Nel Caso Qualcuno Avesse Ancora Dei Dubbi, Siamo Su Un Altro Pianeta! Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

bob dylan rough and rowdy ways

Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways – Columbia/Sony 2CD

Nonostante egli stesso avesse smentito ogni riferimento all’ultima opera di Shakespeare, stavo cominciando davvero a convincermi che Tempest, uscito nel 2012, potesse davvero essere il canto del cigno per quanto riguardava il Bob Dylan autore di canzoni, e che i tre album di cover di brani del “great american songbook” (ma con particolare attenzione a pezzi interpretati in passato da Frank Sinatra) fossero una gradita appendice. Poi, in pieno lockdown, lo scorso mese di aprile come un fulmine a ciel sereno Bob ha reso disponibile Murder Most Foul, una ballata epica di 17 minuti dalla misteriosa provenienza, seguita dopo poche settimane dalla più “stringata” I Contain Multitudes: i fans di tutto il mondo avevano cominciato a fantasticare su un possibile nuovo album di originali da parte del grande songwriter, cosa poi confermata con la rivelazione di un terzo brano, False Prophet, in contemporanea all’annuncio appunto di un long playing nuovo di zecca intitolato Rough And Rowdy Ways, mantenendo comunque il mistero sui titoli delle altre canzoni fino a poco più di una settimana fa. Nell’attesa, girando un po’ in rete, fans e critici erano poi dubbiosi sul fatto che Bob fosse ancora in grado (o avesse voglia) di scrivere grandi canzoni alla veneranda età di 79 anni, soprattutto con il popò di songbook che si ritrovava alle spalle.

bob dylan rough and rowdy ways 2 cd

Nell’ultima settimana si sono moltiplicate le recensioni in anteprima degli addetti ai lavori (cioè quando finalmente la Sony si è degnata di fornire loro il CD in anteprima), e lodi e peana si sono sprecati. Io però sono come San Tommaso (anche perché Dylan è entrato in quella ristretta fascia di artisti dei quali sembra sia vietato parlare male), e dopo un ascolto attento è meditato mi sono chiesto come avessi potuto dubitare anche solo per un attimo della capacità del nostro di confezionare un altro disco alla sua altezza. Sì, perché Rough And Rowdy Ways è l’ennesimo grande album di una carriera unica ed inimitabile, un lavoro profondamente diverso da Tempest, più riflessivo, pacato, a volte quasi sussurrato. Un disco di ballate (e qualche blues, come vedremo), in cui Dylan torna a livelli eccezionali per quanto riguarda i testi, mentre per ciò che concerne la veste sonora Bob si limita spesso all’essenziale, quasi come se volesse porre ancora di più l’accento sulle canzoni e su ciò che esse dicono: peccato che, come al solito, nella confezione del CD manchino i testi, in quanto a mio parere averli davanti è una parte fondamentale dell’esperienza. Non è un disco facile comunque, ma sono convinto al 100% che già dopo due o tre ascolti crescerà in maniera esponenziale fino a diventare difficile rinunciarvi.

L’album è doppio, con un primo CD contenente nove pezzi per un totale di 53 minuti (da un minimo di quattro ad un massimo di nove), mentre il secondo dischetto è interamente riservato a Murder Most Foul. Il produttore non è indicato (ma è sicuramente Jack Frost, ovvero Bob stesso), ed il gruppo è formato come era prevedibile dall’attuale live band del cantautore di Duluth: quindi Dylan, Charlie Sexton e Bob Britt alle chitarre (e Bob stranamente non al piano), Tony Garnier al basso, Donnie Herron alla steel, violino e fisarmonica e Matt Chamberlain alla batteria; ci sono anche alcuni ospiti, ma sono semplicemente elencati con il nome senza riferimenti a cosa suonano e dove, cosa piuttosto fastidiosa a mio parere: ad ogni modo troviamo Fiona Apple (e questa è una sorpresa) insieme al suo abituale collaboratore Blake Mills, l’ex Heartbreaker Benmont Tench, l’altro tastierista Alan Pasqua (un grande ritorno, era con Bob nel gruppo di Street-Legal e susseguente tour che ha portato al live At Budokan) e l’almeno per me sconosciuto Tommy Rhodes. I Contain Multitudes non è il brano che uno si aspetta come apertura di un disco, dato che è una ballata molto lenta e discorsiva, con la voce di Bob quasi carezzevole su un accompagnamento che potrei definire appena accennato (chitarra acustica, steel, contrabbasso e poco altro): brano comunque ricco di fascino con Dylan che sillaba le parole in maniera chiara e comprensibile.

Non può esistere un disco di Bob Dylan senza almeno un blues, e False Prophet è un notevole esempio in tal senso: cadenzato e diretto, con il nostro che canta con grinta e le chitarre che commentano con un bel riff insistito ed un paio di misurati assoli. My Own Version Of You è un pezzo dall’andatura insinuante tra country e jazz, con la batteria spazzolata e la band che segue il leader con passo felpato, mentre Dylan parla e canta come solo lui sa fare. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You è una deliziosa ballad d’altri tempi che vede Bob cantare in maniera toccante ed il gruppo che fornisce un raffinato background da slow degli anni sessanta (e c’è anche un coro a bocca chiusa, sarà la Apple con Mills?); Black Rider è un racconto western di grande fascino con un arrangiamento scarno al massimo, solo un paio di chitarre e la voce al centro, mentre Goodbye Jimmy Reed è un vigoroso omaggio al grande bluesman citato nel titolo, ed è un jump blues coinvolgente ed elettrico che immagino non mancherà nelle future scalette dal vivo, con Bob che ritorna anche a soffiare nell’armonica dopo non so quanto tempo (almeno su disco): se non fosse per la voce, sembrerebbe una outtake di Bringing It All Back Home.

Mother Of Muses è ancora lenta ed appena sfiorata dagli strumenti, ma Dylan canta in modo abbastanza rigoroso con una voce quasi fragile suscitando un moto di commozione a chi ascolta (cioè il sottoscritto). Ed ecco i due brani più lunghi del primo CD: Crossing The Rubicon è il terzo ed ultimo blues, un brano di sette minuti dalla sezione ritmica attendista e le chitarrine che fraseggiano in punta di dita, ma ogni tanto il suono si fa più massiccio per poi tornare alla “quiete apparente” iniziale, mentre Key West (Philosopher Pirate) è il capolavoro del primo dischetto, una magnifica ballata dedicata con parole affettuose alla famosa località nel sud della Florida, un brano per voce, fisarmonica, chitarra e ritmica in punta di piedi, oltre ad un suggestivo coro (e qui Fiona c’è sicuro). Nove minuti di pura poesia, struggente ed intensa come solo Dylan sa scrivere. Il secondo CD, come ho già detto, è ad esclusivo appannaggio di Murder Most Foul, un brano che è già nella storia, con un testo incredibile in cui Bob, partendo dall’omicidio di Kennedy, ripercorre più di cinquanta anni di politica, cronaca, cinema e musica: che piaccia o no, un altro masterpiece.

D’altronde, chi a parte Bob Dylan a quasi 80 anni è capace di chiudere un disco già ottimo di suo con due capolavori uno di fila all’altro?

The answer, my friend…

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Un Boss “Californiano” Ad Alti Livelli! Bruce Springsteen – Western Stars

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Bruce Springsteen – Western Stars – Columbia/Sony CD

Raramente, almeno negli ultimi tempi, un album è stato dissezionato, criticato, esaltato o stroncato ben prima della sua uscita come Western Stars, nuovissimo lavoro di Bruce Springsteen. C’è da dire che la maggior parte dei commenti sono stati positivi, ma non sono state comunque risparmiate dure critiche, soprattutto per la veste pop delle canzoni, un suono giudicato da alcuni troppo gonfio ed appesantito da arrangiamenti orchestrali, e più in generale per il fatto che, in pratica, Bruce in questo disco “non fa Bruce” (ma che vuol dire? Allora anche The Seeger Sessions, un capolavoro, andrebbe ridiscusso…e poi per avere il classico Springsteen basta aspettare l’anno prossimo, dato che il rocker di Freehold ha già annunciato che pubblicherà un album con la E Street Band). Tra l’altro è stato Bruce stesso in un certo senso ad annunciare il cambiamento di Western Stars, affermando in sede di presentazione che aveva voluto fare un disco ispirato alla musica pop californiana a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, citando artisti come Glen Campbell e Burt Bacharach (ed io aggiungerei anche Jimmy Webb, Harry Nilsson e John Denver, anche se nessuno dei cinque è/era originario del Golden State), un tipo di influenza che nessuno pensava che il Boss avesse ma che è indubbiamente reale visto l’esito finale dell’album.

Sì, perché Western Stars a mio parere è un disco bello, in parecchi punti molto bello, e ci fa ritrovare un Bruce di nuovo in forma smagliante come autore di canzoni e come musicista in generale dopo qualche lavoro tentennante (come il raffazzonato High Hopes ed il deludente Working On A Dream). Certo, i brani sono più tendenti al pop che al rock, ma è un pop sontuoso ed arrangiato alla grande, con la produzione di Ron Aniello che evoca praterie sconfinate ed i paesaggi a cielo aperto che sono raffigurati nelle splendide foto di copertina e del booklet interno. Una musica decisamente cinematografica, con canzoni a tema western per quanto riguarda i testi ma meno per le musiche, che restano come dicevo ancorate allo stile pop che il nostro annunciava presentando il disco; i tanto vituperati arrangiamenti orchestrali sono quindi parte integrante di questo tipo di musica, ed a mio parere non sono affatto pesanti o fuori posto, ma anzi contribuiscono ad aumentare il pathos in parecchie canzoni, canzoni che il Boss esegue in maniera convinta e convincente (è chiaro e lampante che le “sente” particolarmente), usando in alcune di esse un range vocale decisamente melodico ed abbastanza inedito.

Bruce ed Aniello si occupano della maggior parte degli strumenti (chitarre, banjo, basso ed una lunga serie di tastiere come piano, celeste, mellotron ed organo e percussioni varie tra cui vibrafono e glockenspiel), e sono coadiuvati dalla moglie del Boss, Patti Scialfa, ai backing vocals insieme ad altri coristi (tra i quali “Sister” Soozie Tyrell), dall’altro E Streeter Charlie Giordano al piano e fisarmonica, dai batteristi Gunnar Olsen e Matt Chamberlain, da ben tre steel guitarists (Greg Leisz, Marty Rifkin e Marc Muller), dal noto percussionista Lenny Castro e addirittura dal pianista delle origini della E Street Band David Sancious. Oltre naturalmente alle già citate sezioni di archi e strumenti a fiato. La prima canzone, Hitch Hikin’, ha un inizio abbastanza tipico, con Bruce che canta in maniera distesa una melodia limpida, circondato da strumenti a corda: dopo circa un minuto entra l’orchestra ma con discrezione ed anzi aumentando la tensione emotiva: il brano si sviluppa tutto sulla stessa tonalità ed è tutt’altro che monotono, ma è al contrario dotato di un crescendo degno di nota. The Wayfarer è costruita un po’ sulla stessa falsariga, ma ha più soluzioni melodiche e ad un certo punto la strumentazione si arricchisce ed entra la sezione ritmica, con gli archi e i fiati che diventano protagonisti: pop di alta classe. Tucson Train vede in un certo senso il Boss che conosciamo, il brano è più rock, ci sono anche le chitarre elettriche ed il mood è trascinante: c’è l’orchestra anche qui, ma io non vedo male questo brano anche in ottica E Street Band, potrebbe diventare un classico delle future esibizioni dal vivo. Anche la title track è una ballata tipica del nostro, con atmosfere western (titolo a parte), una bella steel sullo sfondo e quell’atmosfera da colonna sonora cinematografica che Bruce aveva in mente; Sleepy Joe’s Café è solare e contraddistinta da una ritmica pimpante, con un motivo delizioso, orecchiabile e coinvolgente (e sentori di Messico), in pratica una delle più immediate del CD.

La tenue Drive Fast (The Stuntman) iniza per voce, piano e chitarra (ed orchestra, anche se più nelle retrovie), poi entrano gli altri strumenti ma il mood resta intimo e rilassato, Chasin’ Wild Horses è una slow ballad intensa e con accompagnamento scarno ma di grande impatto, con una splendida steel, un banjo ed il solito emozionante assolo orchestrale: molto bella anche questa. Sundown è stupenda, una pop song extralusso dotata di un eccellente ed arioso arrangiamento che evoca spazi aperti e cavalcate nelle praterie, uno dei pezzi in cui l’interazione tra il Boss, il gruppo e l’orchestra funziona meglio. Splendida anche Somewhere North Of Nashville, un toccante lento dalla melodia straordinaria ed accompagnato solo da chitarra, piano e steel, un pezzo breve ma con il dna dei classici springsteeniani; Stones è una rock ballad fluida e limpida dalla strumentazione ricca e coinvolgente, altra canzone che Bruce riprenderà sicuramente dal vivo in futuro, mentre There Goes My Miracle è una pop song grandiosa nell’arrangiamento e raffinata nell’interpretazione, con un’ottima prestazione vocale: se il Boss voleva evocare certa musica dei primi anni settanta, qui ci è riuscito alla perfezione. L’album volge al termine con Hello Sunshine (il primo singolo, gira già da alcuni mesi), una ballatona tra cantautorato e pop che richiama vagamente Everybody’s Talkin’, e con Moonlight Motel, un bozzetto acustico ideale per congedarci da un disco a mio parere quasi perfetto, specialmente se rapportato alle intenzioni originali del suo autore.

D’altronde se ad ascolto ultimato ho già voglia di rimetterlo da capo vorrà pur dire qualcosa.

Marco Verdi

Eccolo Qua, Puntuale Come Sempre, Per Fortuna Ogni Nove Anni Ritorna! Randy Newman – Dark Matter

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Randy Newman – Dark Matter – Nonesuch/Warner

Undici album di studio, compreso il nuovo, in circa cinquanta anni di carriera discografica, visto che il primo album omonimo risale al 1968 (ma già nel 1962 pubblicava un primo singolo), forse non sembrano molti: ma in mezzo ci sono stati anche due album dal vivo, i tre volumi della serie Songbook dove ha rivisitato parte del suo repertorio con nuove versioni incise per solo voce e piano, 3 antologie, un musical, Faust e una miriade di colonne sonore di film, si parla di almeno 24 film o serie televisive che hanno goduto delle delizie della penna di Randy Newman, perché di lui stiamo parlando, componente di una delle dinastie musicali più importanti proprio nell’ambito delle colonne sonore, con tre zii e quattro cugini impiegati a pieno regime dall’industria cinematografica per creare gli scores di una una infinita serie di film delle più disparate tipologie. Non a caso lo zio Alfred Newman ha vinto nove Oscar, l’altro zio Lionel un Oscar, e il terzo zio è stato “solo” nominato una volta, mentre tra i cugini solo nominations, con Randy che però due Oscar li ha vinti, per le canzoni di Monsters & Co Toy Story 3. Come ricordo nel titolo, casualmente, o forse no, gli ultimi tre album di Randy Newman sono stati tutti divisi da un arco temporale di nove anni: Bad Love uscito nel 1999, Harps And Angels uscito nel 2008, e ora questo Dark Matter nel 2017. Ancora una volta a produrre il disco ci sono Mitchell Froom e il veterano Lenny Waronker (ex presidente della Warner Bros Records e della Dreamworks), nonché, per l’occasione, anche l’ingegnere del suono David Boucher, mentre nel disco, come sempre, suona una pattuglia di eccellenti musicisti: oltre a Newman al piano e Mitchell Froom alle tastiere, Blake Mills alla chitarra, David Piltch al basso e Matt Chamberlain alla batteria, ma anche molti musicisti impiegati per le parti orchestrali e fiatistiche, e pure vocali, eleganti e complesse come di consueto: Ne consegue quindi un disco che è l’ennesimo gioiellino, raffinato e variegato, come d’uso nella discografia dell’occhialuto musicista di Los Angeles, uno dei più geniali, ironici, a volte sardonici, intelligenti e per certi versi, imprevedibili, artefici della musica popolare americana.

Nonostante questo curriculum strepitoso Randy Newman rimane fondamentalmente un artista di culto: solo Little Criminals, il suo disco del 1977 (e forse anche il migliore in assoluto, certo il più popolare, quello con Short People https://www.youtube.com/watch?v=8bfyS-S-IJs), è entrato nei Top 10 delle classifiche americane arrivando fino al nono posto, anche se la colonna sonora di Cars, che illustra il suo lato più ludico e divertente (insieme a molte altre realizzate per la Walt Disney/Pixar), è giunta nel 2006 fino al 6° posto delle charts. Ma questo ci interessa relativamente, quello che importa è che i suoi dischi siano belli e, salvo rare eccezioni, lo sono sempre stati e questo Dark Matter non fa eccezione. Il nostro amico plasma la “materia oscura” per renderla ancora una volta una opera di superbo artigianato, come vogliamo definirlo, pop cameristico, ricco di melodie, ma anche di sorprese, cinico ma con punte di sentimentalismo non bieco, piccoli racconti surreali (e manca quello sul “coso” di Trump, che si doveva chiamare What A Dick e così forse non sapremo mai se ce l’ha più grande di Putin, che invece nell’album la sua canzone ce l’ha, come pure i fratelli Kennedy e Sonny Boy Williamson); insomma, per fortuna, il “solito” Randy Newman. Si parte con The Great Debate, una sorta di mini-suite di oltre otto minuti, dai continui cambi di tempo e di atmosfera, con fiati in stile New Orelans, elementi blues, momenti sospesi tra “buie” esplosioni di archi quasi classicheggianti, improvvise scariche di neo-dixieland, gospel, intermezzi per voce e piano in cui dialoga con sé stesso sui grandi sistemi della religione, dei cambi climatici, dell’astrofisica, della politica, della scienza in generale, poi improvvise ripartenze gospel-soul degne del miglior Allen Toussaint o Dr. John, ma anche di Mister Newman, con i suoi musicisti sempre senza limiti di sorta nella loro calibrata e “scientifica” inventiva sonora.

Brothers è un dialogo immaginario tra i fratelli John e Robert Kennedy che parlano dell’invasione della Baia dei Porci, con il primo che poi confessa di un suo particolare amore per la musica di Celia Cruz (?!?), con la musica che si dipana su temi quasi da musical, tra archi e fiati sontuosi, mentre la voce partecipe e quasi affettuosa di Randy ci narra di queste vicende di Jack e Bobby, inventate ma assai verosimili, con un finale a tempo di rumba o salsa dedicato alla Cruz, che parte quando viene nominata, il tutto di una raffinatezza quasi impossibile da qualcuno che non sia Newman. E siamo solo al secondo brano. Poi tocca a Putin, una satira-canzone pare ispirata da una “rara” foto del leader russo a torso nudo, che rimugina sul suo potere e quello della sua nazione, mentre la canzone miscela temi popolari simil-russi al pop raffinato tipico di Newman, passando di nuovo per il musical, questa volta in puro stile Broadway, mentre Randy declama e le voci femminili, le Putin Girls (ricorda qualcosa?), gli rispondono in un classico call and response giocato sul “Putin if you put it Will you put it next to me?”. Questo dovrebbe essere il singolo dell’album ed in effetti è uno dei brani più “spensierati”. Lost Without You è una delle due canzoni che trattano il tema della famiglia, una ballata malinconica e crepuscolare, con solo la voce e il piano di Newman sottolineati da una sezione di archi.

Sonny Boy è la storia di Sonny Boy Williamson, il grande bluesman nero, anzi dei due “grandi bluesmen” neri, perché quando Rice Miller viaggia verso il Nord scopre che ne esiste già uno: ma mentre il primo, che è la voce narrante, viene ucciso in una rapina nel 1948, il secondo trova fama e fortuna arrivando fino in Inghilterra dove viene omaggiato da band come gli Yardbirds e gli Animals che incidono con lui, ma nella canzone di Newman, tra marcetta e blues canonico fiatistico, quello che va in Paradiso, pare il primo bluesman ad entrarvi, è il primo dei due, perché leggenda vuole che le sue ultime parole furono “Lord have mercy e il Signore ricordò. It’s A Jungle Out There è uno dei brani più vivaci e tipici del canone sonoro più disimpegnato del cantautore californiano, piacevole ma forse non memorabile, anche se il piano comunque viaggia alla grande; She Chose Me è un’altra ballata orchestrale in cui come è noto il nostro eccelle, per una volta niente cinismo, ma solo una romantica melodia ,sempre ricca di raffinata melancolia e dedicata alla “most beautiful girl that I’ve ever seen”. Anche On The Beach ha quell’aria retrò ed old fashioned, un po’ jazz e un po’ café-chantant, con cui Newman di solito riveste le sue vignette, questa volta la storia di un vecchio “surfer” ormai fuori di testa che non si è mai mosso dalla sua spiaggia e ricorda ancora i Beatles e un passato nebuloso, forse perduto, ma mai dimenticato del tutto. Chiude l’album l’ultima delle ballate romantiche e tangenti, surreali persino, almeno nel testo, Wandering Boy, un’altra delle composizioni senza tempo, solo per voce e pianoforte, che sono da sempre la cifra stilistica del grande cantautore di LA, che ancora una volta a 73 anni conferma di non avere perso il suo speciale “magic touch”. Prossimo appuntamento nel 2026!

Bruno Conti

Ma Bruce Ci Darà Ancora La Luce? Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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Bruce Springsteen – Wrecking Ball – Columbia – 06-03-2012

Il titolo del Post lo capiranno in America? Facezie a parte, a pochi giorni dall’uscita del nuovo album di Bruce Springsteen Wrecking Ball quattro parole in libertà le voglio dire anch’io, oltre a quello che avevo già esternato giorni orsono nelle Anticipazioni. Intanto il disco, risentito dopo una decina giorni, conferma la prima impressione: dischi come Born To Run, Darkness, The River o anche Nebraska non ne farà più e questo è pacifico da parecchi anni. Dal vivo rimane intoccabile, una vera forza della natura, e le sue opere di studio si seguono non solo per fede, passione e riconoscenza ma anche perché rimane uno dei migliori cantautori degli ultimi 40 anni (il prossimo anno) e come lui ce ne sono pochi in giro. Se non avesse fatto tutti quei dischi citati prima (ma anche i primi due), le nuove uscite sarebbero nettamente superiori al 90% di quello che esce oggi, ma purtroppo (o per fortuna) li ha fatti e quindi bisogna rassegnarsi a confrontare ogni nuova fatica discografica con il passato.

Questo Wrecking Ball mi sembra il migliore dei dischi di Bruce degli anni ’00, intanto a livello testi è sempre “incazzato come una biscia” per usare una perifrasi, e in questo nuovo disco fonde le arie proto-irlandesi e folk delle Seeger Sessions con il suo rock classico e una ballata memorabile (tra un attimo), ma…quel produttore, Ron Aiello, dove diavolo l’hanno scovato? E’ una domanda retorica, ovviamente lo so, nelle buste delle figurine Panini! Mi dicono di no, è il produttore del disco di Patty Scialfa del 2007 Play As It Lays (ah bè, allora). E che altro? Camera Can’t Lie, Ashley Tesoro, Allison Iraheta, Jeremy Riddle, Vanessa Amorosi, la Moshav Band e ha vinto un paio di Grammy con i Jars Of Clay. Apperò! Ma chi glieli consiglia? Il suo parrucchiere, la sua casa discografica o i suoi figli? Mah, mistero!

E nonostante questo, come dicevo prima,il disco non è poi così malvagio: anche con quell’intermezzo rap nel bel mezzo di Rocky Ground che gettando il produttore dalla finestra probabilmente diventerà un bel brano in crescendo vagamente gospel per i concerti dal vivo o il singolo di apertura, We Take Care Of Our Own una canzoncina leggera e radiofonica (d’altronde se vuole farsi sentire nell’America del mainstream qualche concessione la deve fare). Anche l’arrangiamento di Land Of Hope Of Dreams, che è l’ultimo brano in cui possiamo sentire un assolo di Clarence Clemons e quindi ci doveva essere, ebbene l’arrangiamento con l’aggiunta di drum machine, tante tastiere e “troppe” voci gospel non regge il paragone con la versione dal vivo, che questa volta già conosciamo e quindi si può confrontare.

Rimangono tante belle canzoni, una splendida come Jack Of All Trades assolutamente all’altezza delle cose più belle scritte da Bruce nel passato: 6 minuti da memorizzare che iniziano con un leggero spruzzo di elettronica ma poi si sviluppano in una bellissima ballata pianistica in crescendo, dove entrano via via, l’organo, la batteria, una sezione di fiati magica, una tromba nitida d’ordinanza (Curt Ramm), gli archi della New York String Section che si dividono la scena con la chitarra e la tromba nel finale del brano; il produttore, dopo aver fatto partire il loop elettronico deve essere andato a bersi un bel caffè e lascia spazio alla voce dolente e maschia del nostro amico che quando canta questi brani qualche brividino lungo la schiena me lo fa sentire ancora. Molto bella anche la cupa This Depression scandita dall’incedere inesorabile della batteria di Max Weinberg e con la chitarra dell’ospite Tom Morello a disegnare un assolo futurista nella parte centrale (però uno si chiede, con tre chitarristi in formazione ce ne voleva uno esterno? Evidentemente sì) assolutamente valido e pertinente.

Come pure pertinente è il folk trascinante della “nerissima” (come umore) Death To My Hometown quella più vicina allo spirito delle Seeger Sessions con flautini, violini e voci a volontà che accantonano per un momento il sound della E Street Band. Che è comunque presente con metà delle sue forze, Van Zant (solo armonie vocali e il mandolino nel brano 13), Weinberg, Patti Scialfa, “i nuovi” Soozie Tyrell e Charlie Giordano (ma niente Bittan, Tallent e Lofgren) che con violino, tastiere e fisa formano il ponte verso i musicisti delle Seeger Sessions come Art Baron, Clark Gayton, Lisa Lowell, Ed Manion, Cindy Mizelle, Curt Ramm. Oltre al citato Morello ci sono il batterista Matt Chamberlain che faremmo prima a dire con chi non ha suonato ma diciamo, brevemente i Pearl Jam, molto con Tori Amos, Edie Brickell e nella band del Saturday Night Live. L’altro brano dove appare Clarence Clemons è la trascinante Wrecking Ball un brano tipico dell’opera springsteeniana fino all’immancabile countdown e con la sezione fiati in fibrillazione, anche questa probabilmente farà un figurone dal vivo ma anche nella versione in studio la sua porca figura la fa, bello l’intermezzo di violino nella parte centrale. Mi piacciono anche You’ve Got It e We Are Alive accomunate entrambe da un attacco solo voce e chitarra ma che poi si dipanano in modo assolutamente antitetico, rock e con slide d’ordinanza e fiati al seguito la prima, folk e molto sobria la seconda. 

Anche Shackled and Drawn con la sua fisarmonica e i suoi ritmi paesani viene di filato dal filone popolare delle Seeger sessions con ampio uso di armonie vocali e tanta energia. E per citarle tutte (escluse le due bonus dell’edizione Deluxe, Swallowed Up e American Land) rimarrebbe Easy Money che ha solo il titolo in comune con il famoso brano di Rickie Lee Jones ma per il contenuto musicale si allinea sempre al filone del brano precedente. Niente capolavoro quindi ma un disco onesto, addirittura buono, dove aldilà dello sparare sul produttore che poi non è che sia responsabile di chissà quali sfracelli (ma qualcuno sì) ci possiamo godere il nostro amico Bruce ancora una volta.

I “puristi” del passato storceranno il naso ma andranno, fedelmente, a vedere i concerti, per gli altri il “solito vecchio” Boss che a tratti ci illumina ancora!

Bruno Conti