Sono Tornati: Più Che Da 6 Almeno Da7 e ½ o 8 , Ottimo Anche Il Concerto Di Milano Con “Sorpresa”! Mandolin Brothers – 6

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Mandolin Brothers – 6 – Martinè Records/Ird

Diciamo che 6 dischi in 40 anni (quelli di carriera che festeggiano quest’anno) non sono proprio una media da record, considerando che uno è anche un EP con allegato un DVD, ma se consideriamo che fino al 2000, anno in cui esce il primo CD For Real, avevano pubblicato solo una cassetta autoprodotta (che non mi pare di avere mai sentito) ecco che la frequenza delle uscite si fa più ragionevole, considerando anche l’album solista di Jimmy Ragazzon del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/ , e poi, per essere onesti, gli unici che festeggiamo veramente 40 anni di carriera sono Jimmy e il chitarrista Paolo Canevari, gli altri alla data di fondazione del gruppo probabilmente non erano ancora nati (confermato!) o andavano all’asilo o alle elementari. Comunque, come si è soliti dire, quella che conta è la qualità, e nei loro dischi non è mai mancata, come testimonia anche questo nuovo “6”: 11 brani in tutto, di cui uno scritto da Jono Manson, che è anche il produttore, confermato dopo il precedente Far Out  , e una cover di The Other Kind di Steve Earle, sorta di inno generazionale come dice Jimmy, magari meno conosciuto di altre canzoni del cantautore texano, ma amato da tutti i componenti della band.

Nelle altre 9 canzoni Ragazzon appare come autore e co-autore in sei, con anche Riccardo Maccabruni e Marco Rovino che contribuiscono in modo consistente, e pure Canevari è co-autore di due brani, tra cui la celebrativa e suggestiva 40 Long Years, brano in cui appare il vecchio mandolinista (e chitarrista) del gruppo Bruno De Faveri. Tra gli ospiti, ai cori in It’s Time, il cantautore alessandrino Dado Bargioni, e alla chitarra, nella potente Bad Nights, il genovese, ma piemontese acquisito, Paolo Bonfanti. Il disco mi sembra un filo più rock del precedente, ma forse è solo una impressione, diciamo più elettrico, c’è un po’ meno blues, ma ci sono i soliti punti di riferimento della buona musica americana, Dylan, Springsteen, gli Stones (ops, diciamo del periodo americano),Allman Brothers, ovviamente Earle, la West Coast, i Little Feat, e potremmo andare avanti per anni. Purtroppo anche in questa nuova prova, a differenza di altri, magari anche bravi, che di recente sono usciti di melone, niente trap, indie, electro,  o qualche bel duetto hip-hop, anzi si dice featuring, si chiama ironia prima che qualcuno fraintenda. Tornando ai Little Feat, quando è partito il primo brano del CD, My Girl In Blue, mi sono chiesto se non mi avessero fatto uno scherzetto sostituendo il disco con uno della band di Lowell George, ma poi la voce era diversa, quella di Ragazzon, più matura e ben definita, grazie anche all’ottimo lavoro di produzione di Manson sembra addirittura migliorata, altri 40 anni e canterà meglio di Mick Jagger o Van Morrison: ma il tiro della slide, Rovino per l’occasione, e il groove, sono quelli, con la ritmica di Joe Barreca e Daniele Negro sul pezzo, l’organo di Maccabruni insinuante a spalleggiare la slide in gran spolvero e anche belle armonie vocali, ottima partenza.

C’è voluto tempo per completare questo nuovo disco, ma valeva la pena di aspettare, tutto è stato fatto con molta cura per i particolari, e le canzoni si ascoltano con grande piacere, come conferma l’incalzante Down Here, un solare ed avvolgente brano country-rock, o preferite Americana che fa più figo? Con un testo  ricco di speranze e resilienza, anche se non privo di note pessimiste, ma la musica vibra vigorosa, tra acustiche, elettriche tintinnanti e il pianoforte, quasi come i Byrds quando cantavano Dylan, con Roy Bittan al piano. It’s Time, con una melodia circolare, è più lenta e riflessiva, un mid-tempo, sempre con un bel suono delle pungenti chitarre elettriche, ottimo il piano e le armonie vocali più complesse, grazie alla presenza di Bargioni, melodie che profumano di West Coast; Face The Music, il pezzo scritto da Jono Manson è un R&R di quelli gagliardi, riff quasi stonesiano, ritmi  accelerati e chitarre sempre vibranti, fino a un cambio di tempo nella parte centrale che ci fa tuffare dalle parti di New Orleans, con slide e solista che tagliano l’aria, quasi come se i Little Feat ci fossero ancora (RIP Paul Barrere).  A Sip Of Life è una sorta di ondeggiante valzerone rock, cantato a due voci  dagli autori Maccabruni e Rovino, con un “piccolo” aiuto di Jimmy, anche all’armonica, mentre Lazy Days dell’accoppiata Manson/Ragazzon è più riflessiva ed intima, dolce e malinconica, elettroacustica, raffinata e con echi californiani, o visto l’autore, anche New Mexico. Lost Love è uno due brani firmato dalla vecchia guardia, con Canevari che si concede qualche soprassalto southern, tra chitarre “riffatissime”, organo d’ordinanza e sezione ritmica decisamente energica, fino alla coda chitarristica che dal vivo farà un figurone in concerto.

If You Don’t Stop di Maccabruni, tra mandolino e fisarmonica, ha un’aria più campestre e pastorale, grazie anche ad un bel intervento di una national steel nella parte centrale. Bad Nights è uno di quei brani elettrici tipici di quando la band inizia a tirare di brutto, tra folate di rock, come dicono gli americani che se intendono “firing on all cylinders”, avete presenti quei pezzi  sudisti degli Outlaws, quando le chitarre, anche Bonfanti che si aggiunge al festino, si sfidano a viso aperto, nel disco si interrompe all’improvviso, ma dal vivo prevedo sfracelli e comunque l’ascoltatore gode come un riccio. Il brano successivo, introdotto da un mandolino, sembra quasi una canzone di Steve Earle, e in effetti lo è, un sentito omaggio a Mr. Earle, una splendida versione di The Other Kind, uno di quei pezzi dove i Mandolin’ Brothers sono maestri nel convogliare le atmosfere quasi epiche di certe composizioni  di Steve, una meraviglia, tra mandolini, fisarmoniche e le citazioni del mito americano nel testo. A chiudere arriva 40 Long Years https://www.youtube.com/watch?v=pWec4JhLhqo , una sorta di autocelebrazione, con De Faveri della partita, ancora mandolino, fisa, chitarre acustiche in evidenza, e Jimmy che nel testo butta lì piccole citazioni, uno “Still Got Dreams” qui, un “Willin’” là, uno “Sleepless nights” sopra, sarà voluto? Glielo chiederò (NDB Ha confermato!): il risultato comunque è da veri Mandolin’ Brothers, quelli di un tempo ma anche quelli di oggi. Direi che più che 6 gli darei un bel 7 e ½ o 8!

Bruno Conti

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P:S. Spazio Teatro 89 Milano – 30 Novembre 1989

Ieri sera c’è stato anche il concerto di presentazione a Milano: di fronte ad un teatro quasi esaurito la band ha sciorinato l’album integralmente, più o meno anche seguendo l’esatta sequenza dei brani del disco. Jimmy aveva un principio di bronchite con raucedine, ma con la sua elegante camicia laotiana (così mi è stato detto) ha applicato la solita formula dello “show must go on” e se l’è cavata più che egregiamente. Come è noto i Mandolin’ Brothers dal vivo, come direbbe Abatantuono, sono “una putenza” e anche ieri sera non si sono smentiti: partenza a tutta slide con una gagliarda My Girl In Blue, e da lì in avanti non ce n’è stata per nessuno, Dado Bargioni è salito sul palco per It’s Time, Face The Music il brano di Jono Manson spostato più avanti nella scaletta, ma a questo punto accade l’imponderabile: un bel blackout improvviso e tutti al buio senza corrente. Dopo un attimo di sconcerto vengono serrate la fila e si procede in versione unplugged (ma senza microfoni), Bruno De Faveri sale sul palco in anticipo e viene improvvisata all’impronta una 40 Long Years acustica. Il pubblico approva e allora vai con Willin’ dei Little Feat Sweet Virginia degli Stones. Poi quando torna la corrente si provvede a completare a tutto R&R una sapida Face The Music, seguita da If You Dont Stop di Maccabruni. A questo punto sale sul palco anche Paolo Bonfanti (di cui è uscito di recente, insieme a Martino Coppo, un bellissimo Pracina Stomp, prodotto dal grande Larry Campbell, prossimamente sul Blog), e Jimmy giustamente dice “se ce l’abbiamo perché usarlo per un solo brano?”, e allora vai con la dylaniana Scarlet da Still Got Dreams e poi una poderosa Talk To Your Daughter di JB Lenoir (l’unico blues puro della serata), con trazione a tripla chitarra + armonica e fisa, con Canevari e soprattutto Bonfanti e Rovino, di fianco sul palco, che “se le suonano” di brutto, prima di ribadire, ovviamente con Canevari, in Bad Nights, con una vorticosa cavalcata chitarristica a tre, in pieno trip southern, che quando vogliono non ce n’è per nessuno. The Other Kind di Steve Earle è un tripudio di mandolini e fisarmoniche. Bombay Skyline è l’occasione per (ri)portare sul palco De Faveri e di fare un omaggio al “Fat man In the Bathtub” ovvero Lowell George, con un ritmo, ca va sans dire”, ondeggiante, alla Little Feat (italiani). 40 Long Years ci riporta a un suono più rootsy per il finale (del disco e del concerto), ma tornano, con Bargioni che canta una strofa, per l’omaggio a Dylan di Went To See The Poet, sempre da Still Got  Dreams,  che viene poi suonata, alla Born To Run di Springsteen.

Infine tutti e nove i musicisti insieme appassionatamente sul palco per un tributo al R&R ad alta densità di ottani dei Blasters, con una deragliante So Long Baby Goodbye. A questo punto, come Yanez, visto l’abbigliamento, Jimmy ci saluta e va a fumarsi l’ennesima sigarettina.. 

Stanno Tornando! Mandolin’ Brothers, Sabato 30 Novembre Allo Spazio Teatro 89 Di Milano Presentazione Del Nuovo Album “6”

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Ah, quei bei titoli di una volta, “6”, sarà mica per caso il sesto album della band pavese (diciamo di Voghera e dintorni)? Certo che sì: a cinque anni dal precedente album Far Out, e a due anni dall’uscita del disco solista di Jimmy Ragazzon,i Mandolin’ Brothers pubblicano un nuovo album anche per festeggiare 40 anni di carriera (ok i dischi hanno iniziato a farli parecchi anni dopo, ma non stiamo a spaccare il capello in quattro, anche perché non per tutti ce ne sono ancora molti). La formazione si è stabilizzata da parecchi anni in un sestetto, dove oltre a Jimmy, voce solista, armonica e chitarra acustica, ci sono Marco Rovino, chitarre, mandolino e voce, Paolo Canevari, chitarra elettrica e slide, Riccardo Maccabruni, piano, organo, fisarmonica e voce, Joe Barreca, basso e Daniele Negro, batteria.

Per questa serata speciale, che si terrà alla Spazio Teatro 89 a Milano in Via F.lli Zoia 89, ci saranno alcuni ospiti, non a sorpresa, visto che sono annunciati Paolo Bonfanti, Bruno De Faveri e Dado Bargioni; non ci sarà Jono Manson, che ha prodotto il nuovo album ai suoi Kitchen Sink Studios di Santa Fé nel New Mexico, disco che è stato registrato nel corso dell’ultimo anno tra i Downtown Studios di Pavia e il Raw Wine Studio di Buffalora (PV), Jono che sarà probabilmente presente nelle date di febbraio del tour. Il disco riporta nove nuove composizioni della band, un brano inedito di Jono Manson e una cover di Steve Earle, da sempre uno dei preferiti del gruppo, insieme agli amati Bob Dylan, Stones, Little Feat e ai grandi bluesmen della tradizione della musica americana, tanto per citare solo alcune delle influenze che animano la musica dei sei: quindi blues, rock, country, folk, roots music, vogliamo chiamarla Americana (quello che si offende se usi il termine è Dan Stuart dei Green On Red)? Ovviamente il concerto prevede, oltre alla esecuzione dei nuovi brani, anche una carrellata di canzoni dai vecchi album e qualche cover succosa scelta nel loro sterminato repertorio.

Che altro dire? Il prezzo del biglietto sarà 13 euro, 10 euro quello ridotto. Poi la settimana prossima, o comunque non appena in possesso del CD, che verrà venduto pure al Teatro, recensione dell’album sul Blog. Non mi rimane che dirvi di intervenire numerosi: se li conoscete già è quasi pleonastico dirlo, ma se non li avete mai visti dal vivo (vedere sopra), si tratta di una esperienza da fare assolutamente, in quanto siamo di fronte ad una delle migliori band in circolazione, e non solo in Italia.

Bruno Conti

Jimmy Ragazzon Intervista E Concerto: Una Valigia Piena Di Canzoni!

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Una veloce premessa, questa è una intervista che ho realizzato insieme a Jimmy per il Buscadero, e quindi la potete leggere anche sul numero di Febbraio della rivista, in edicola e nei punti vendita in questi giorni. Aggiungo anche che in virtù dell’amicizia (spero) che mi lega al musicista di Voghera gli ho chiesto se avrà voglia in futuro, tra un impegno e l’altro, di tornare a scrivere qualcosa per il Blog. Considerando che proprio per le sue collaborazioni avevo aperto una categoria specifica di Post sul Blog, ovvero “Da Musicista A Musicista”, mi ha dato la sua disponibilità senza impegno, per cui quando avrò qualche parto del suo inegegno ve la proporrò sul Blog ( e scrivendolo qui lo inchiodo alle sue responsabilità, scherzo!). Alla fine dell’intervista trovate anche il resoconto del concerto di Milano del 13 gennaio scorso. Quindi buona lettura!

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Quasi sul finire dell’anno scorso un paio di musicisti italiani dell’area pavese (l’altro è Ed Abbiati) hanno dato alle stampe dei dischi di musica chiaramente ispirati dalle loro passioni per il suono che siamo soliti definire Americana, roots music, ma anche i più tradizionali folk e country, senza dimenticare il blues ed il bluegrass, soprattutto nel caso del primo disco solista di Jimmy Ragazzon, quel Songbag che esce dopo oltre 35 anni (diciamo 37, quasi 38) di onorata carriera con la sua band dei Mandolin’ Brothers (ecco la recensione http://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/. Visto che il prima lo conosciamo bene, siamo andati a chiedergli con alcune domande la genesi del disco e i futuri eventuali sviluppi.

Allora, Jimmy, immagino che il disco, molto bello, uno dei migliori di questo scorcio finale di anno, non sia nato come una improvvisa Epifania, ma venga da un desiderio di esplorare anche cammini contigui a quelli della musica del gruppo, cercando di usare un suono “più austero” ma sempre ricco di sonorità brillanti e ben definito nei particolari. Quale è stato , se c’è stato, il fattore scatenante, oppure si è trattato di un processo lento e ponderato? Insomma ti sei svegliato una mattina, e invece di farti una shampoo (come diceva Gaber) hai deciso di lanciarti in un disco solista o è stato un desiderio covato per anni e portato a compimento?

Pensavo ad un album totalmente acustico da molto tempo, che contenesse alcune canzoni nate per essere suonate in quel modo, senza troppe elucubrazioni ed arrangiate in modo scarno ma spontaneo. La mia idea era quella di suonare i pezzi, correggere eventuali pecche e poi registrare, senza pensarci troppo e senza rivedere gli arrangiamenti più volte. Volevo anche registrare ogni singolo brano con tutti, o quasi, i musicisti contemporaneamente in studio, per ottenere un feeling unico e seguire il flusso del momento. Il risultato finale è molto vicino a questa mia idea di base e ne sono contento.

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 Della “tua” band appare solo Marco Rovino, che peraltro ha un ruolo decisivo, sia come autore che musicista nell’album. Gli altri ottimi musicisti italiani come li hai scelti?

Ho conosciuto Paolo Ercoli, Rino Garzia e Luca Bartolini, cioè i musicisti con cui suono dal vivo Songbag, nel corso degli anni. Conoscendo le loro indubbie qualità tecniche e la loro predilezione per la musica acustica, li ho coinvolti nel progetto, lasciando che ognuno di loro si esprimesse e portasse idee e suggerimenti. Il loro apporto è stato fondamentale, anche nei rapporti interpersonali, basati sull’amicizia ed il rispetto reciproco. Comunque in un paio di brani ci sono altri due Mandolins, cioè Joe Barreca e Riccardo Maccabruni. Senza dimenticare Chiara Giacobbe, Roberto Diana, Maurizio Gnola e tutti quelli che hanno collaborato, non ultimo Stefano Bertolotti, della Ultra Suond, che mi ha offerto la possibilità di realizzare questo mio progetto.

Ed al tuo fianco, anche questa volta c’è l’immancabile Jono Manson. Quale è stata questa volta la sua funzione nell’economia del disco?

Jono ha mixato e masterizzato l’album, dando anche preziosi suggerimenti, con tutta la sua esperienza e la sua cultura musicale. Ha evidenziato al meglio il suono del legno degli strumenti, che era quello che cercavo, rendendolo il più caldo e naturale possibile. Inoltre mi ha ancora una volta stupito, inserendo un banjo tenore in 24 Weeks, che trovo molto bello e diverso rispetto al suono del resto delle canzoni.

E ancora, come sei arrivato alla scelta delle due cover inserite nell’album? Due dei tuoi preferiti assoluti: Dylan quasi inevitabile, ma perché quella canzone e Guy Clark, immagino altro punto di riferimento anche nei tuoi ascolti come appassionato di musica?

Ho sempre amato Dylan, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Ho pensato a come avrebbe potuto suonare Spanish Is The Loving Tongue, diciamo nel periodo inizio anni ‘70 e di conseguenza ho creato un arrangiamento che si potesse avvicinare a questa mia fantasticheria. Anche per Guy Clark ho sempre avuto una grande ammirazione e The Cape è una delle sue perfect songs, in cui testo e linea melodica si coniugano magistralmente. E poi che il ragazzino con il suo logoro mantello riuscisse finalmente a volare, malgrado la dura realtà e contro il parere di tutti…beh… è una gran bella storia.

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Torniamo alla creazione delle canzoni contenute nel disco. Sono tutte nuove, scritte in tempi recenti o ce ne sono alcune che “covavi” da tempo e non avevi mai utilizzato negli album dei Mandolin’ Brothers perché non le ritenevi adatte allo stile del gruppo?

Sono tutti brani nati nel corso di questi ultimi anni, diciamo post Far Out. Come MB abbiamo suonato parecchie volte con la line up acustica e certe sonorità, la rilassatezza delle esecuzioni, il loro soft mood, mi hanno definitivamente convinto ad iniziare il progetto Songbag, visti anche gli impegni personali del resto della band, che avrebbero comportato poco tempo a disposizione per pensare ad un nuovo disco dei MB. Comunque penso che certe canzoni e soprattutto certi testi, dovessero essere proposti in maniera più personale e diretta anche per i temi trattati, spesso autobiografici.

E, domanda collaterale, che si aggancia agli eventuali futuri sviluppi citati all’inizio: ne avete incise altre poi non usate nel disco, magari ci sono state altre cover papabili che poi non sono state utilizzate?

 Sono rimasti fuori sostanzialmente solo un paio di pezzo miei ed altrettante cover, come Friend Of The Devil dei Grateful Dead, che comunque eseguiamo in concerto.

 L’idea di fare un disco acustico era prevista fin dall’inizio oppure era solo una delle opzioni a disposizione? Magari un bel disco di blues elettrico o da cantautore “impegnato” non sarebbero stati male?

 No, doveva essere fin dall’inizio un disco acustico con le mie canzoni. Credo che Dirty Dark Hands, Sold (ispirata da una poesia di P. B. Shelley) e Evening Rain, si possano considerare canzoni impegnate a sfondo sociale e/o quantomeno piuttosto esplicite del mio modo di pensare, almeno nel testo. Di certo mi piacerebbe molto fare un album di blues elettrico rigorosamente old style, come il bellissimo ultimo Stones, con suoni sporchi e ruvidi. Non è detto che prima o poi non si riesca a realizzare anche questo progetto.

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Dicevi che alcuni testi dei brani contenuti nel disco hanno anche connotati autobiografici, vuoi elaborare questo tuo pensiero e raccontare di quali canzoni si tratta?

D Tox Song, che parla di un periodo oscuro e pesante della mia vita. 24 Weeks ovvero “della risoluzione del caso” cura & salute…In A Better Life, su quello che ci rimane verso la fine, nel mio caso la musica, la strada percorsa e le persone importanti che non posso assolutamente dimenticare. Ci sono comunque altri riferimenti in altri pezzi, ma sarebbero troppi da spiegare. Credo comunque che sia sempre meglio scrivere di quello che conosci, che provi o che pensi.

Ho visto una delle date del tuo tour solista a Milano e devo dire che suonate veramente in modo splendido, questo può voler dire che ci saranno altri sviluppi futuri anche in questa tua carriera come solista o i Mandolin’ Brothers rimangono comunque il progetto primario?

I MB rimangono ovviamente il mio progetto principale, con l’apertura del cantiere per il nuovo album a breve, anche se ci vorrà un bel po di tempo prima di chiuderlo. Per quanto riguarda Songbag e la collaborazione con The Rebels, intendo portarla avanti diciamo in parallelo, visti i riscontri molto positivi dell’album, dei primi concerti ed il fatto che stiamo bene insieme e ci divertiamo, soprattutto quando ci lanciamo in “inusuali” idee di arrangiamenti per brani nuovi o per cover non proprio ortodosse nel nostro genere musicale.

Tra l’altro chiacchierando fra di noi ad un certo punto era saltata fuori anche la faccenda che una canzone di Songbag “Evening Rain” era stata scelta come Track Of The Week della versione on line della rivista Classic Rock UK, in lizza anche contro i Rolling Stones. E poi la settimana successiva è stata scelta come prima classificata dal voto dei lettori. Quando hai visto che avevi battuto gli amati Stones cosa hai pensato?

Che c’era qualcosa che non andava, che non aveva alcun senso. Siamo sinceri: ma quando mai? Di certo molti amici mi avranno aiutato votandomi dall’Italia e diciamo che gli Stones o Iggy Pop non avessero tutto quell’interesse per questa classifica settimanale…per usare un eufemismo… Rimane comunque il piacere e la grande soddisfazione di aver vinto un contest di una delle riviste musicali più prestigiose d’Europa, non solo con un mio brano, ma anche tratto dal mio primo album solo.

E infine domanda classica: quali sono i tuoi dischi da isola deserta. Almeno quelli di oggi, perché poi si sa che le preferenze cambiano di continuo?

Eccone alcuni, ed è molto difficile che io possa cambiare idea su questi capolavori…

Bob Dylan: Highway 61 Revisited. Rolling Stones: Exile On Main Street

David Crosby: If I Could Only Remember My Name. The Beatles: White Album

The Clash: London Calling. Bob Dylan: The Freewheelin’. Muddy Waters: Hard Again.

Tom Waits: Rain Dogs. Mississippi John Hurt: The Best Of. Little Feat: Waiting For Columbus. Neil Young: Tonight’s The Night and so on…

Il Concerto

La sera del 13 gennaio al Nidaba di Via Gola 12 a Milano (un piccolo accogliente locale dove si ascolta musica gratis, spesso ottima, a due passi dai Navigli, di recente è stato insignito dell’Ambrogino D’Oro, benemerenza civica milanese, per vent’anni di onorata carriera nelle serate musicali della città meneghina) si tiene la prima data del 2017 del tour di Jimmy Ragazzon & The Rebels: per presentare l’album Songbag di cui si parla diffusamente nell’intervista. Gran bel concerto con una serie di ottimi “pickers” italiani che non hanno da invidiare ai migliori musicisti americani: a guidare le danze Jimmy Ragazzon, voce solista e armonica, con Marco Rovino, anche lui dei Mandolin’ Brothers, chitarra acustica, mandolino e armonie vocali (molto funzionali all’atmosfera musicale che si viene a creare), Paolo Ercoli al dobro, un vero virtuoso dello strumento che non ha nulla da invidiare (secondo me) a Mike Auldridge dei Seldom Scene o a Jerry Douglas, alla chitarra acustica e voce Luca Bartolini, al contrabbasso, con e senza archetto, Rino Garzia Ospiti speciali della serata Edward Abbiati dei Lowlands che duetta con Jimmy in una bellissima versione a due voci di Don’t Think Twice Is Alright dell’amato Bob Dylan e al mandolino aggiunto Paolo Monesi, vero protagonista, con gli altri, di una versione fantastica, lunga e molto improvvisata, di E.M.D. del David Grisman Quintet.

Tra le altre chicche della serata, in apertura, una rilettura acustica eccellente di Friend Of The Devil, che genera la gag del “presunto zio” di Garzia, Jerry Garcia, autore del pezzo, una Fortunate Son dei Creedence che diventa quasi un pezzo dei Dillards o dei Country Gazette, a tutto bluegrass. E ancora, sul lato blues, Bye Bye Blackbird di Sonny Boy Williamson II, solo voce, armonica e contrabbasso, una When I Paint My Masterpiece, il pezzo di Dylan interpretato dalla Band su Cahoots. Non mancano nei bis finali anche Swing ’42 di Django Reinhardt via David Grisman, ancora bluegrass “progressivo” o Dawg Music se preferite, con Monesi di nuovo aggiunto al mandolino, e un altro gagliardo blues Key To Highway di Big Bill Broonzy, che molti ricordano nelle versioni ripetute di Eric Clapton. In mezzo molte, forse tutte, meno una, le canzoni di Songbag, in eccellenti versioni, e anche riletture in questa veste brillante acustica di alcuni brani del repertorio dei Mandolin’ Brothers. Più di due ore di ottima musica eseguita con classe, nonchalance, sense of humor e grande partecipazione del pubblico, tra cui si aggiravano anche Mandolin’ Brothers assortiti, mogli e fidanzate. Se riuscite ad andare a vederli in concerto non fatevi sfuggire l’occasione, ci saranno ulteriori date dal vivo anche a febbraio, marzo ed aprile, inframmezzate a quelle con il gruppo.

Bruno Conti

In Viaggio In Italia, Con “Gruppo” Al Seguito. Richard Lindgren – Malmostoso

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Richard Lindgren – Malmostoso – Rootsy/Ird

Qualche mese a fa, a fine ottobre, vi avevo annunciato la serata milanese di presentazione del nuovo disco di Richard Lindgren Malmostoso, concerto che poi si è tenuto regolarmente, in una uggiosa serata milanese, con ottimi riscontri qualitativi e discreta presenza di pubblico.. Lindgren è uno svedese del Sud, viene da Malmo, e per l’occasione ha unito le forze con i “nordisti” italiani Mandolin’ Brothers, sia per la registrazione del disco come per la tournée italiana, che tra pause e riprese, è tuttora in corso. Il buon Richard è uno svedese anomalo, un buon performer in grado di intrattenere amichevolmente il pubblico anche con piccoli trucchetti e gag divertenti, oltre alle magie sonore imparate in lunghi anni on the road, e agli immancabili racconti di vita e piccoli aneddoti che tratteggiano lo spirito delle sue canzoni, che poi vivono e respirano in proprio grazie al suo talento.

Con la band pavese Lindgren ha costituito un sodalizio dai contorni quasi telepatici per questo nuovo album, disco che ruota attorno ai nuovi brani scritti dall’autore svedese nel corso dei suoi continui e ripetuti soggiorni italiani, i soggetti delle canzoni, e spesso i titoli, rimandano al Belpaese, ma la musica e i contenuti sonori sono quelli di un cantautore dal taglio internazionale, di grande talento, ispirato ed influenzato dall’opera dei grandi cantautori americani e inglesi, oltre che dalla poesia e dalla letteratura, nomi come Dylan, Waits, Morrison non vengono citati a sproposito tra le fonti di ispirazione del nostro, ma nella sua musica si ritrovano anche echi dei grandi cantanti texani, da Townes Van Zandt in giù,  qualcuno ha citato pure Jack Hardy, io potrei aggiungere, non per il tipo di voce, ma per le atmosfere sonore che evoca, uno come Eric Andersen, raffinato ed avvolgente, il tutto grazie “alla tristezza, la rabbia, la brama di vivere e l’umorismo”, che le sue canzoni spargono, ipse dixit Mary Gauthier, sua grande fan.

Il sodalizio con i Mandolin’ ha aggiunto, in alcuni brani, anche elementi blues e tratti rock più mossi e grintosi, ma Richard Lindgren rimane fondamentalmente un folksinger, uno storyteller, uno che è sempre innamorato di qualcosa, delle donne, dell’Italia, della poesia, del vino, tutti elementi che inserisce nelle sue canzoni, sempre uguali e sempre diverse tra loro. Il disco è uscito nell’autunno 2016 (e infatti l’ho inserito tra le mie scelte nei migliori album dell’anno appena passato) ma mi è sembrato giusto, anzi doveroso, sia pure in ritardo, parlarne in modo più diffuso e particolareggiato, visto che Malmostoso, se non lo avete anche ancora ascoltato, o eventualmente, acquistato, merita tutta la vostra attenzione. Chi è lombardo conosce il termine “malmostoso” (anzi in dialetto sarebbe malmustus), per gli altri forse è difficile da spiegare, ma, come dice la Treccani potremmo dire che è una persona musona, scontrosa, sgarbata, anche lunatica e stramba, più che il “sad and gloomy” citato nelle note del libretto, e penso che il titolo sia stato comunque usato anche per i significati multipli che evoca.

Nel disco, si diceva, suonano i Mandolin’ Brothers al gran completo, Jimmy Ragazzon (voce, armonica e chitarra acustica), Paolo Canevari (chitarre, slide & National Steel), Marco Rovino (mandolino, chitarre, voce), Riccardo Maccabruni (fisarmonica, tastiere, voce), Joe Barreca (basso elettrico e contrabbasso) e Daniele Negro (batteria e percussioni), oltre all’altro chitarrista Francesco Montesanti, e sin dall’apertura in chiave dylaniana dell’iniziale Dunce’s Cap, con organo e chitarre rock ben delineate, si respirano sonorità roots (d’altronde vista anche l’etichetta per cui incide è quasi inevitabile) di grande fascino. Mentre Let’s Go To Como, Baby, anche grazie all’impiego di una voce femminile eterea e sognante, è quella che più mi ricorda le splendide canzoni dell’Eric Andersen poc’anzi ricordato, una ballata introdotta da gentili arpeggi di una chitarra acustica e poi, grazie ad un violino evocativo e struggente, ti avvolge in una atmosfera calda e delicata. O ancora la splendida e letteraria Lonesome Giacomo, altra fremente ballata percorsa dall’uso del violino (anche nelle esibizioni live, sempre la bravissima Chiara Giacobbe), oppure le atmosfere più bluesy e febbrili, quasi stonesiane, grazie alle chitarre taglienti, come da titolo, di Ragazzon Blues, dove Jimmy aggiunge la sua armonica al tessuto sonoro del brano. Con Merrion Row, onirica e sospesa, che grazie all’uso della doppia tastiera si riallaccia al sound dei vecchi lavori di Lindgren, e mette in evidenza la voce roca e vissuta del cantante svedese, pur mantenendo il tocco di classe dei Mandolin’ Brothers nell’andatura incalzante della canzone; Evil Love è una intensa blues ballad dalla bella melodia vecchio stile, lenta ed avvolgente, con la chitarra solista che lavora di fino nella parte centrale e l’armonica che torna a farsi sentire nella parte finale, e le solite citazioni letterarie, questa volta Robert Burns, nel testo.

Bluesy Moss, invece, a dispetto del titolo, è una folk song splendida, di impianto acustico, ma sempre con l’organo che ti entra sottopelle, insinuante e sapido, mentre Lindgren canta con in modo piano ma appassionato; molto bella anche St. Vincent’s Blues (ma ce n’è una brutta?), introdotta da  un arpeggio di chitarra acustica, poi acquisisce un piglio tra country e bluegrass, grazie all’impiego del dobro del bravo Paolo Ercoli, sentito anche nel recente disco solista di Jimmy Ragazzon http://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/ . Poteva mancare in un brano l’uso della fisarmonica? Certo che no, se ce l’hai, e quindi in Trouble In Garden Riccardo Maccabruni passa alla fisarmonica, Paolo Canevari è alla slide, Jimmy Ragazzon di nuovo all’armonica, e sempre quasi di esserci tuffati in qualche vecchio album anni ’80 o ’90 del miglior Joe Ely; Sailor Blue, con il contrabbasso di Joe Barreca a segnare il tempo, il violino e il dobro di nuovo in azione, mi ha ricordato molto il primo Tom Waits, quello più romantico e intimo degli anni ’70, con Richard Lindgren che adotta una voce discorsiva ed insinuante per l’occasione. Il valzerone finale, che sarebbe Viaggio A Pavia, ma come lo pronuncia il cantante svedese diventa “Agio a Pavia” o qualcosa del genere, è una ulteriore canzone fascinosa e coinvolgente, con tanto di canto corale conclusivo di tutta la truppa, e che conferma ulteriormente il talento di questo autore nordico che merita assolutamente di essere conosciuto (come testimoniamo i suoi dieci, o dodici, a seconda delle fonti, album complessivi realizzati)!

Quindi se volete conoscere, o approfondire la conoscenza, Richard Lindgren, domani sera, 28 gennaio, sarà in concerto, con i Mandolin’ Brothers, al Cinema Teatro di Macallé in quel di Castelcerioso (AL). Se non potete andare, comprate comunque il disco, perché merita assolutamente.

Bruno Conti

Come I Suoi Amati Bluesmen, Un Pavese Americano “Finalmente Esordisce” Con Una Valigetta Piena Di Belle Canzoni! Jimmy Ragazzon – Songbag

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Jimmy Ragazzon – Songbag – Ultra Sound Records/Ird

Quando ho saputo, quasi un anno fa, che sarebbe uscito un disco solista di “Alessandro” Jimmy Ragazzon, mi era stato anche riferito che sarebbe stato un album “acustico”, quindi ovviamente diverso dalle recenti prove di gruppo con la sua band, i Mandolin’ Brothers, come era ovvio che fosse. Devo dire che mi aspettavo un disco legato alle sue passioni: quindi il Blues (e almeno nell’età matura in cui “esordisce” come cantautore, ci sono agganci con la tradizione dei musicisti blues di esordire appunto, diciamo avanti negli anni, però esordio è una parola forte, con oltre 35 anni di carriera e gavetta alle spalle), altra passione Mister Premio Nobel Bob Dylan, e una cover, più o meno, di un brano del Vate c’è, poi i cantautori americani, texani nello specifico, e troviamo un brano di Guy Clark, ma quello  che non mi aspettavo è la presenza massiccia di brani di derivazione country, anzi bluegrass, credo che in questo disco (esagero) si senta il suono del mandolino più che in tutta la produzione precedente della band, che prende il nome peraltro da questo strumento. Non vi racconterò per l’ennesima volta vita, morte e miracoli dei Mandolin’ Brothers (cercateli nel Blog), sappiamo che sono una delle migliori band della zona pavese, Voghera nello specifico, ma anche in generale della scena roots-rock italiana, per cui tuffiamoci nei contenuti del CD e nei musicisti che vi hanno suonato, anzi partiamo proprio da questi, quasi sempre impegnati in presa diretta, in una sorta di live in studio.

Tutti musicisti italiani, con l’esclusione di Jono Manson al banjo (un quasi naturalizzato comunque), spesso loro compagno di avventura e produttore, in questo caso impegnato a mixaggio e mastering. Il principale “Accomplice”, per mantenere questo spirito internazionale, o complice se preferite, è Marco Rovino, chitarra acustica, co-autore di due brani e degli arrangiamenti del disco, nonché alle armonie vocali (molto presenti) e soprattutto impegnato al fatidico mandolino, forse lo strumento principe dell’album. Luca Bartolini è l’altro chitarrista acustico, o picker se vogliamo continuare con queste analogie “Americane” (con la A maiuscola), molto bravo, come pure Paolo Ercoli, bravissimo al dobro in vari brani, Rino Garzia al contrabbasso in alcune tracce, e, sparsi nelle diverse canzoni: Roberto Diana alla Weissenborn guitar, Chiara Giacobbe al violino e Joe Barreca al contrabbasso, nella cover di Dylan, Maurizio “Gnola” Glielmo nel pezzo più blues del disco (e non poteva essere diversamente, in virtù anche del fatto che Jimmy Ragazzon Gnola avevano già registrato un disco in coppia nel 2009, l’ottimo Blues, Ballads And Songs, che se non lo avessero già usato sarebbe stato un ottimo titolo anche per questo nuovo album), Isha, tanpura e Franco Rivoira, tabla, nel brano che più profuma di “folk progressivo” e delle band inglesi dei primi anni ’70 (per chi scrive), Stefano Bertolotti titolare della Ultra Sound alle percussioni e, last but not least, l’altro “Mandolin” Riccardo Maccabruni alla fisarmonica e chitarra acustica. Sarà una mia mania, ma mi piace sempre ricordare chi suona in un album, per rispetto del loro lavoro, ma anche perché, a dispetto di chi pensa il contrario, sapere i nomi non è solo didascalico ma anche importante per capire cosa stiamo per ascoltare. Se poi il disco è pure bello, e questo lo è, tanto per chiarirlo subito, tanto di guadagnato.

I testi spesso oscillano tra il personale e l’autobiografico,sia pure velato e volutamente oscuro, il sociale, come in Dirty Dark Hands sull’immigrazione e Evening Rain, sull’emarginazione. Proprio questo brano, il cosiddetto singolo e video dell’album, a conferma dello status internazionale del disco, è stato, prima scelto, e poi premiato, da Classic Rock Uk versione on line, come http://teamrock.com/feature/2016-11-11/rolling-stones-steven-wilson-hotei-more-vote-for-your-track-of-the-week, facendoci esclamare, al sottoscritto, a Asterix e anche a Jimmy SPQI! (Sono Pazzi Questi Inglesi), battendo anche i beneamati Rolling Stones. Tornando ai brani il disco si apre con D Tox Song, e vi assicuro che se non sapessi che sto ascoltando questo disco avrei giurato di avere inserito nel lettore, per errore, un qualche vecchio album degli Old In The Way, dei Country Gazette o dei Dillards, perfetto bluegrass con meravigliosi intrecci sonori tra chitarre acustiche, dobro, mandolino e finissime armonie vocali, con un suono limpido e ben delineato, tutto da godere, testo scuro ma atmosfere musicali solari e avvolgenti, e pure un tocco di armonica che non guasta mai. Old Blues Man (che sia lui?) “E’ solo un vecchio bluesman Che si dimentica gli accordi”, per citare la traduzione presente nel libretto, insieme ai testi originali (senza dimenticare che all’interno sono presenti anche gli autografi di alcuni degli eroi di Jimmy), mentre l’approccio sonoro è sempre simile a quello del brano precedente, magari la voce è più vissuta, meno solare, c’è più di un tocco blues, ma il picking è sempre impeccabile e vorticoso, con il mandolino e il dobro sugli scudi. Poi arriva il prediletto Bob Dylan, con una bellissima canzone che però non è firmata dal buon Zimmerman, ma è un adattamento di un poema di Charles Badger Clark, poeta americano della prima metà del secolo scorso, a cui sono state aggiunte nuove liriche e musiche da Dylan stesso e che appariva su uno dei dischi più brutti del nostro, quel Dylan del 1973, creato dalla casa discografica senza alcun input del vecchio Bob: però nello specifico, la canzone, Spanish Is The Loving Tongue, rimane splendida (per la precisione era uscita anche come B-side di Watching The River Flow), anche in questa versione, con armonica d’ordinanza, Barreca al contrabbasso che segna il ritmo, e un paio di chitarre acustiche a colorare il tutto, più l’intervento struggente del violino di Chiara Giacobbe, che è la classica ciliegina su una torta riuscita alla perfezione.

Torna il country-bluegrass in 24 Weeks, scritta con Rovino, altro fulgido esempio di questo suono rurale che mi ricorda, anche grazie alle belle armonie vocali, un altro grande gruppo come i Seldom Scene, non li avevo ancora citati (ma sicuramente ai tempi rientravano tra gli ascolti del buon Jimmy, spero)! Sold, sta a quel crocevia tra Ry Cooder (la Weissenborn del bravissimo Roberto Diana dei Lowlands), folk e misticismo orientale, in un riuscito intreccio tra esotico e musica occidentale, grazie alla bella melodia gentile della canzone, interpretata con grande intensità da Jimmy, che la estrae con colpo da maestro dalla sua nutrita valigetta (dove riposava tra armoniche, dischi, libri e chissà quali altre misteriose diavolerie). Evening Rain, di cui vedete il video qui sopra, è un altro tripudio di strumenti acustici a corda (e l’immancabile armonica, come la sigaretta di Yanez non può mancare) accarezzati con passione dai vari musicisti impegnati in studio: se è piaciuta agli inglesi, può non piacere a noi? The Cape viene da Dublin Blues, uno dei dischi del “tardo” Guy Clark, ma visto che il musicista texano non ha mai scritto brutte canzoni, è solo meno conosciuta di altre, ma comunque splendida, l’arte del cantautore acustico distillata in 3:23 minuti, tanto basta. Dirty Dark Hands, con un riff acustico ricorrente, è incalzante nella sua denuncia, e al solito si dipana in un crescendo strumentale e vocale (cori alla CSN?) affascinante, poi entra la fisa di Maccabruni e il suono allarga il suo spettro in quello che è il pezzo più lungo del disco. Al nono brano si presenta Maurizio “Gnola” Glielmo e alla fine in Going Down arriva anche il blues, un’altra delle grandi passioni di Jimmy Ragazzon, sia musicalmente che vocalmente, per definizione, il blues non dovrebbe essere allegro, e infatti non lo è (se posso, il lavoro delle chitarre mi ha ricordato i duetti tra Jansch e Renbourn, non credo sia un’offesa) https://www.youtube.com/watch?v=1QkMuBudykM . In A Better Life è la catarsi finale, si soffre ma alla fine da qualche parte ci deve essere una “vita migliore”, per forza!

Disco del giorno! Come dite, oggi ho parlato solo di questo? Appunto!

Bruno Conti

P.s Con i video inclusi mi sono arrangiato con quello c’era in rete, in attesa dei nuovi brani.

E queste, per il momento, sono le date del breve tour:

AZ Blues presenta:
Jimmy Ragazzon and The Rebels
SongBag Tour

09/12 da TRAPANI (PV)
16/12 ALL’ UNA E TRENTACINQUE CIRCA – Cantù (CO)
13/01/17 NIDABA – Milano
16/01/17 TEATRO di RIVANAZZANO (PV)