Italiani Per Caso. Da Genova, Paolo Bonfanti Exile On Backstreets – Non Solo Blues.

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Paolo Bonfanti – Exile On Backstreets – Club De Musique Records

E’ Rock, è blues, è musica di/da (canta)autore? Ardua questione, direi un po’ di tutto, ma soprattutto è un gran bel disco! Da solista dovrebbe essere l’11° disco di Paolo Bonfanti, ma se aggiungiamo Big Fat Mama (chi se li ricorda?) e collaborazioni varie, si superano abbondantemente le quindici uscite. Non male per un cinquantenne genovese che ha studiato alla Berklee School of Music e si è laureato al D.A.M.S. di Bologna con una tesi sul Blues, poi ci ha costruito una vita di musica intorno. Non sarà un disco di “vero” blues, perché sapete che c’è quella famosa teoria (smentita da decenni) che i bianchi, specie se europei (inglesi inclusi), non possono suonare la musica del diavolo, se poi sono italiani, mandolini e O’ Sole Mio, al massimo “Volare! Per fortuna, da un po’ di anni a questa parte, molti solisti e gruppi del Bel Paese se ne sbattono le balle di questo teorema e ci regalano fior di dischi, che, spesso e volentieri, sono meglio di quelli delle loro controparti americane, bianche o nere che siano.

E pensate che in America, ai Grammy, la categoria Blues è stata eliminata, conglobata nel settore “Americana” e Bonfanti, che se non lo sapeva forse se lo “sentiva, ha fatto un disco che rientra in questa fattispecie. Father’s Things, il brano che apre l’album, potrebbe essere una canzone di quando Springsteen usava la sezione fiati degli Asbury Jukes per unire il calore del soul al furore dei suoi pezzi rock (e dal vivo lo fa anche oggi, ogni tanto anche nei dischi), ma la slide che taglia in due il brano è tipicamente di Bonfanti e quindi blues. Break’em Chains sempre con una slide minacciosa e liquida, un tempo nereggiante e sincopato, ricorda molto il Cooder più rock-blues, quello di Bop Til You Drop, Borderline e Slide Area, miracolosamente tornato con l’ultimo Live In San Francisco. E non sono complimenti che faccio a casaccio. My baby can con il pianino saltellante di Henry Carpaneto e la chitarra “flat” ma sempre indaffaratissima di Bonfanti, è un blues più tradizionale con qualche reminiscenza del british blues frequentato anni fa.

Mentre Cards è un blues canonico, direi “ufficiale”, anche per la presenza di Fabio Treves all’armonica e di Marco Fecchio alla slide elettrica. Se chiudete gli occhi non vi trovate più nel New Mill Old Studio, che nonostante il nome è nei pressi di Genova o alla Libreria Labirinto di Casale Monferrato, dove è stato registrato il disco, ma in qualche fumoso locale di Chicago o Memphis. Black Glove è una sorta di political funky-rap-blues, con un florilegio di chitarre che spezzano la negritudine del brano e gli conferiscono un’aura più rock e leggermente sperimentale (e industriale)! Oh perbacco, cosa leggo, che sia per questo che me lo hanno dato da recensire, e che sarà mai questo Slow Blues For Bruno? Elementare Watson, un lungo strumentale dove la chitarra si divide la scena con uno strumento che non appare spesso in questo tipo di brani, la fisarmonica di Roberto Bongianino, bella idea ed ottima esecuzione di entrambi, a noi ci piace “O’ Blues”. Up To My Neck In You, dalle firme degli autori, A.Young, M.Young e B.Scott, non sembrerebbe un brano blues, sarà mica proprio quella? Ma sì che sono loro, gli AC/DC di Powerage, e quel B. sta per Bon (Scott), Bon(fanti) e soci, con “Rigo” Righetti che pompa il suo basso, lo trasformano in bel rock-blues duro e puro.

I’ll Never Get Out Of This World Alive profuma di  country, per via della pedal steel di John Egenes, ma anche perché l’ha scritta Hank Williams, però ci sono elementi cajun per via della fisarmonica e se devo dirla tutta mi ricorda anche il country’n’roll del vecchio Commander Cody. A questo punto un bel brano Claptoniano, di quelli vintage di Manolenta, ci sta proprio bene, l’occasione per affilare di nuovo la chitarra in una sapida Take Me Out che rispolvera anche un bel trio di voci femminili di supporto, come nei dischi belli degli anni ’70 del vecchio Enrico. E per la bellissima rock ballad che dà il titolo alla raccolta, tutti insieme appassionatamente, fiati, voci femminili, un bell’organo d’ordinanza, un sax à la Clarence e una voce più Bruce di Bruce, d’altronde se il brano si intitola Exile On Backstreets ci sarà un motivo, o no? Bello anche il testo della canzone. Poi, già che si è incazzato di gusto, per concludere il tutto, una I Hate The Capitalist System, un brano che viene dalla “Depressione”, anni ’30, una folk tune di quelle che si definiscono politiche, acustica nell’esecuzione, chitarra e fisa, ma durissima nei contenuti, forse in memoria delle lezioni ricevute una trentina di anni fa da Beppe Gambetta. Come già detto in apertura, semplicemente un bel disco, come si usa dire, caldamente consigliato!

Bruno Conti  

P.s E poi chi suona Little Wing avrà sempre il mio imperituro sostegno!

Due Serate A Houston, Texas! Eric Taylor – Live At The Red Shack

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Eric Taylor – Live At The Red Shack – Blue Ruby Music 2011

Entrare in possesso di questo CD, è stato come avvicinarsi al Santo Graal!. Ma certamente per quanto mi riguarda, ne è valsa la pena. Stiamo parlando di un disco dal vivo di Eric Taylor, un personaggio con una storia travagliata alle spalle, che mi porta ad accostarlo ad un altro grande cantautore che risponde al nome di David Munyon. Nato in Georgia, al ritorno dal Vietnam si stabilisce a Houston, e qui avviene il suo debutto come artista, e nei locali della città incontra i due musicisti che maggiormente lo influenzeranno, Townes Van Zandt e Guy Clark. Il matrimonio rapidamente svanito con Nanci Griffith, lo porta purtroppo ad essere un grande utilizzatore di droghe. Il primo disco Shameless Love è datato ’81, ma l’esordio a livello nazionale arriverà solo nel ’95 con l’omonimo Eric Taylor per la Watermelon, e il secondo cd Resurrect del ’98 per l’olandese Munich, due opere che lo faranno diventare, insieme con lo splendido Scuffletown del 2001, rapidamente oggetto di culto per gli amanti dei songwriters delle ultime generazioni. Non stupisce allora, che nel tempo le sue canzoni abbiano conosciuto “covers” di voci importanti quali la stessa Griffith, Lovett, Earl Keen, June Tabor, e lo stesso Steve Earle.

Questa nuova produzione per l’emergente Blue Ruby Music, sotto la produzione di Susan Lindfors Taylor, ci dà l’esatta misura della statura artistica dell’autore, con canzoni ricche e intense, servite su un tessuto sonoro elettroacustico, ben sostenute da ospiti importanti come la ex moglie Nanci Griffith, Lyle Lovett, James Gilmer, Denice Franke (una cantautrice che ho amato moltissimo sin dall’esordio del ’98 con You Don’t Know Me,  e l’ottimo Comfort del 2001), il nostro valido chitarrista Marco “Python” Fecchio, e la sempre splendida voce della moglie Susan Lindfors.

Il concerto lungo oltre 70 minuti, è stato registrato in due serate a Houston nello scorso Maggio, e il buon Eric con l’aiuto degli amici citati, ha rivisitato 21 suoi brani (una sorta di retrospettiva sulla carriera), tra i quali spiccano perle come Texas, Texas, una Tractor Song dall’incedere “Cooderiano”, una Visitor from Indiana degna del miglior John Gorka, e canzoni come Memphis Midnight in duetto con Lovett, Blue Piano con la Franke, Mission Door con Nanci, una Deadwood con la chitarra di Fecchio protagonista, dove un controcanto celestiale ci conduce in una sorta di paradiso cantautorale dove tutto sembra uscire alla perfezione.

Cinque anni dopo il suo ultimo album in studio Hollywood Pocketknife (2007), Taylor  con questo lavoro dal vivo (dove Eric e i suoi “friends” sembra che stiano suonando nel vostro salotto di casa), sforna il CD perfetto, con canzoni splendide, atmosfere giuste, gli amici di sempre, quasi che dopo aver subito un intervento chirurgico al cuore (triplo bypass), che gli ha permesso di continuare a scrivere e cantare, sia consapevole di aver avuto una seconda “chance”, quella che purtroppo non ha avuto un altro “grande” come Warren Zevon. Indispensabile e commovente.

Tino Montanari