. Ora dopo più di vent’anni, e dopo aver dimostrato al mondo di avere maturato un proprio stile raffinato, torna al suo antico amore, dando seguito al precedente lodato Cover Girl del lontano ’94 con questo nuovo Uncovered , ripescando 12 canzoni di artisti del calibro di Bruce Springsteen, Tom Waits, Paul Simon, John Fogerty, Stevie Wonder, Graham Nash, Robbie Robertson e altri meno noti, un lavoro a metà strada fra la sua antica e nuova identità. Sotto la produzione del duo Steuart Smith e Stewart Lerman, la Colvin voce e chitarra acustica chiama in studio “sessionmen” di lusso perfettamente compresi nella parte, tra i quali lo stesso Steuart Smith al basso e chitarre, David Boyle alle tastiere, Milo Deering alla pedal, lap steel e mandola, Glenn Fukunaga al basso, Mike Meadows alle percussioni, e come ospiti speciali David Crosby e Marc Cohn.
Si inizia con le versioni ingentilite da arrangiamenti discreti di Tougher Than The Rest del Boss e di una dolcissima American Tune di Paul Simonhttps://www.youtube.com/watch?v=OA2pV_9EcTk , per poi passare alla storica Baker Street di Gerry Rafferty, dove si ascolta al controcanto la voce gentile di Crosby (ed è la prima volta che la sento senza il suono del sassofono), una Hold On di Waits (canzone scritta con la moglie Kathleen Brennan) giocata in punta di dita e cantata da Shawn alla Joni Mitchell, a cui fanno seguito una I Used To Be A King di un Graham Nash d’annata (la trovate sul bellissimo Songs For Beginners), e una sempre meravigliosa Private Universe di Neil Finn, pescata dal repertorio dei grandi Crowded House (era su Together Alone).Heaven Is Ten Zillion Light Years Away di Stevie Wonder diventa quasi irriconoscibile, tenue ma affascinante, suonata con pochi e sapienti tocchi strumentali, andando poi a rispolverare la deliziosa Gimme A Little Sign dagli anni ’60 (un pezzo soul portato al successo, anche in Italia, da Brenton Wood), con l’apporto sussurrato di Marc Cohnhttps://www.youtube.com/watch?v=W9qbeUwCKys , rendere omaggio al Robbie Robertson della Band con la bellissima Acadian Drifwood, dove prende forma il brano più folk del disco, cimentarsi con la celeberrima Lodi dei Creedence di John Fogerty e non sfigurare con le sue dolcezze country https://www.youtube.com/watch?v=H2CwQXxL69E , rispolverare la meravigliosa melodia di Not A Drop Of Rain di Robert Earl Keen, per una delle letture più vicine all’originale (viene dall’album Gravitational Forces), e andare infine a chiudere con Till I Get It Right della icona country degli anni ’70 Tammy Wynette ( forse un pochino leziosa!).
Dalla prima all’ultima traccia, Uncovered è un emozionante viaggio musicale attraverso le nostre emozioni, ricordando che per questa signora che ormai viaggia verso i sessanta (peraltro portati benissimo) parlano i suoi dischi e la sua carriera, e quindi siamo di fronte ad un album per palati raffinati che, se ascoltato a lungo, vi riscalderà il cuore nel prossimo inverno!
Tino Montanari
Judy Collins – Strangers Again – Wildflower/Cleopatra Records
Prima del parlare del disco, che a scanso di equivoci, lo dico subito, è molto piacevole, due parole sui miei “amici” della Cleopatra, una etichetta che, come sapete, amo in modo particolare. Perché hanno pubblicato una Deluxe edition del CD, come ho scoperto girando in rete, ma disponibile solo per il download digitale? Qualcuno potrà obiettare che questo Strangers Again dovrebbe essere un album di duetti solo con voci maschili, mentre nelle tre bonus c’è un brano cantato con Joan Baez (oltre ad uno con Stephen Stills e un altro con i Puressence), ma il discorso dovrebbe valere pure per la versione digitale, anche se a ben guardare, essendo la Cleopatra, le tre canzoni erano già uscite tra il 2011 e il 2012 su altri dischi. Comunque, piccole polemiche a parte, l’album è tipico della discografia di Judy Collins: arrangiamenti sontuosi e complessi, quasi barocchi, che a tratti sfociano anche in sonorità orchestrali, mescolando il gusto per il vecchio folk delle origini, quando “Judy Blue Eyes” scopriva e interpretava, a fianco di molti classici della canzone popolare, le prime canzoni di Joni Mitchell, Leonard Cohen, Stephen Stills, Sandy Denny, ma anche Dylan, i Beatles, Randy Newman, mantenendo comunque anche un proprio contributo a livello compositivo, non copioso ma sempre di buona qualità. Anche nell’ultimo album Bohemian, pubblicato nel 2011, a fianco di brani di Joni Mitchell, Jacques Brel (altro grande amore), Woody Guthrie, Jimmy Webb, c’erano quattro canzoni firmate dalla Collins, e tre duetti, con Ollabelle, Kenny White e Shawn Colvin, un arte che la nostra Judy ha sempre frequentato ma che per la prima volta viene a completa fruizione in questo Strangers Again.
La scelta dei compagni di avventura è quanto mai eclettica, ci sono tutti i tipi di cantanti, noti, ignoti ed emergenti e sono affrontati tutti i generi musicali, con canzoni celeberrime di grandi autori ed alcune recenti o scritte appositamente per l’occasione. La Collins si produce da sola, con l’aiuto di molti co-produttori ed arrangiatori, da Buddy Cannon a Katerine De Paul, Mac McAnally e Mickey Raphael. Alan Silverman, Sven Holcomb e altri, che alternano quel suono che si diceva all’inizio, tra un pop-rock, vogliamo chiamarlo soft rock, e un sound orchestrale, a tratti malinconico, a tratti anche pomposo, con svolte quasi obbligate nel songbook della grande canzone americana, di Leonard Bernstein e Sephen Sondheim. Non è certo un capolavoro assoluto, ma chi vuole ascoltare una delle più belle voci della canzone americana, ancora pura e cristallina a tratti, a dispetto del tempo che passa, qui troverà pane per i propri denti e anche alcuni artisti poco conosciuti che magari vale la pena di investigare. Partiamo proprio da uno di questi ultimi: Ari Hest è un nuovo (diciamo poco conosciuto, visto che ha già pubblicato una decina di album), cantautore di New York, che apre le danze con la title-track Strangers Again, una bella ballata pianistica mid-tempo avvolgente, dove si apprezza anche la voce di Hest che ha qualche punto in comune con quella di Nick Drake, anche a livello compositivo, con quei toni melanconici ed autunnali. Amy Holland è un’altra cantautrice newyorkese, con soli tre album pubblicati in 35 anni di carriera, ma la sua Miracle River è un’altra soffusa ballata elettroacustica che unisce la voce cristallina della Collins con il baritono di Michael McDonald, con risultati piacevoli anche se a tratti zuccherosi, che è il limite di McDonald quando non si dedica al soul o al rock.
Belfast To Boston è un brano di James Taylor, tratto da October Road del 2002, una bella canzone di stampo folk-rock, con Marc Cohn che fa le veci di Taylor in modo egregio, è sempre un piacere ascoltarlo. Anche When I Go, firmata dai poco conosciuti Dave Carter e Tracy Grammer https://www.youtube.com/watch?v=YLXpaTu3qEI , è un eccellente veicolo per ascoltare l’accoppiata con Willie Nelson, altro grande esperto dell’arte del duetto, bella canzone, tra country, folk e derive quasi celtiche. Make Our Garden Grow, dall’opera Candide di Leonard Bernstein, presenta un altro strano accoppiamento, questa volta con Jeff Bridges, che non è certo un virtuoso vocale e un po’ si perde nei florilegi orchestrali del brano, ma alla fine se la cava egregiamente, anche se il brano è “molto” crossover, quasi Bocelliano, più per amanti del musical che del rock. Feels Like Home è una delle canzoni più belle di Randy Newman, che però per non volendo sfigurare a livello vocale con il soprano della Collins ha mandato avanti a sostituirlo Jackson Browne, ed il risultato è uno dei brani migliori di questo CD. Thomas Dybdahl è un altro di quei nomi che vi dicevo varrebbe la pena di scoprire, cantautore raffinatissimo norvegese, ci propone, con un falsetto particolare, la sua From Grace, altro brano composito, molto adatto alle corde vocali della Collins. Di Bhi Bhiman vi avevo già parlato da queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2012/09/09/un-musicista-dallo-sri-lanka-questo-mancava-bhi-bhiman-bhima/, e si rivela partner ideale per la rilettura di uno dei pochi brani di Leonard Cohen che Judy Collins non aveva mai inciso, una sontuosa versione di Hallelujah, e non aggiungo nulla, anzi, bellissima!
Una rara concessione a sonorità più rock, con chitarre elettriche quasi spiegate, viene utilizzata per una energica versione di un classico di Ian Tyson Someday Soon, cantata con Jimmy Buffett, che per l’occasione rispolvera il sound country-rock delle origini, deliziosa. Aled Jones è un cantante e presentatore gallese, popolarissimo nel Regno Unito, adatto per il tuffo “diabetico” in una Stars In My Eyes, di nuovo con un alto tasso di zuccheri, diciamo non è tra le mie preferite del disco. Meglio, anche se siamo sempre più o meno da quelle parti, pop orchestrale estratto dai grandi Musical, per Send In The Clowns, il pezzo di Stephen Sondheim che però è stato anche il più grande successo discografico di Judy Collins nel lontano 1975, qui cantata insieme a Don McLean, un altro che ha sempre saputo mescolare il folk e la canzone d’autore con i brani scritti per Perry Como, il diavolo e l’acqua santa. E per concludere un altro brano scritto da un cantautore recente come Glen Hansard, nome peraltro già conosciuto ed emergente che ha un nuovo disco in uscita in questi giorni, Races è un altro dei brani più belli di questo album con le due voci che si amalgamano alla perfezione. Qui finisce la versione fisica e ci sarebbero i tre bonus della versione digitale, con la cover di Last Thing on My Mind di Tom Paxton, cantata con Stephen Stills, particolarmente bella.
Mi sono dilungato più del solito ma era l’occasione per parlare di una delle più grandi cantanti della musica americana, che almeno di nome tutti conoscono perché era il soggetto di una delle canzoni più conosciute della storia del rock, Suite:Judy Blue Eyes era infatti dedicata a lei. Ci sono sicuramente album più belli nella discografia della Collins, penso a Wildlowers, Who Knows Where The Time Goes, Whales And Nightingales, o anche i primi 5 acustici e folk, in anni recenti i tributi a Leonard Cohen e ai Beatles, oppure i tanti Live usciti negli ultimi anni, per festeggiare i 50 anni di carriera, ma questo Strangers Again conferma che la classe non è acqua.
Altre novità in uscita venerdì 18 settembre: prima di tutto il nuovo album solista di Keith Richards, Crosseyed Heart esce a 23 anni di distanza dal precedente Main Offender, ma il suo principale collaboratore è rimasto il batterista e produttore Steve Jordan, con l’aiuto di Waddy Watchel e Bernard Fowler. Quindici brani contenuti nel CD pubblicato dalla Republic/Universal (ma negli USA la catena Best Buy ne pubblica una versione con una traccia extra, che però è solo una versione alternata di Love Overdue:
1. Crosseyed Heart 2. Heartstopper 3. Amnesia 4. Robbed Blind 5. Trouble 6. Love Overdue 7. Nothing On Me 8. Suspicious 9. Blues in the Morning 10. Something for Nothing 11. Illusion 12. Just a Gift 13. Goodnight Irene 14. Substantial Damage 15. Lover’s Plea
Tra i musicisti presenti anche gli altri X-Pensive Winos Ivan Neville alle tastiere e Sarah Dash alla voce, oltre all’ospite Norah Jones che duetta con Keith in Illusion. Goodnight Irene è proprio il celebre brano di Leadbelly, l’unica cover del disco, mentre il singolo estratto dall’album è Trouble.
Altra giovinetta, alla tenera età di 76 anni Judy Collins pubblica un nuovo album Strangers Again, per la propria etichetta Wildflowers distribuzione Cleopatra; si tratta di un disco di duetti, credo una novità assoluta per “Judy Blue Eyes” e a differenza di altri prodotti similari della Cleopatra, questa volta sembra tutto materiale originale, niente brani riciclati da altri dischi e il cast che appare nel disco comprende sia grandi nomi della musica del passato quanto interessanti personaggi emergenti. Questa la lista delle canzoni con relativi ospiti:
1. Strangers Again feat. Ari Hest 2. Miracle River feat. Michael McDonald 3. Belfast To Boston feat. Marc Cohn 4. When I Go feat. Willie Nelson 5. Make Our Garden Grow feat. Jeff Bridges 6. Feels Like Home feat. Jackson Browne 7. From Grace feat. Thomas Dybdahl 8. Hallelujah feat. Bhi Bhiman 9. Someday Soon feat. Jimmy Buffett 10. Stars In My Eyes feat. Aled Jones 11. Send In The Clowns feat. Don McLean 12. Races feat. Glen Hansard
Un paio, Ari Hest (anche se ha pubblicato una quindicina di dischi fino a oggi e ha scritto la title-track del nuovo album https://www.youtube.com/watch?v=bjS9o5W2WSc ) e Aled Jones (cantante gallese anche lui con una discografia sterminata), non sono molto popolari, ma Michael McDonald, Marc Cohn, Willie Nelson, Jeff Bridges, Jackson Browne, Jimmy Buffett e Don McLean, in ordine di apparizione, non hanno certo bisogno di una presentazione, mentre gli emergenti Thomas Dybdahl, Bhi Bhiman e Glen Hansard, hanno già mostrato il loro valore in più occasioni (e di un paio abbiamo parlato nel Blog). E anche alcune delle canzoni sono molto celebri: pezzi di Leonard Bernstein, Sondheim, Randy Newman, James Taylor e l’amato Leonard Cohen con una versione di Hallelujah che non vedo l’ora di sentire!
Proprio Glen Hansard, uno dei partecipanti al disco della Collins, pubblicherà il 18 settembre per la Epitaph/Anti Didn’t He Ramble, il suo secondo album solista, dopo l’esordio con Rhythm And Repose del 2012, ed una lunga serie di EP usciti a cavallo dei due album. L’irlandese Hansard, ex Frames e Swell Season, si fa aiutare in questo disco da due Sam, Amidon e Bean (conosciuto dai più come Iron And Wine).
Questa è la lista dei brani, l’uscita del disco è anticipata dal video di Winning Streak che conferma la classe e le qualità di questo cantautore classico, uno dei migliori delle ultime generazioni, in possesso anche di una gran voce:
Tracklist 1. Grace Beneath The Pines 2. Wedding Ring 3. Winning Streak 4. Her Mercy 5. McCormack’s Wall 6. Lowly Deserter 7. Paying My Way 8. My Little Ruin 9. Just To Be The One 10. Stay The Road
Ormai sembrano averci preso gusto e vogliono recuperare il tempo perduto. Secondo disco in coppia per Dave Alvin & Phil Alvin, a poco più di un anno dal precedente Common Ground, uscito a giugno dello scorso anno e che celebrava la musica di Big Bill Broonzy, questo Lost Time è sempre un disco di blues, visto nell’ottica dei due ex Blasters, con brani di James Brown,Leadbelly, Willie Dixon, Blind Boy Fuller e Leroy Carr, e quattro pezzi dal repertorio del loro primo mentore, il grande Big Joe Turner:
1. Mister Kicks 2. World’s In A Bad Condition 3. Cherry Red Blues 4. Rattlesnakin’ Daddy 5. Hide And Seek 6. Papa’s On The House Top 7. In New Orleans (Rising Sun Blues) 8. Please Please Please 9. Sit Down Baby 10. Wee Baby Blues 11. Feeling Happy 12. If You See My Savior
A giudicare da un paio di brani che anticipano l’album in uscita per la Yep Rock, sempre il 18 settembre, hanno fatto centro ancora una volta.
e
Altro musicista che mi piace moltissimo è l’australiano Robert Forster, prima gloria nazionale nei grandissimi Go-Betweens, insieme all’altrettanto grande Grant McLennan, scomparso per un attacco di cuore nel 2006. Forster, era dal 2008, anno in cui venne pubblicato The Evangelist (peraltro molto bello, come sempre),che non pubblicava un disco nuovo e ora rompe il silenzio con questo Songs To Play che uscirà su etichetta Tapete Records (?1?), etichetta tedesca che ha distribuito anche gli ultimi album di Lloyd Cole, antologie escluse, a dimostrazione di un certo buon gusto. Vado sulla fiducia, poi in occasione dell’uscita effettiva ci sarà un post più sostanzioso, visto che nel Blog in passato non si è mai parlato di questa musicista.
Matt Andersen – Weightless – High Romance/True North/Ird
A giudicare dal titolo e dalla piuma che svolazza senza peso, Weightless, sulla copertina del disco, uno non potrebbe neppure immaginare che siamo di fronte ad una “personcina” che ha più il peso e le dimensioni di un Popa Chubby. Ma il talento, in questo caso, non è inversamente proporzionale: ogni etto contiene talento a profusione! Presentato sullo sticker della copertina come vincitore dell’European Blues Award e dell’International Blues Challenge uno si aspetterebbe un disco sulla falsariga di un Duke Robillard, un Matt Schofield, un Johnny Lang. Ma in effetti, anche se il Blues è presente, sarebbe come dire che i Jethro Tull sono una band di heavy metal? Come dite? Ah, gli hanno dato un Grammy proprio per quello! Strano.
Se dovessi definire lo stile di Matt Andersen. ottimo musicista canadese mi riferirei a gente come John Hiatt, il primo Joe Cocker, il Clapton influenzato da Delaney & Bonnie, la Band. Tutta musica buona: non per nulla il disco è stato prodotto dall’ex Blasters e Los Lobos, Steve Berlin, registrato ad Halifax, nella Nova Scotia canadese, i fiati (elemento integrante del sound) sono stati aggiunti ad Austin, Texas, mixato a Newbury Park, in California e masterizzato da Hank Williams (giuro, non III o Jr.!), in quel di Nashville, Tennessee, Se dovessi sintetizzare, gran bel disco, canzoni notevoli, splendida voce, ottimi musicisti. E qui, se volete, potete smettere di leggere, ma conoscendomi, sapete che non posso esimermi dall’elaborarne un po’ i contenuti, per cui vediamo cosa stiamo per ascoltare, anche se il consiglio sentito è di acquistare questo album https://www.youtube.com/watch?v=SqZtVvziHJA .
Dodici brani, tutti firmati dallo stesso Matt Andersen, quasi sempre con diversi parolieri e musicisti, uno migliore dell’altro: oltre alla produzione di Berlin il CD si avvale anche del decisivo lavoro del chitarrista Paul Rigby (quello dei dischi di Neko Case). Questo è l’ottavo album di Andersen, già il precedente Coal Mining Blues, prodotto da Colin Linden, era un bel disco https://www.youtube.com/watch?v=unh4gbcanoI , ma in questo Weightless la qualità migliora ancora, prendete la canzone d’apertura, I Lost My Way, un brano che mescola il meglio di Steve Winwood, John Hiatt e Delbert McClinton, un filo di Joe Cocker,la chitarra lavoratissima di Rigby, una sezione fiati che aggiunge pepe al brano, le vocalist di supporto, guidate da Amy Helm, che donano una patina soul à la Band, un’aria rootsy-rock che ricorda anche le mid-tempo ballads del Marc Cohn più ispirato, tanto per non fare nomi https://www.youtube.com/watch?v=GC8jw0LM_z0 .
My Last Day prosegue con questo groove rilassato ed avvolgente, anche le tastiere si fanno sentire, il cantato è sempre delizioso, una voce avvolgente che ti culla e ti scuote al contempo, sembra di essere in quel di Memphis per qualche session dei tempi che furono, una meraviglia https://www.youtube.com/watch?v=WKbht9nKFKI . Paul Rigby, ha un sound chitarristico inconsueto ma affascinante e tutti i musicisti sono al servizio delle canzoni e non viceversa, come ogni tanto accade. Anche So Easy, con una bella intro di chitarra acustica, ruota intorno alla voce espressiva di Andersen, qui ancora più suadente ed emozionante, e alla pedal steel incisiva di Rigby, che sorpresa, un cantante che sa esporre i suoi sentimenti attraverso la voce senza dovere urlare come un ossesso https://www.youtube.com/watch?v=tNEC6NVDRd4 . Per Weightless tornano i fiati e le voci femminili di supporto, il suono è tra la Band più soul e gli Stones di Honky Tonk Women, qui Matt lascia andare un po’ di più la voce e l’amico Mike Stevens aggiunge un gagliardo assolo di armonica. Alberta Gold è un’altra gioiosa ode ai grandi cantautori degli anni ’70, mossa e ritmata, con Rigby sempre magico alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=ek1-swOBYfY , Let’s Go To Bed viceversa è un gioiellino elettroacustico, molto intimista, “canadese” se vale come aggettivo, sempre con la voce sugli scudi e la chitarra che lavora di fino sullo sfondo.
The Fight ha un attacco molto pettyano, acustica e organo in evidenza, Berlin al piano (?!), l’elettrica minacciosa subito in primo piano, ma il brano prende quota quando la voce e la chitarra acquistano grinta e stamina per un crescendo entusiasmante, bellissima canzone. Drift away, nuovamente dolce e tranquilla, potrebbe ricordare l’Hiatt più bucolico, ma è solo l’impressione di chi scrive, potete sostituire con chi volete, solo gente brava mi raccomando! Ottima anche Let You Down, dove un mandolino, le armonie vocali avvolgenti e il lavoro di fino del batterista Geoff Arsenault, potrebbero ricordare ancora la Band, ma anche il sound del primo album di Bruce Hornsby, esatto, così bello. Un po’ di country-rock-blues per City Of Dreams, una fantastica ballata tra soul e Cooder,Between The Lines, con la slide di Rigby perfetta,e la conclusione con l‘errebì rauco di What Will You Leave. Cosa volere di più?
VV.AA. – Love For Levon – Time Life 2CD+2DVD/2CD+2BlueRay/2DVD/2BlueRay/2CD
Il titolo del post non si riferisce di certo alla moltitudine di persone che non ha potuto recarsi il 3 Ottobre dello scorso anno all’Izod Center di East Rutherford, New Jersey per assistere a questa magica serata in onore dello scomparso Levon Helm, ma ai musicisti che “avrebbero dovuto esserci” e per ragioni a me sconosciute non c’erano. Principalmente due: Robbie Robertson, per anni compagno di avventure con Levon all’interno di The Band, ed autore dell’80% del materiale proposto durante questo concerto (ma tra i due da anni correva sangue pessimo, peccato che neppure la morte di Helm abbia potuto medicare le ferite) e Bob Dylan, che iniziò a collaborare con la Band quando ancora si chiamavano The Hawks, e che fu sul palco con loro fino all’ultima scena di The Last Waltz (ma Bob è un maestro a “schivare” gli appuntamenti importanti, penso al concerto per George Harrison di qualche anno fa o, tornando un po’ più indietro nel tempo, a Woodstock, per la serie “Mi si nota di più se ci vado o se non ci vado?”). Ma poi penso anche ad Eric Clapton, che ha sempre sostenuto che Music From Big Pink fosse il disco che gli aveva cambiato la vita ampliando i suoi orizzonti, o a Van Morrison, che partecipò ad un album di The Band anche in qualità di autore (Cahoots l’album, 4% Pantomime la canzone), ed il cui suono nei primi anni settanta era molto simile a quello del gruppo di Robertson.
Ma parliamo di che invece in quella serata c’era…cioè tutti gli altri!!! Scherzi a parte, la lista di artisti che non ha voluto mancare l’ultimo omaggio a Levon (batterista, mandolinista, cantante di The Band, cioè uno dei gruppi più influenti della storia della musica, nonché apprezzato solista) è impressionante, si fa davvero quasi prima a nominare chi non c’era. Innanzitutto ben due house bands: la Levon Helm Band, capitanata dall’eccellente Larry Campbell, vero è proprio maestro di cerimonie della serata, con la figlia di Levon, Amy Helm (leader degli Ollabelle) e Teresa Williams (moglie di Campbell) alle voci, ed una All Stars Band comprendente gente come Don Was, Kenny Aronoff, Greg Leisz, Jim Weider e Rami Jaffee, con interventi qua e là di Steve Jordan, Jaimoe e G.E. Smith, oltre alla partecipazione in una manciata di brani sparsi di Garth Hudson, unico superstite di The Band oltre a Robertson e vero e proprio leader silenzioso del combo canadese.
Basterebbero solo i nomi citati fin qua, ma ancora più impressionante è la lista di special guests che si sono alternati brano dopo brano, tutti a tributare nel modo migliore il loro amore per Levon (il titolo del CD/DVD/BlueRay non è casuale, l’amore qui si percepisce eccome), in un concerto splendido, suonato e cantato in maniera fantastica, una serata di grazia che è anche uno dei migliori tributi di sempre. Un omaggio all’arte di Helm, certo (presenti anche alcuni brani tratti dai suoi ultimi due lavori solisti, Dirt Farmer ed Electric Dirt), ma anche all’epopea di The Band, un gruppo che ha davvero influenzato decine di musicisti (e quindi un tributo anche agli scomparsi Richard Manuel e Rick Danko, che una serata così dedicata a loro non l’hanno mai avuta).
Si parte subito forte con una versione calda e soulful di The Shape I’m In, con Warren Haynes primo ospite della serata, che suona alla grande e tira fuori il meglio dalla sua voce (si parla sempre della sua abilità chitarristica, ma è un cantante della Madonna), ottimo inizio; Warren rimane sul palco ed introduce l’amico Gregg Allman, ed i due, con il resto della band, ci regalano una versione elettroacustica da applausi di Long Black Veil, noto traditional inciso anche dalla Band: Allman sprizza carisma da tutti i pori, ed al secondo brano abbiamo già uno dei momenti magici del concerto, da pelle d’oca. Jorma Kaukonen propone una versione country-blues di Trouble In Mind di Big Bill Broonzy (e non di Dylan come indicato nel libretto…Dylan ha scritto un brano con questo titolo, relegato poi in un lato B del 1979, ma è completamente diverso), tratta da un suo album, River Of Time, inciso nella fattoria di Levon; poi è la volta di due brani per la house band, con Campbell come leader, una bella ed elettrica This Wheel’s On Fire ed una più raccolta Little Birds, con la Helm Jr. e la Williams protagoniste. Il secondo momento saliente arriva con Marc Cohn (in ottima forma fisica e vocale) , che propone la splendida Listening To Levon, da lui scritta proprio per Helm: una canzone fantastica, tra le migliori di Cohn, resa in modo impeccabile e con un filo di commozione. (E allora, tanto per parlare ancora degli assenti, perché non coinvolgere anche Elton John? Levon è senz’altro uno dei brani più belli dell’occhialuto cantante inglese).
Mavis Staples non la scopro certo io: tra le più grandi cantanti ancora in vita, ci delizia con una grintosa MoveAlong Train, scritta dal padre Roebuck “Pops” ed incisa da Levon su Electric Dirt: a quasi 74 anni Mavis è ancora una forza della natura. Life Is A Carnival, gioiosa e piena di suoni, è perfetta per AllenToussaint, grandissimo arrangiatore, ottimo pianista ma non eccelso come cantante: comunque se la cava più che bene; When I Paint My Masterpiece è affidata al grande John Prine, che appare invecchiato piuttosto male (e nelle interviste presenti sul secondo DVD ha proprio l’aria del vecchio pugile suonato): io amo Prine, ma stasera, pur impegnandosi al massimo, fornisce un’interpretazione un po’ monocorde, anche se parzialmente riscattata dall’house band che lo supporta. Anna Lee avrebbe meritato di meglio che Bruce Horsby, emozionato e un po’ stonato, ma l’accompagnamento per dulcimer e violino (Campbell) è toccante; ecco Jakob Dylan (almeno un Dylan c’è), look alla Uomo Vogue e buona voce per una versione tutta ritmo e swing di Ain’t Got No Home di Clarence “Frogman” Henry (era sull’album di covers di The Band, Moondog Matinee), ottima versione, ma secondo me Jakob ha perso un’occasione: avrebbe potuto infatti interpretare un brano del padre (sarebbe stata la prima volta) e creare un momento di grande valore emotivo, vista anche la somiglianza fisica impressionante con il genitore (Forever Young, nella cui versione originale tra l’altro Levon suonava, sarebbe stata una scelta perfetta).
L’unico momento negativo, purtroppo, riguarda la splendida Whispering Pines, che è una delle più belle canzoni scritte da Robertson, ma che viene affidata a Lucinda Williams, fisico da menopausa e voce da ubriaca, che tenta di rovinare il brano appiattendolo con il suo solito stile soporifero (so di attirare su di me le ire funeste del 90% dei lettori del Blog, ma io la penso così). Per fortuna che arriva il grande John Hiatt: Rag Mama Rag sembra scritta apposta per lui, ma John avrebbe il carisma e la voce anche per rendere appetibile un brano dei Backstreet Boys (da notare la presenza di Mike Gordon dei Phish al basso). David Bromberg è un altro personaggio quasi leggendario (e mi sta simpatico perché mi ricorda tantissimo mio zio da poco scomparso, scusate la divagazione personale), e la sua Don’t Do It, in coppia con Joan Osborne, delizia sia il pubblico che il sottoscritto, mentre la bella Grace Potter ci offre un altro momento top della serata, una versione da brividi di I Shall Be Released, grande presenza scenica e grandissima voce, pubblico in sala letteralmente ammutolito, e la stessa Grace che alla fine non riesce a trattenere le lacrime per la commozione. Altro che Lucinda Williams… Un’altra grande voce, molto simile peraltro a quella di Richard Manuel, se la ritrova Ray LaMontagne, e Tears Of Rage (con John Mayer alla chitarra) è una scelta perfetta per lui, un’altra interpretazione da pelle d’oca; sia Dierks Bentley che Eric Church sono due tra i più interessanti esponenti del new breed del country americano, ma obiettivamente penso che due canzoni a testa siano troppe: bastavano Chest Fever (con immancabile assolo di organo iniziale di Hudson) per Bentley e Get Up Jake per Church.
Non sono mai impazzito per John Mayer, ma almeno stasera si ricorda che quando vuole ci sa fare, e la sua versione di Tennessee Jed (sì, è proprio il brano dei Grateful Dead, ma lo ha inciso anche Levon) è decisamente azzeccata; bravo anche Joe Walsh (con Robert Randolph), che nelle interviste (sempre secondo DVD) sembra perennemente strafatto, ma sul palco si trasforma: Up On Cripple Creek è un brano che farebbe tremare i polsi a chiunque, ma Joe è prima di tutto un professionista esperto e se la cava alla grande. Ci avviamo al gran finale: i My Morning Jacket sono una grande band, e Jim James un leader sufficientemente carismatico, e quindi le loro versioni di Ophelia, una gioiosa esplosione di suoni, e It Makes No Difference, grandiosa, sono tra i momenti migliori del concerto. Per l’ultraclassico The Night They Drove Old Dixie Down Jim James e compagni sono raggiunti sul palco nientemeno che da Roger Waters, che esibisce anche orgoglioso (ed un po’ emozionato) un baseball hat donatogli da Helm al termine del concerto The Wall Live In Berlin del 1990, al quale tra l’altro lo stesso Helm, con Danko, Hudson e Sinead O’Connor contribuirono con il momento più toccante, una superba versione di Mother. Rimasto solo con la house band, l’ex Pink Floyd intona poi con Amy una commovente versione di Wide River To Cross, splendido brano di Buddy e Julie Miller ed una delle ultime incisioni di Levon, una rilettura appassionata che toccherà il cuore anche di chi i Floyd non li può vedere neanche in fotografia. Waters poi chiama tutti sul palco per il prevedibile gran finale di The Weight: ok, stiamo parlando di uno dei più grandi brani rock della storia, ma questa sera il gruppo di artisti sul palco aggiunge forse qualcosa in più, e l’emozione si può quasi toccare con mano. Alla fine tutti sorridenti e commossi, sia tra il pubblico che on stage.
Grandissima serata per un grandissimo della “nostra” musica (anche dal punto di vista umano), un vero e proprio atto d’amore.
Eric Burdon – ‘Til Your River Runs Dry – ABKCO Universal
Non una sorpresa, ma erano tantissimi anni che Eric Burdon non faceva un disco bello come questo ‘Til Your River Runs Dry, però, a conferma che la classe non è acqua (e nell’album l’acqua è veramente una metafora di vita), il grande cantante di Walker-on-Tyne, Inghilterra, 72 anni a maggio, realizza il disco della sua maturità, della terza età se volete. E che disco! Registrato sull’abbrivio dell’imprimatur ottenuto lo scorso anno al South By Southwest di Austin, dal sua grande fan Bruce Springsteen, che lo ha giustamente celebrato come uno dei più grandi cantanti bianchi della storia del blues, soul e rock, e sul palco, insieme, hanno cantato uno degli inni generazionali degli Animals, quella straordinaria canzone scritta da Barry Mann e Cynthia Weil, ma resa immortale dall’interpretazione del grande Eric (che se ha come fan numero 1 il Boss, ne ha uno non meno indemoniato in David Johansen).
Ma veniamo a questo album che se magari non è un capolavoro è sicuramente un disco di quelli solidi e poderosi, con tutti i pregi della migliore produzione di Burdon e forse, ma a cercare il pelo nell’uovo, ha degli impercettibili segni del passare del tempo nella voce che ogni tanto, ma appena appena, mostra delle piccole debolezze, che ce lo rendono ancora più umano. Lui, che la sua vita l’ha vissuta da vero rocker, anche troppo, gettando spesso al vento il suo talento vocale, in molti dischi che non rappresentavano al meglio le sue capacità di entertainer, ma avevano comunque quasi sempre almeno uno o due zampate da vecchio leone del rock. E forse ha insistito troppo sul suo repertorio classico, cantato e ri-cantato troppe volte, qualche volta con parziale successo, come nel violentissimo Sun Secrets dove rileggeva il repertorio degli Animals rifatto in ampie folate chitarristiche à la Rock’n’Roll Animal e altre volte meno, ma dal vivo è sempre rimasto un grandissimo animale da palcoscenico come posso testimoniare avendolo visto di persona, qualche “annetto” fa. Per fortuna questo CD è composto tutti da materiale scritto per l’occasione e da un paio di cover, mai incise prima, scelte con oculatezza.
La produzione è affidata a quel Tony Braunagel, batterista e bluesman, che suona nell’album, insieme allo stesso Burdon, e ad alcuni dei suoi soci nella Phantom Blues Band, come l’organista e pianista Mike Finnigan (uno dei pochi in grado di non far rimpiangere il vecchio Alan Price), il chitarrista Johnny Lee Schell (in alternanza con l’ottimo Eric McFadden), la sezione fiati composta da Joe Sublett e Darrell Leonard, più il bassista Reggie McBride, in rappresentanza del New Orleans sound (dove è stato inciso parte del disco) Jon Cleary al piano, le armonie vocali di Teresa James, blueswoman di valore, le percussioni di Lenny Castro e anche le tastiere del fido pard di Robert Cray, Jim Pugh, ma ce ne sono molti altri che sarebbe troppo lungo elencare, vi comprate il CD e li leggete nelle note. Si parte alla grande con Water, canzone ecologica che parla dello spreco delle risorse del pianeta, ma è anche un poderoso brano rock degno del miglior Bruce, con chitarre e organo che blueseggiano alla grande e la voce che, forse, ogni tanto, fa il verso a sè stessa, ma chi può fare Eric Burdon meglio dell’originale? E questo è uno dei brani che segnala quei piccoli segni di cedimento nella voce di cui vi dicevo, per il resto del disco immacolata nella sua potenza, ma anche qui non scherza comunque.
Memorial Day dedicata a tutti i morti delle guerre americane, dal ritmo scandito e con l’organo sempre in primo piano a fianco della chitarra, è cantata in modo commosso e partecipe seguita da una Devil And Jesus, gospel blues incalzante sulla religione, la voce spazia in tutta la sua gamma, dal falsetto al pieno regime di emissione, con coretti “devoti” e organo “malandrino”. Wait è una tersa ballata elettrocustica, con le percussioni di Castro a fare da contraltare alla voce misurata di Burdon e Old Habits Die Hard si avventura nei territori della politica con un riffare carnale rock degno dei tempi d’oro e le chitarre che fischiano e strepitano come sempre dovrebbe essere, mentre Bo Diddley Special è uno dei due omaggi ad uno dei suoi grandi eroi musicali, il beat è quello spezzato ed inconfondibile inventato da Ellas McDaniels, uno immagina le maracas che viaggiano a tutta velocità, qui degnamente sostituite dal drumming preciso di Braunagel, mentre i riff (giocate ad indovinare quali) di organo e chitarra circondano la voce di Eric. In The Ground, uno slow blues, nuovamente sui temi dell’ecologia, alterna quei tipici parlati di Burdon che erano tra gli antenati del rap e improvvise accelerazioni vocali con le armonie degli ospiti a cercare di incatenare la potenza del nostro amico mentre la band costruisce una bella atmosfera avvolgente e trascinante.
27 Forever (magari!) è un’altra ballata, di stampo soul, con i fiati a sottolineare una interpretazione vocale molto misurata e il tema della mortalità già affrontata ai tempi di When Was I Young, questa volta vista dall’altro di una maturità raggiunta, anche se non del tutto rassegnata. River Is Rising è il brano dedicato al dramma di New Orleans, e al dramma nel dramma di Fats Domino per alcuni giorni considerato disperso durante l’uragano Katrina e poi miracolosamente riapparso, la musica profuma di Lousiana e Burdon rispolvera quel parlar cantando che gli appartiene in modo totale, il tutto suonato divinamente dai musicisti del disco. Una delle due cover del disco è la bellissima Medicine Man che si trovava sul secondo disco di Marc Cohn, Rainy Season, che subisce il trattamento alla Burdon e diventa una intensissima e bellissima ballata blues, con la doppia tastiera e la chitarra in grande evidenza nella parte strumentale. Invitation To The White House è uno slow blues pianistico e cadenzato degno (anche a livello vocale) delle migliori interpretazioni di Eric, che richiede gli straordinari alla sua voce, poi reiterati in una tiratissima cover di Before You Accuse Me, brano di Bo Diddley che molti ricorderanno in una scintillante versione dei Creedence Clearwater Revival, ma anche questa di Eric Burdon ha un suo perché Blues e conclude degnamente un album che segnala il ritorno di una delle voci più belle della storia del rock ( e del blues, e del soul, già detto ma meglio ripetere)!