Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte I

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*NDB. Come al solito quando Marco si lascia prendere la mano (ma per qualcosa che vale la pena) il contenuto del Post si allunga a dismisura, quindi dividiamo in due parti la recensione del cofanetto.

Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Da sempre Ian Hunter è uno dei miei musicisti preferiti, in quanto per me rappresenta la quintessenza del cantante rock, con in più quel tocco dylaniano nel songwriting che non guasta (anzi): durante la sua lunga carriera, sia come frontman dei Mott The Hoople che da solista, ha mantenuto una qualità decisamente elevata, confermata circa due mesi fa dall’ottimo nuovo disco, Fingers Crossed. Per celebrare la parte solista del cammino discografico di Hunter, la Proper ha pubblicato (solo sul suo sito ed in una quantità limitata a 2.500 copie) questo Stranded In Reality, mastodontico box di ben 28 CD più due DVD, un’opera magnifica che ha il solo difetto di costare parecchio (250 sterline), ma che dimostra che quando si vuole è possibile gratificare i fans con prodotti di altissimo livello come questo. Infatti il box, oltre a comprendere tutti gli album solisti di Ian, sia quelli in studio (tranne l’ultimo, che è però appena uscito) sia i live ufficiali (e tutti in versione rimasterizzata ex novo, in confezione simil-LP e mantenendo tutte le bonus tracks delle varie edizioni deluxe uscite nel corso degli anni, ed ognuno con il suo bel booklet con testi e note), aggiunge ben nove CD quasi completamente inediti, tra brani in studio, outtakes, rarità assortite e canzoni dal vivo, e due DVD con performance varie ed anche in questo caso il più delle volte rare. In più, uno splendido libro con copertina dura e note di Ian stesso canzone per canzone, una rivista fittizia, intitolata Shades, che comprende recensioni ed articoli vari sul nostro pubblicati negli anni dalle più prestigiose testate inglesi, ed una foto autografata. Un cofanetto da leccarsi i baffi dunque, che vado a riepilogare per sommi capi, approfittandone anche per riassumere la carriera di un artista che secondo me andrebbe inserito nel novero dei grandi.

Ian Hunter (1975): il disco d’esordio di Ian è subito un classico. Con Mick Ronson come chitarra solista, partnership che proseguirà anche negli anni a seguire, Hunter ci regala un album che rappresenta alla perfezione la sua arte, a partire da Once Bitten, Twice Shy, un coinvolgente rock’n’roll ispirato da Chuck Berry, e che prosegue con la vigorosa Who Do You Love, la sontuosa Boy, una fantastica ballata di quasi nove minuti, l’acustica e toccante 3.000 Miles From Here, la solida The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth, con uno strepitoso assolo di Ronson, la vibrante e roccata I Get So Excited e, tra i bonus, le outtakes Colwater High e One Fine Day (entrambe con parti vocali incise nel 2005), che non avrebbero sfigurato sul disco originale.

All American Alien Boy (1976): registrato a New York con una superband (che vede Chris Stainton al piano, Jaco Pastorius al basso ed Aynsley Dunbar alla batteria, oltre a tre quarti dei Queen, cioè Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor ai cori nella ballad You Nearly Did Me In), questo è un altro grande disco, con più pezzi lenti rispetto all’esordio (ma Ian è un fuoriclasse anche nelle ballate), che si apre con la splendida Letter From Britannia To The Union Jack, una vera e propria missiva scritta con il cuore in mano da Ian al suo paese in profonda crisi, la scintillante title track, con gran lavoro di Pastorius, o la pianistica e bellissima Irene Wilde, una delle ballate più riuscite del nostro. Ma non sono da meno neanche Rape, dal sapore gospel, e la volutamente dylaniana God.

Overnight Angels (1977): un buon disco, molto più rock del precedente ma inferiore nel songwriting, un album poco considerato ma solido, con qualche buona canzone ed altre più normali. Golden Opportunity è un inizio potente e deciso come un pugno in faccia, ben bilanciato dalla pianistica Shallow Crystals, una rock ballad coi fiocchi. Ma la poco spontanea title track, un tentativo costruito a tavolino di scrivere una hit, non funziona, così come la pomposa Broadway; il resto si divide tra cose più riuscite ed altre meno (tra le prime la gradevole Miss Silver Dime e The Ballad Of Little Star, il miglior slow del disco), o veri e propri riempitivi come l’insulsa Wild’n’Free.

You’re Never Alone With A Schizofrenic (1979): al quarto disco Ian firma il suo capolavoro: con mezza E Street Band in session (Roy Bittan, Garry Tallent e Max Weinberg, più Ronson  di nuovo alla solista, l’ex Velvet Underground John Cale al piano in Bastard ed Eric Bloom dei Blue Oyster Cult ai cori) Schizofrenic è un grandissimo disco, quasi un greatest hits se si contano i futuri classici presenti. Grandi canzoni rock come Just Another Night, Cleveland Rocks, When The Daylight Comes (splendida) e Bastard, e superbe ballate come Ships, dal suono levigato, Standing In My Light e la straordinaria The Outsider, forse il più bel lento mai scritto dal nostro. Ma il disco brilla anche nei momenti meno noti, come il festoso errebi Wild East ed il boogie pianistico Life After Death; tra le bonus tracks, una Just Another Night più lenta ma altrettanto bella (con un grande Bittan) ed una scatenata versione del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ Goin’ On.

Welcome To The Club (1979): la decade dei grandi dischi dal vivo si chiude con uno dei più belli, registrato al Roxy di Los Angeles, e che vede Hunter in forma strepitosa, ben coadiuvato da Ronson e da un gruppo che va come un treno. Dopo un inizio con la potente rilettura dello strumentale degli Shadows FBI, il doppio CD presenta versioni spiritate di classici di Ian solista ma anche dei Mott The Hoople (Angeline, poco conosciuta ma bellissima, All The Way From Memphis, I Wish I Was Your Mother, Walkin’ With A Mountain, il superclassico All The Young Dudes, One Of The Boys e The Golden Age Of Rock’n’Roll): un disco potente ma lucido ed ispirato anche nelle ballate (una Irene Wilde da favola), e con in fondo tre brani nuovi incisi in studio, dei quali il migliore è senza dubbio lo slow Silver Needles.

Short Back’n’Sides (1981): nonostante la presenza di due Clash, Topper Headon e soprattutto Mick Jones (che produce insieme a Ronson), questo esordio di Ian nella nuova decade è un disco un po’ involuto e senza particolari guizzi, con sonorità gonfie tipiche del periodo: si salvano Central Park’n’West, un pop-rock orecchiabile e coinvolgente nonostante l’uso massiccio di sintetizzatori, e la stupenda Old Records Never Die, ballata incisa la sera in cui viene assassinato John Lennon. Il resto, con la possibile eccezione della colorita I Need Your Love, un errebi alla Southside Johnny, è trascurabile (e Noises è proprio brutta): Hunter stesso, nelle note del book accluso al box, non è per nulla tenero verso questo album.

All Of The Good Ones Are Taken (1983): questo sarà l’ultimo disco di Ian negli anni ottanta (una decade nefasta per molti rockers), un album che non contiene classici futuri ma una media di canzoni migliore del precedente, anche se il sound è notevolmente peggiorato (Captain Void’n’The Video Jets fa davvero schifo): tra gli highlights abbiamo la bella title track, una rock song che risente solo in parte del suono dell’epoca (e presenta un paio di buoni interventi al sax di Clarence Clemons), il rock’n’roll un po’ bombastico di Every Step Of The Way, la bowiana Fun, l’orecchiabile That Girl Is Rock’n’Roll (ma troppi synth) e la soulful Seeing Double.

Yui Orta (1990): dopo sette lunghi anni di silenzio, Ian torna con l’unico disco accreditato a metà anche a Mick Ronson (che però si limita, si fa per dire, a suonare la solista ed a collaborare al songwriting), ed è un buon disco, un album rock con una produzione rutilante e con diverse buone canzoni, anche se non serve a rilanciare la figura del nostro. Hunter ritrova comunque grinta e smalto e le belle canzoni non mancano, come la potente rock ballad American Music, al livello dei suoi pezzi degli anni settanta, la seguente The Loner, diretta come un macigno, l’energica e vibrante Women’s Intuition, o ancora la trascinante Big Time, un rock’n’roll scatenato come ai bei tempi. E Livin’ In A Heart dimostra che il nostro è ancora in grado di scrivere ballate coi fiocchi.

Ian Hunter’s Dirty Laundry (1995): nel 1993 scompare tragicamente Mick Ronson, e Hunter va fino in Norvegia ad incidere il nuovo disco con musicisti locali. Le nuove generazioni conoscono poco il nostro, ed il fatto che Dirty Laundry esca per una piccola etichetta locale non aiuta di certo; è un peccato, perché il disco è il più riuscito dai tempi di Schizofrenic, un album di rock al 100%, grezzo, diretto e chitarristico, con brani come la ritmata Dancing On The Moon, la corale e splendida Good Girls, uno dei più bei rock’n’roll del nostro, la travolgente Never Trust A Blonde, rollingstoniana fino al midollo, la deliziosa Psycho Girl, tra rock e pop e con una fulgida melodia. Ma poi abbiamo anche la meravigliosa Scars, una sontuosa ballata elettroacustica e dylaniana, che avrebbe meritato ben altra sorte. E quelle che non ho citato non sono certo inferiori (Invisible Strings è splendida): un disco da riscoprire assolutamente.

BBC Live In Concert (1995): accreditato alla Hunter-Ronson Band, questo CD registrato a Londra nel 1989 è stato pubblicato anche per omaggiare lo scomparso Mick. Un ottimo live, ben suonato e con un Hunter in forma, che accanto a classici assodati (Once Bitten, Twice Shy, Just Another Night, Standing In My Light, Bastard, Irene Wilde), presenta ben sei brani in anteprima da Yui Orta, che uscirà di lì ad un anno (eccellenti How Much More Can I Take? e Big Time), ed anche un inedito, Wings, invero piuttosto trascurabile.

The Artful Dodger (1996): disco registrato in Norvegia come Dirty Laundry, ma con maggior dispendio di mezzi (all’epoca uscì per la Polydor), The Artful Dodger è meno rock e con più ballate del suo predecessore, ma ha il merito di rimettere in circolo il nome di Hunter. Un lavoro più che buono, che ha come brano centrale Michael Picasso, una toccante ballata dedicata all’amico Ronson, ma che presenta diversi pezzi sopra la media, come Too Much, uno slow d’atmosfera davvero riuscito, la superlativa Now Is The Time, il limpido folk-rock Something To Believe In, la cristallina (ed autobiografica) 23A, Swan Hill, o la title track, unico vero rock’n’roll del CD. Mentre il funk-rap di Skeletons era meglio se non ci fosse stato.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Credevate Che Ci Fossimo Dimenticati?! E Invece: Dal Nostro Inviato A Londra: “Il Boss E’ Sempre Il Boss” – Bruce Springsteen Wembley Stadium 15 Giugno 2013

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Bruce Springsteen & The E Street Band – London – Wembley Stadium – 15 Giugno 2013

Quest’anno per motivi di lavoro non ho potuto assistere al “consueto” appuntamento con il concerto di Bruce Springsteen a San Siro e così, approfittando del week-end, ho colto al volo l’opportunità di trascorrere un paio di giorni con la mia signora e nostro figlio dodicenne (che ha già visto il Boss a Milano lo scorso anno, proprio il giorno del suo compleanno, rimanendone entusiasta) a Londra, città nella quale amiamo sempre tornare.

Nella capitale inglese fa freddino, il clima ricorda un po’ il mese di Maggio che abbiamo appena trascorso in Italia, e se venerdì c’è un po’ di sole e si sta abbastanza bene, al sabato, dalla tarda mattinata al primo pomeriggio, piove abbastanza insistentemente anche se a sprazzi, ma per fortuna in serata il cielo si rischiarerà (già pregustavo Bruce che suonava Who’ll Stop The Rain? di John Fogerty, sarebbe la prima volta con me tra il pubblico, ma forse è meglio vedere il concerto all’asciutto, anche se Wembley ha tutti i posti a sedere coperti).

Proprio Wembley merita un cenno a parte: già il fatto di entrare nel tempio del calcio, in un luogo dove si è scritta la storia, provoca in me e mio figlio, grandi appassionati di football, un’immensa emozione, ma poi vediamo le zone interne, moderne, pulitissime (anche i bagni), con ristoranti e negozi, e con gli steward gentilissimi che ti aprono anche le porte, ed il paragone con San Siro, ma anche con gli altri stadi italiani, è abbastanza impietoso.

Il concerto è previsto per le 19, probabilmente Bruce deve chiudere entro un certo orario per evitare un altro Hyde Park, cioè quando lo scorso anno non è riuscito a terminare il suo storico duetto con Paul McCartney in Twist And Shout per il “taglio” dell’amplificazione: entriamo con calma (tanto i posti sono numerati) e prendiamo posto nelle comode poltroncine in pelle rossa della spettacolare arena di Wembley, dove è garantita un’ottima visuale da ogni settore dello stadio: l’unico punto in comune con San Siro, purtroppo, sarà l’acustica, con le chitarre il più delle volte “sepolte” nel mix e la batteria del grande Max Weinberg che sembra suonare con la sordina.

Bruce e la sua band salgono sul palco con una ventina di minuti di ritardo, e dopo i saluti di rito attaccano, come a Milano, con Land Of Hope And Dreams: sarà il fatto che non sono mai impazzito per questo brano, ma non sono così sicuro che funzioni in apertura di concerto, troppo lungo e troppo poco coinvolgente a livello ritmico.

Le cose prendono subito un’altra piega con Jackson Cage, l’unico episodio della serata tratto da The River (purtroppo) e con la travolgente Radio Nowhere, che inizia a far muovere un po’ il pubblico londinese, alquanto freddino (e qui con la gente di San Siro non c’è partita, ma stavolta al contrario).

Bruce dimostra di essere in forma (ma quando non lo è?), come d’altronde la band (incluso Little Steven, che i reportage avevano dato un po’ assente a San Siro), nella quale i “nuovi” Charlie Giordano e Jake Clemons si sono perfettamente inseriti (anzi, Jake è molto più pimpante dello zio Clarence degli ultimi anni), e con la ciliegina sulla torta dei fiati degli E Street Horns e dei cori dello E Street Chorus.

C’è spazio subito per quattro richieste di fila: una rara Save My Love (da The Promise), una festosa Rosalita (insolitamente posta all’inizio del concerto, ma Bruce forse vuole ravvivare un po’ la folla), la bella This Hard Land e soprattutto una magnifica Lost In The Flood, uno dei brani più drammatici del songbook del Boss, resa questa sera in maniera perfetta.

Dopo due brani dal recente Wrecking Ball (la title track e la coivolgente Death To My Hometown) ed il prevedibile ma sempre emozionante singalong di Hungry Heart (un’altra richiesta, e qui Bruce non ha rischiato più di tanto), Springsteen dice al pubblico: “Abbiamo due alternative: o andare avanti ad oltranza con le richieste o suonare tutto Darkness On The Edge Of Town dall’inizio alla fine”.

Il boato del pubblico fa propendere per la seconda ipotesi, ma non nascondo che tutto un concerto basato sulle richieste del pubblico sarebbe stata un’esperienza stimolante: Darkness viene comunque eseguito in maniera perfetta (e stiamo parlando di uno dei più bei dischi degli anni settanta, e non solo, in assoluto), con punte d’eccellenza per la toccante Racing In The Street, con Roy Bittan debordante nel finale, l’irresistibile Prove It All Night, con un assolo di Nils Lofgren spaziale, con tanto di chitarra suonata coi denti alla maniera di Hendrix, ed una intensa Streets Of Fire.

Ormai il pubblico è caldo al punto giusto, e Bruce lo cuoce a puntino con la festosa Shackled And Drawn, dove i fiati sono i protagonisti assoluti, la solare Waiting On A Sunny Day, con consueto assolo vocale di un bambino pescato tra il pubblico da Bruce, una perfetta The Rising ed una travolgente Light Of Day, cavalcata elettrica nella quale stavolta l’assolo strappa-ovazione è di Little Steven.

Dopo una breve pausa iniziano i bis, e qui Wembley si trasforma in una gigantesca discoteca: Pay Me My Money Down era già uno dei brani più divertenti delle Seeger Sessions, ma dal vivo stasera è resa in un modo che spiegare è difficile, sarebbe come pretendere di descrivere in poche parole Las Vegas ad uno che non c’è mai stato: perfino mia moglie, che è tutt’altro che springsteeniana, è in piedi che canta e balla.

Il trittico Born To RunBobby JeanDancing In The Dark (con due ragazze del pubblico sul palco a ballare, e ad una viene data anche una chitarra per jammare con Bruce e Steve) porta il concerto verso il gran finale.

Tenth Avenue Freeze-Out è resa in maniera estremamente sintetica (ma che voce ha ancora Bruce, dopo tre ore di corse su è giù mai un minimo calo), dato che bisogna chiudere per le 22.30: il Boss chiede: “La facciamo sì o no?”, ed alla prevedibile risposta affermativa del pubblico (e dopo aver scherzosamente presentato un assente Paul McCartney), si lancia in una incontenibile Twist And Shout, una versione di quasi dieci minuti durante la quale credo che balli pure il servizio d’ordine dello stadio.

E’ quasi finita: Bruce congeda la band e, da solo con la chitarra acustica, ci regala una Thunder Road da brividi, al termine della quale tutto lo stadio intona il celebre riff finale, un momento di grande intensità.

Un’altra splendida serata, ne è valsa la pena: il Boss non delude mai anche quando, come stasera, presenta una scaletta senza troppe sorprese.

Tre ore e un quarto di concerto, ed uscendo dallo stadio c’è qualcuno che si lamenta che ha suonato poco…

Marco Verdi

*NDB

Quest’anno sono 40 anni dall’uscita del primo disco di Bruce, Greetings From Asbury Park NJ, volete che non si festeggi l’evento, concerti a parte? Certo che sì: il 22 luglio, per un giorno solo, in moltissime sale in giro per il mondo verrà proiettato il film Springsteen & I, regia di Baillie Walsh, produttore esecutivo Ridley Scott. E poi naturalment eci aspettiamo il DVD. Nel frattempo…

Italiani D’America E Di Quelli Bravi! Jimmy Vivino & The Black Italians – 13 Live

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Jimmy Vivino & The Black Italians – 13 Live – Blind Pig Records

Questo disco di Jimmy Vivino si potrebbe definire un album del filone rock & soul revue, se esistesse, nel caso lo inventiamo: sapete, quei gruppi misti, di neri e bianchi, che girano per l’America portando il loro carico di canzoni più o meno celebri, originali e cover, eseguite da ensemble di musicisti piuttosto numerosi, nove complessivamente nel caso dei Black Italians, ma ce ne sono o ce ne sono stati di più numerosi, per esempio la Rock and Soul Revue di Donald Fagen (e Vivino c’era) che aveva un gruppo di musicisti fissi e guests che ruotavano a seconda delle occasioni (Libby Titus, Phoebe Snow, Eddie Brigati, Charles Brown, Michael McDonald e Boz Scaggs), questi due ultimi presenti anche nella nuova avventura  dei Dukes Of September.

Ma la formula si può applicare anche ai classici Blues Brothers o ad Al Kooper con i Rekooperators (sempre con Vivino che ha anche “ereditato” il gruppo), in Europa mi vengono in mente i Commitments, ma ce ne sono a iosa, persino le compagnie che portano in giro certi tipi di musical potrebbero rientrare nel genere, Sister Act in un ambito gospel per esempio, indovinate chi era il direttore musicale per i due film? Esatto! Sempre Vivino. Al Kooper (tra gli “inventori” della formula, rock, jazz e soul in un tutt’uno, con i suoi Blood, Sweat & Tears) è stato il suo mentore, ma Jimmy era presente anche nel live dell’89 di Laura Nyro At The Bottom Line o nel disco come Killer Joe di Max Weinberg, in cui era chitarrista e produttore.

Il sodalizio tra i due poi è proseguito negli anni, perché la vera mente musicale nella house band del Late Night With Conan O’Brien è sempre stata il buon Jimmy, che anche in questo caso ha poi ereditato il posto. Il musicista del New Jersey ha suonato tutti i generi, blues con Odetta, Louisiana Red, Shemekia Copeland,  rock con Willie Nile (in Live From The Streets Of New York) ma anche con i Gov’t Mule, con grandi cantanti come Phoebe Snow, Bette Midler, Cissy Houston, John Sebastian (non sapevo fosse italiano pure lui, John Sebastian penso Pugliese, anche se Vivino nelle note, lo storpia senza la i, ma quando racconta con orgoglio del figlio che ordina, e qui scrivo come è riportato nel libretto “ oreganatta, strachetella e veal scalloppini” ?!?, non si può dai!).

Tuttavia quando si arriva alla musica questo signore ci sa fare come pochi: la sua discografia riporta solo un altro album a suo nome, Do What Now? del 1997, proprio con i citati Rekooperators, ma questo 13 Live, registrato dal vivo nei famosi Levon Helm Studios di Woodstock, davanti ad un pubblico ad inviti, è un gioiellino! Si parte con la travolgente Fat Man, un brano di Derrick Morgan (un giamaicano che era l’anello mancante tra il soul e il reggae) che qui sembra una canzone dei Little Feat registrata in quel di New Orleans, con la slide di Vivino, l’armonica di Felix Cabrera e le tastiere di Danny Louis subito a dettare i tempi, mentre tutta la band, con il batterista James Wormworth e un terzetto di percussionisti fantastici che dà una scansione ritmica latina formidabile al sound. Poi il blues eccellente di Soulful Dress con la voce nerissima di Catherine Russell a guidare le danze e la chitarra del leader sempre tagliente (ricorda in tutto il disco il “sound” di Robbie Robertson)  a farsi largo nel denso magma sonoro dei Black Italians, con Cabrera che alterna il suo lavoro all’armonica a quello come voce solista, che divide con la Russel e Vivino.

La prima cover di Dylan è una tiratissima From A Buick 6, che in quegli studi in passato deve essere risuonata spesso! Fast Life Rider è un brano di Johnny Winter che sembra una outtake da Live At Fillmore East degli Allman, con tutti i percussionisti in overdrive e la slide che viaggia che è un piacere. Fool’s Gold porta la firma di Vivino ma potrebbe essere uno slow blues di quelli che Al Kooper scriveva ai tempi della Super Session o prima e Catherine Russell la canta con una voce che è una via di mezzo tra Etta James e Randy Crawford e anche Heaven In A Pontiac se non riportasse come autore James Vivino potrebbe essere un pezzo R&R di Chuck Berry mentre Animalism di Cabrera potrebbe essere un omaggio ai War di Eric Burdon, Light Up Or Leave Me Alone era un brano di Jim Capaldi per i Traffic e questa formazione a forte trazione ritmica gli rende piena giustizia. Ottimo anche lo scatenato funky What I Have To Do di James Brown per Marva Whitney, con la Russell e il trombone di Danny Louis sugli scudi. Il ritmo indolente di Miss Mona, di nuovo i Feat nella Crescent City e poi il trittico finale di Maggie’s Farm, ancora un Dylan assai ritmato, una Song For Levon molto sentita e la cover di Shape I’m In della Band. Un disco inaspettato ma che regala buone vibrazioni!                 

Bruno Conti