Uno Splendido Viaggio Nella Golden Age Del Folk-Rock Britannico. VV. AA. – Strangers In The Room

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VV.AA. – Strangers In The Room: A Journey Through The British Folk Rock Scene 1967-73 – Grapefruit/Cherry Red 3CD Box Set

 La Gran Bretagna della seconda metà degli anni sessanta era percorsa da numerosi fermenti musicali (e non). Mentre i quattro gruppi inglesi principali (Beatles, Rolling Stones, Who e Kinks) in quegli anni pubblicavano loro album migliori, nella terra di Albione nascevano diverse correnti di grande importanza, come il British Blues, con i Bluesbreakers di John Mayall, i Cream, i Fleetwood Mac di Peter Green ed il Jeff Beck Group (ma anche i Taste di Rory Gallagher), la psichedelia (che ebbe nei Pink Floyd la band di punta), l’hard rock con i Led Zeppelin, i Free e gli Humble Pie, e naturalmente il folk-rock, che non rassomigliava a quello americano dei Byrds ma prendeva spunto dalle antiche ballate inglesi e scozzesi per arrivare ad un sound elettrico che poteva anche sconfinare nella stessa psichedelia e nel prog.

In passato abbiamo avuto diverse compilation che si occupavano di questo genere fondamentale, basti pensare ai vari volumi della serie Electric Muse o al box triplo della Island uscito nel 2009, ma spesso ci si occupava dei gruppi e solisti più celebri, e con le loro canzoni più note: questo nuovo e bellissimo box triplo intitolato Strangers In The Room (ad opera della Grapefruit, la stessa del recente cofanetto dei Flamin’ Groovies) percorre una strada diversa, dando cioè spazio ad artisti considerati di seconda o terza fascia, ed in alcuni casi praticamente sconosciuti (io stesso devo ammettere che molti di essi non li avevo mai sentiti nominare) e limitandosi solo a trattare il periodo d’oro del genere in questione, cioè gli anni che vanno dal 1967 al 1973. Certo, non mancano i capostipiti del genere (Fairport Convention, Pentangle, Steeleye Span, tanto per citare i tre più famosi), ma anche loro non con i brani più noti: la maggior parte del box però si occupa di musicisti che hanno avuto scarsa fortuna, scegliendo di pubblicare vere è proprie rarità, tra le quali molti singoli mai apparsi prima su CD e persino quattro canzoni inedite, il tutto corredato da un bellissimo libretto di 40 pagine con dettagliati commenti ad ognuno dei 60 brani inclusi; qualche assenza c’è (a memoria mi vengono in mente Lindisfarne, Amazing Blondel e Martin Carthy, ma non avrebbero sfigurato neanche Cat Stevens e John Martyn). Ma ecco una (non tanto) veloce disamina del contenuto dei tre CD, e vi giuro che ho fatto fatica a limitarmi ai pezzi che sto per citare.

CD1: si comincia con Michael Chapman (tornato in auge negli ultimi anni con due bellissimi album) con Stranger In The Room, una solida e potente ballata elettroacustica, molto suggestiva e decisamente più rock che folk, e la chitarra elettrica di Mick Ronson grande protagonista. Dopo la drammatica The Blacksmith degli Steeleye Span (una delle poche scelte “scontate”), dominata dalla vocalità di Maddy Prior, abbiamo il primo inedito, cioè una versione alternata della pimpante e frenetica Dangerous Dave degli Spirogyra. I restanti 17 pezzi sono appannaggio di gruppi o solisti i cui nomi non sono certo tra i più noti, ma ci sono chicche che rendono l’ascolto piacevole al massimo, come l’enigmatica ma deliziosa Murdoch ad opera dei Trees, la rockeggiante ed orecchiabilissima Shoeshine Boy degli Humblebums (che vedono alla voce un giovane Gerry Rafferty), Martha di Harvey Andrews, dalla splendida linea melodica (e con Cozy Powell alla batteria), la tonica Hanging Tree, tra folk, rock e psichedelia dei dimenticatissimi Oo Bang Jiggly Jang (il cui leader Peter Bramall entrerà in seguito nei pub-rockers The Motors come Bram Tchaikovsky ), o la fluida e “fairportiana” Amongst Anemones eseguita dai Jade, un trio che durò il tempo di un solo album.

Meritano un cenno anche la pianistica e bellissima The Sailor da parte di Robin Scott (che rispunterà anni dopo come leader del gruppo M con i ritmi disco-elettronici di Pop Musik), l’eterea e sublime Here Comes The Rain dei Trader Horne, un duo la cui voce femminile era Judy Dyble, prima cantante dei Fairport, la diretta ed immediata My Delicate Skin di Dave Cartwright, un singolo che avrebbe meritato maggior fortuna, la toccante Almost Liverpool 8 di Mike Hart (tra le migliori del primo CD), la tersa e bucolica Don’t Know Why You Bother Child di Gary Farr e la corale e coinvolgente We Can Sing Together di Alan Hull.

CD2: i tre gruppi più conosciuti del dischetto sono i Matthews Southern Comfort con una cristallina rilettura di Woodstock di Joni Mitchell, dallo stile decisamente pastorale, gli Strawbs (senza Sandy Denny) con la vibrante e maestosa The Man Who Called Himself Jesus, ed i Fairport Convention con la prima versione di Sir Patrick Spens, registrata con la stessa Denny ai tempi di Liege & Lief e pubblicata solo in una delle successive ristampe. Ci sono anche cinque nomi non proprio sconosciuti, ma indubbiamente di culto: The Woods Band, gruppo formato da Gay e Terry Woods dopo il loro allontanamento dagli Steeleye Span (As I Roved Out, un brano tradizionale arrangiato alla perfezione e con un intermezzo strumentale strepitoso), Bill Fay, tornato ad incidere dopo una vita in tempi recenti, con un demo del 1969 della stupenda Be Not So Fearful, Bridget St. John alle prese con l’allegra filastrocca folk There’s A Place I Know, la Third Ear Band con Fleance, dal suono più tradizionale che mai, e i Dando Shaft con Riverboat, pura, cristallina e cantata splendidamente.

E poi ci sono gli acts meno noti, tra cui gli Unicorn (prodotti da David Gilmour) con l’armoniosa I Loved Her So Long, chiaramente influenzata da Crosby, Stills & Nash, la beatlesiana Sarah In The Isle Of Wight di Al Jones (solo a me ricorda Lucy In The Sky With Diamonds?) https://www.youtube.com/watch?v=QXcjC2SSC8I , l’epica nonché oscura Pucka-Ri degli Urban Clearway, i Daylight con la limpida e corale Lady Of St. Clare (45 giri che fu anche la loro unica incisione!), la sinuosa ed emozionante Love Has Gone della bravissima Mary-Anne Paterson, una delle gemme del cofanetto (sentite che voce, da brividi), il demo della gentile What I Am dei Fresh Maggots, secondo inedito del box, ed una rilettura molto “roots” e sicuramente interessante del classico di Bob Dylan Like A Rolling Stone da parte dei Canticle.

CD3: il dischetto con la maggior parte di artisti famosi, a partire dai Pentangle con la nota The Cuckoo (tratta dal mitico Basket Of Light), per seguire con Ralph McTell e la sua ottima prova cantautorale Father Forgive Them, la strepitosa Just As The Tide Was A-Flowing, frutto della collaborazione di Shirley Collins con la Albion Country Band (una delle più belle canzoni del triplo), l’intensa Oh Did I Love A Dream della Incredible String Band, che ha il sapore di un canto marinaresco, e la squisita All In A Dream di Steve Tilston, lucida ballata guidata da piano e chitarra. C’è anche una giovanissima Joan Armatrading con la piacevole City Girl, un inatteso Gerry Rafferty solista con una versione inedita di Who Cares, diversa dallo stile pop che il nostro avrà in seguito, e chiude la già citata Sandy Denny (come poteva mancare?) con la sua signature song Who Knows Where The Time Goes in una rara versione voce e chitarra incisa prima di entrare nei Fairport.

Tra i pezzi rimanenti segnalerei la delicata Queen Of The Moonlight World di Andy Roberts, dallo splendido arpeggio di chitarra e con una melodia ariosa, il rarissimo singolo di Mr. Fox Little Woman, bellissima folk song dal sapore più irlandese che inglese, Mike Cooper con la solare ed ottimistica Your Lovely Ways, la misteriosa Jude, che incise questa intensa Beverley Market Meeting insieme a qualche altro demo e poi sparì, la quasi west-coastiana Carry Me dei Prelude, Furniture, grande rock song ad opera degli irlandesi Horslips (con uno strepitoso assolo chitarristico), ed il quarto ed ultimo inedito, cioè l’orientaleggiante Waxing Of The Moon dei Lifeblud https://www.youtube.com/watch?v=4D6MP_AnIm4 .

Un cofanetto quindi difficile da ignorare se siete appassionati del genere folk-rock (ma anche della buona musica in generale), anche perché non costa una cifra esagerata.

Marco Verdi

Erano La Seconda Band, Ora Riformata, Di Iain Matthews Dopo I Fairport Convention: Sempre Ottima Musica. Matthews Southern Comfort – Like A Radio

matthews southern comfort like a radio

Matthews Southern Comfort – Like A Radio – MIG Made In Germany

Iain Matthews (con due I nel nome,  la seconda non la usa quasi nessuno) ha militato in almeno tre “grandi” band nel corso del suo percorso musicale: prima nei Fairport Convention, di cui è stato uno dei membri fondatori, presente nel primo album omonimo e fino al 1969, poi à stato schiacciato dalle personalità prorompenti di Sandy Denny e Richard Thompson, lasciando la band appunto nel 1969 e fondando i Matthews Southern Comfort, che con la loro splendida versione di Woodstock di Joni Mitchell, peraltro uscita all’inizio solo come singolo, ebbero un successo strepitoso, arrivando in cima alle classifiche in tutto il mondo, pur se l’arrangiamento della canzone era diverso sia dalla versione di CSN&Y, sia da quella della Mitchell, perché Matthews non riusciva a raggiungere le note più alte di Joni, che comunque disse di preferire quell’arrangiamento.

Nel frattempo la band pubblicò tre album che furono tra i primi dischi in assoluto a fondere folk, country e rock morbido, dei veri antesignani del country-rock e della roots music a venire, poi ribadite negli splendidi album solisti di Iain Matthews per la Vertigo e la Elektra (magnifico Some Days You Eat The Bear And Some Days The Bear Eats You del 1974, con Jeff “Skunk” Baxter, David Lindley, BJ Cole e Andy Roberts, che fu suo compagno di avventura anche nei Plainsong, la terza grande band in cui militò il nostro amico, autori di un altro disco splendido come il concept album In Search Of Amelia Earheart, dedicato alla storia della trasvolatrice americana). Nel corso degli anni Matthews è ritornato periodicamente a pubblicare album (anche d’archivio) di tutte le sue “creature”, alternandoli ai suoi dischi solisti, spesso con risultati lusinghieri, anche se i dischi del periodo 1969-1974/75 sono tra le cose migliori rilasciate da un cosiddetto singer-songwriter, in possesso di una voce dolce, espressiva e malinconica, Iain è stato oltre che autore di pregio anche grande interprete di canzoni di altri, penso a Ol’ 55, sempre nell’album Elektra citato poc’anzi, che a mio modesto parere è più bella forse dell’originale e di quella degli Eagles, ma anche, oltre al brano della Mitchell, canzoni di Jesse Winchester, degli Steely Dan, di Gene Clark, dei Crazy Horse, di Richard Farina, dell’amico Richard Thompson, di James Taylor, e potremmo andare avanti per ore, perché si è capito che amo moltissimo la musica e la voce di Iain Matthews. 

Anche in questo Like A Radio Matthews non ha perso un briciolo del suo fascino senza tempo, anche se della band originale non c’è più nessuno, sostituiti da tre musicisti olandesi, Bart Jan Baartmans, Bart de Win e Eric De Vries, comunque funzionali al classico suono morbido, ma venato di rock, dei vecchi Matthews Southern Comfort, tra chitarre elettriche ed acustiche, tastiere, soprattutto il piano, sia acustico che elettrico e una ritmica discreta, il musicista inglese sciorina una serie di nuove canzoni che sicuramente piaceranno ai vecchi fans ma che possono essere apprezzate da tutti. Molti dei brani nascono da idee incomplete o non sviluppate del tutto che Matthews ha usato in queste nuove composizioni:, senza dimenticare versioni di Darcy Farrow che era sul secondo disco del 1970 dei MSC, sempre splendida ed evocativa, tra piano e slide sognanti https://www.youtube.com/watch?v=lX0562Qr-BI , o cover di brani di Carole King e James Taylor, una Something In The Way She Moves( presente nelle bonus tracks) già incisa nei dischi solisti, ma sempre con una melodia avvolgente e radiosa, grazie anche alle armonie vocali da sempre marchio di fabbrica della band.

Tra le canzoni nuove molto bella l’iniziale The Thought Police con quei guizzi elettroacustici che non si sono mai spenti nel songbook di Iain, ma anche il folk-country-rock senza tempo della deliziosa To Love, cover dell’appena ricordata Carole King che è illuminata dal lavoro della chitarra elettrica dell’eccellente Eric De Vries, o ancora la malinconica ballata Right As Rain che rivaleggia con le migliori canzoni di Iain Matthews, malinconica e dolcissima come i suoi brani migliori. Anche Chasing Rainbows ci ricorda quel suono solare West Coast con cui il nostro amico ha flirtato negli anni ’70, mentre la conclusiva Phoenix Rising, tra mandolini, chitarre acustiche e piccole percussioni è ancora legata ad un suono più dichiaratamente folk e Jive Pajamas è uno strano shuffle-swing magari non riuscitissimo ma che segnala la voglia di diversità https://www.youtube.com/watch?v=-zGiVPuwLEw , meglio estrinsecata nella bucolica Age Of Isolation, sempre con ottimi intrecci vocali o nel country-rock della mossa Bits And Pieces, altro brano che si lega alle vecchie avventure sonore di Iain Matthews, qui riproposte ancora una volta.

Insomma ci sono a tratti momenti del vecchio splendore e questo per chi ama il musicista 71enne di Scunthorpe può bastare.

Bruno Conti

Morbido Folk-Rock. Matthews’ Southern Comfort – Kind Of New

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Matthews’ Southern Comfort – Kind Of New – Continental Song City

O meglio ancora, per descrivere con un termine ancora più calzante ancorché desueto i Matthews’ Southern Comfort, Soft-Rock, magica parola con cui negli anni ’70 si era soliti indicare chi faceva quel genere a cavallo tra folk, country, musica cantautorale (era un po’ che non usavo il termine), in antitesi ai più specifici West-Coast sound, country-rock e a roots music che era ancora da inventare (per non parlare di Americana). Ma il filone è quello, musica morbida, soffice, prevalentemente acustica ma quasi sempre con una sezione ritmica e della tastiere aggiunte: mi sembra la fotografia di questo gruppo.

Ma prima due parole (anche tre) su Iain Matthews, doppia i mi raccomando. Questo signore è uno dei membri fondatori dei Fairport Convention, presente dai tempi del primo omonimo album (1967), quando Sandy Denny non era ancora entrata in formazione (c’era Judy Dyble). E con lei e Richard Thompson farà in tempo a registrare il seminale What We Did On Our Holidays, un disco che contiene Meet On The Ledge di Thompson e Fotheringay della Denny ma anche alcuni brani firmati e cantati da Matthews. Nel 1969, dopo la sua fuoriuscita dal gruppo, registra quello che sarà il suo primo album solista ma che darà anche il nome al gruppo Matthews’ Southern Comfort (con Richard Thompson, Simon Nicol, Ashley Hutchings, Gerry Conway, tutti Fairport e Poli Palmer dei Family, oltre alla steel guitar di Gordon Huntley che aggiungeva quel particolare sound “americano” al folk-rock del disco). In quegli anni si correva e nel 1969 uscì anche un secondo disco con la formazione definitiva del gruppo e nel 1970, il terzo ed ultimo Later That Same Year che era quello che conteneva Woodstock. Proprio quella! Già perché oggi tutti ricordano la versione elettrica, tirata di CSN&Y che era presente in Dèjà Vu o quella acustica di Joni Mitchell, ma la versione di maggior successo fu quella dei Matthews’ Southern Comfort che arrivò al primo posto della classifica inglese e nei Top di quelle di Billboard in America. Più lenta, meditata, soffice, morbida, intensa era una gran bella versione (e pensate a che brani c’erano in classifica allora) ma fu l’inizio della fine del gruppo che si sarebbe sciolto da lì a poco.

La carriera solista di Matthews prosegue con due album per la Vertigo nel 1970 di stampo inglese (If You Saw Thro My Eyes e Tigers Will Survive) e 2 dischi tra il 1973 e il ’74 registrati in America per la Elektra dove il “suono” americano prende il sopravvento, Valley Hi e Someday You Eat the Bear… In mezzo ha il tempo per fondare una sorta di supergruppo i Plainsong coi quali registra un concept album, In search of Amelia Earheart sulla storia della leggendaria aviatrice americana (esatto, per la serie corsi e ricorsi storici, proprio quella cantata in Amelia da Joni Mitchell). E il bello è che tutti questi dischi sono uno più bello dell’altro, percorsi dalla meravigliosa e malinconica voce di Iain Matthews, unica ed inconfondibile.

Per farla breve nella sua meno riuscita svolta rock, tra fine ’70 e primi ’80, ha fatto anche in tempo a fondare gli Hi-fi con David Surkamp (il cantante dei Pavlov’s Dog, quelli di Julia, che se vi chiedete dove Marco Mengoni ha preso, spero inconsciamente, il modo di cantare dovreste investigare, ma anche se non ve ne frega niente di Mengoni, fine della citazione tripla).

Ha fatto anche in tempo a rifondare i Plainsong, fare un disco “new-age”, ma cantato, per la Windham Hill, accoppiarsi, musicalmente con Elliott Murphy prima di approdare, ma non li dimostra, a 65 anni alla reunion dei Matthews’ Southern Comfort.

Ovviamente non c’è nessuno della formazione originale: il progetto, che ha avuto una lunga gestazione, partita nel 2005 e proseguita nel 2009 e 2010 tra mille perplessità di Matthews, è stato registrato in Olanda con musicisti in parte olandesi e inglesi, con l’aggiunta dell’ottima cantautrice americana Terri Binion che firma cinque dei 13 brani presenti e la cui voce si amalgama perfettamente con quella di Iain e che anche se fisicamente rotondetta (avete presente Mama Cass) è in possesso di una voce molto dolce, calda ed espressiva, come quella della citata Cass Elliott.

Ci sono un paio di cover, la ripresa della bellissima Blood Red Roses dal repertorio di Richard & Mimi Farina, due contemporanei nell’era folk di Dylan autori di tre stupendi album per la Vanguard e dalla storia tragica che qui non vi racconto, basti dire che lei era la sorella di Joan Baez e lui un poeta e autore in grado di competere con Dylan e Cohen. Erano secoli che non sentivo un dulcimer in un brano recente. L’altra cover è una ripresa immancabile della celeberrima Woodstock in una versione rallentata che rende piena giustizia all’originale e dove la voce di Matthews non ha perso un briciolo dell’originale intensità, bellissimo l’arrangiamento che ci riporta alle “magiche” atmosfere di 40 anni fa.

Ma anche i brani nuovi sono molto belli, magari non innovativi, ma molto affascinanti con una grande profusione di armonie vocali e le voci dei due protagonisti che si interscambiano con grande efficacia e il sound morbido, soft rock, citato all’inizio, delle chitarre acustiche (neanche una elettrica all’orizzonte) ci riporta ai primi America, a James Taylor ma anche a molti gruppi e solisti minori di quegli anni con la Terri Binion che ricorda le varie Ronstadt, Carly Simon, Karla Bonoff e in anni più recenti Mary Chapin Carpenter ma anche Phoebe Snow tanto per citarne qualcuna.

Iain Mathews d’altro canto non è cambiato di una virgola e le atmosfere autunnali, dolcemente crepuscolari dell’iniziale Letting The Mad Dog Lie con acustiche e pianoforte a sottolineare il cantato soffuso ci riportano al meglio della sua produzione precedente. Forse niente di nuovo all’orizzonte ma solo buona musica e belle canzoni come la vagamente jazzata These Days della Binion che ricordano anche Carole King e Laura Nyro ma anche gli Steely Dan più rilassati. O la ballata cadenzata e di gran classe The Road The Ronderlin con la voce di Matthews, ben sostenuta da quella della Binion, in grande evidenza. E ancora la dolce, ma ritmata Perfect Love con la voce calda e sensuale di Terri Binion in primo piano. The way things are ricorda quelle atmosfere sospese e ricercate del Matthews anni ’70 mentre Seven Hours è semplicemente un’altra bella canzone scritta e cantata dalla Binion. Senza ricordarle tutte (Ma sono tutte belle) vorrei citare ancora almeno la lunga e bellissima O’Donnel Street altra delicata e raffinata espressione del talento di questo misconosciuto cantante ed autore inglese uno dei tanti tesori secreti custoditi tra le pieghe della bella musica.

Soffice e morbido come una buona torta, niente di nuovo ma sempre un piacere da assaporare.

Bruno Conti