Ripassi Estivi 1. Un Ottimo Duo Bresciano Di Blues(Rock) Made In Italy. Superdownhome – Twenty Four Days

superdownhome twenty four days

*NDB E’ iniziata ufficialmente l’estate, quindi come usa fare tra le persone scrupolose, iniziano anche i ripassi: anche noi del Blog pure quest’anno ci adeguiamo. Scherzi a parte, da oggi, pur mantenendo la “programmazione” abituale di recensioni di dischi nuovi, anticipazioni di future uscite e quant’altro, di tanto in tanto troverete dei Post (miei e degli altri collaboratori di Disco Club) dedicati al recupero di dischi che per vari motivi non sono stati pubblicati sul Blog nei mesi passati.

Superdownhome – Twenty Four Days – Slang Records

Per la serie blues Made in Italy, un’altra “nuova” formazione che si affaccia sulla nostra scena  interna. Il nuovo virgolettato è perché in effetti  i Superdownhome, da Brescia, sono comunque in pista da un paio di anni, hanno già pubblicato un EP e pure questo Twenty Four Days circola (a fatica, se non trovate il CD fisico c’è comunque il download digitale, ma non è la stessa cosa) da qualche mese, ma in ogni caso non scade!  E senza dimenticare che i due componenti del gruppo (ebbene sì, sono un duo, chitarra e strings, come dicono le note, e batteria) sono in giro da qualche annetto, Henry (Enrico) Sauda prima suonava nei Granny Says e negli Scotch, mentre il batterista Beppe Facchetti ha collaborato con Elizabeth Lee’s Cozmic Mojo, con Louisiana Red, Rudy Rotta, e Slick Steve & The Gangsters, sempre in modo indipendente e sotterraneo: quindi cerchiamo di aiutarli vieppiù ad emergere diffondendo, per quello che si può, il loro verbo. Sul sito della etichetta vengono presentati come un duo di rural blues, con uso di chitarra, Cigar Box e Diddley Bow e batteria, solo rullante e cassa, ma il suono che si percepisce ascoltando questo CD non è per niente rurale, anzi è elettrico, vibrante e ricco di grinta. Sono stati fatti paralleli con Seasick Steve e Scott H. Biram per questo approccio DIY e minimale, ma mi sembra che la quota R&R che esce dalle dieci canzoni di questo album non sia affatto marginale: d’altronde un disco che “coverizza” un brano come la leggendaria Kick Out The Jams degli MC5 non usa certo le mezze misure.

La voce di Sauda, sa essere suadente, ma anche rauca, vissuta ed incazzata, come timbro a tratti mi ricorda quella dell’amico Fabrizio Friggione dei Fargo, anche se lo stile è diverso, per quanto entrambi attingano dal blues come fonte di ispirazione, e poi la presenza di Popa Chubby in un paio di brani  di questo Twenty Four Days è sintomatica. Insomma siamo di fronte ad un gran bel dischetto, solo 34 minuti di musica, ma tanto impegno e passione: ogni tanto si tenta anche la strada della roots music come nella conclusiva delicata Goodbye Girl, una bella ballatona, dove si ascoltano, credo, anche delle tastiere e chitarre aggiuntive suonate da Marco Franzoni, che è il produttore dell’album, registrato tra ottobre e novembre del 2017 al Bluefemme Stereo Rec di Brescia, e che vanta collaborazioni con altri artisti indipendenti ma anche mainstream come Omar Pedrini. I Superdownhome hanno aperto per Popa Chubby, Andy J Forest, Doyle Bramhall II e Bud Spencer Blues Explosion.

Tornando al disco il mood che prevale è spesso robusto e grintoso, se non anche selvaggio: l’iniziale Twenty Four Days con bottleneck in azione, è subito una stilettata di energia, sulle strade del blues più ispido, ma legato alla tradizione, Stop Breaking Down Blues di Robert Johnson, c’era anche su Exile On Main Street degli Stones e l’hanno suonata pure in molti altri, dai Fleetwood Mac di Peter Green in giù, e fa parte dei brani, “buoni, brutti e cattivi”, per citare Sergio Leone, buoni per la musica, ma brutti e cattivi per l’approccio, ruvido ed elettrico, anche grazie alla presenza di Popa Chubby, con il rock che va a braccetto con le 12 battute, con le chitarre che mulinano di gusto. Over You è più sinuosa e serpentina, mentre Nobody Knows ha ritmi più frenetici  e scatenati, con le chitarre sempre in evidenza. Disabuse Boogie si presenta sin dal titolo, un po’ Canned Heat, un po’ Thorogood, un po’ ZZ Top vecchio stile, ottima ed abbondante, Long Time Blues è l’altro brano che prevede la presenza del buon Chubby,  e Down In Mississippi è proprio il classico di J.B. Lenoir, misterioso e dalle atmosfere sospese.  Bad Nature, di nuovo a colpi di slide e blues completa un menu vario e di buona qualità complessiva.

Bruno Conti

Succedeva Più Di 40 Anni Fa, Un Piccolo Classico Del Rock Riscoperto! Black Oak Arkansas – The Complete Raunch ‘n’ Roll Live

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Black Oak Arkansas – The Complete Raunch ’n’ Roll Live – Real Gone Music 

Il disco originale, uscito in origine nel 1973, è considerato a ragione uno dei piccoli classici Live della storia del rock. I Black Oak Arkansas, vengono proprio dalla piccola cittadina dell’Arkansas, e  come molti altri gruppi nati in quel epoca si trasferirono alla fine degli anni ’60 a Memphis, una delle capitali della musica, prima come The Knowbody Else (pubblicando addirittura un album per la Stax, rimasto ignoto ai più), poi un ulteriore trasferta in California, cambiando anche il nome in B.O.A e venendo messi sotto contratto dalla Atco, pubblicando tra il ’70 e il ’72 ben tre album di studio,  piuttosto buoni e caratterizzati da un certo successo commerciale (allora bastava arrivare intorno al 100° posto delle classifiche per vendere mezzo milione di copie), e circondati dalle polemiche per i contenuti pseudo satanici nascosti nei testi del cantante Jim Dandy, che, leggenda vuole, in un concerto borbottò tre volte “natas”, ma era probabilmente più dovuto al tasso alcolico e a quello che si fumava (non sigarette) che a motivi trasgressivi veri.

Comunque Jim “Dandy” Mangrum era effettivamente un personaggio sopra le righe, un prototipo per i futuri biondi con capello lungo, torso nudo, pantalone attillato, tipo Axl Rose e David Lee Roth, più che una copia di Robert Plant, che però era un grande cantante: comunque, anche con quella voce, che lui stesso definiva “l’urlo di un rospo”, sgraziata e rovinata dall’uso dell’hashish, non dal fumo di sigarette normali, era un animale da palcoscenico, con dei lunghi discorsi, spesso senza senso, tra un brano e l’altro, che avevano un effetto scatenante sul pubblico presente https://www.youtube.com/watch?v=KDJEfd4O0Ro . Oltre a tutto il repertorio della band era ottimo, gli album di studio, alcuni prodotti da Tom Dowd, pure Raunch’n’Roll, erano degli ottimi esempi di southern rock, sguaiato e “sporco” rispetto ai classici del genere, ma comunque di grande efficacia. Il gruppo era una vera potenza, con tre ottimi chitarristi, Harvey Jett, Stanley Knight e Rick Knight, alla dodici corde e con un batterista esplosivo come Tommy Aldridge (futuro collaboratore di Pat Travers, Gary Moore e Ozzy Osbourne) da poco entrato in formazione, in quel dicembre del 1972 in cui furono registrati i due concerti al Paramount Theatre di Portland.

Eh sì, perché qui sta la bellezza di questa ristampa doppia potenziata (già uscita nel 2008 per la Rhino Handmade, molto costosa e sparita in fretta dalla circolazione), dai sette brani del vinile originale dell’epoca (con la lunga Up, sfumata a 9 minuti dai quindici della versione completa) passa a ben 24 canzoni, le due serate complete, che anche se presentano molti brani in comune, offrono in ogni caso quattordici brani diversi. Ci sono naturalmente tutti i classici, Dandy canta con quella voce strozzata e gutturale, che ha comunque una sua rozza efficacia, ma sono i suoi compari che portano a casa il risultato: pezzi come l’iniziale Gettin’ Kinda Cocky, che apre entrambi i concerti, e che è una sorta di dichiarazione di intenti del gruppo, fonde un rock sudista poderoso e tirato, con l’energia e la grinta live di gruppi come gli MC5, con le chitarre che inanellano una serie di soli, anche ricchi di classe e tecnica, mentre Mangrun è una sorta di dinamo inarrestabile che proietta la sua carica sul pubblico presente, con presentazioni che sono versioni distorte dei sermoni imparati dalla mamma, tutt’ora maestra del coro in una chiesa nella natia Black Oak.

Ma sono i chitarristi e il batterista i veri protagonisti del concerto, andatevi a sentire il grande lavoro che fanno in un brano come Fever In My Mind, che è potenza rock allo stato puro, con le soliste che intrecciano duelli di grande intensità, ma anche la capacità di imbastire versione bastardizzate di un country malandrino e quasi punk , come in Uncle Liijah e R&R winteriano nella tiratissima Keep The Faith, con le due/tre soliste all’unisono, in puro stile sudista. Anche Mutants Of The Monster è un’altra sberla in faccia, con il suo crescendo vorticoso https://www.youtube.com/watch?v=muPcr4LIWiI  e Hot Rod è un’orgia wah-wah cattivissima, per non parlare di  devastanti versioni di Lord Have Mercy On My Soul e Full Moon Ride, ancora rock galoppante alla ennesima potenza o i canti tribali di una When Electricity Came To Arkansas, dove Dandy, con un primitivo washboard, detta i tempi di una sorta di rito pagano rock, prima di lasciare spazio alla band che nella parte strumentale del brano non ha nulla da invidiare ai migliori Allman Brothers, Dixie è il classico pezzo sudista che parte come un inno e poi “degenera” in puro stile Black Oak, altro super classico è Hot And Nasty, nuovamente puro southern rock della più bell’acqua https://www.youtube.com/watch?v=pDyp75O0kyc , prima di lanciarsi in una lunghissima Up, che è la quintessenza del sound della band, anarchico e disordinato (un assolo di batteria di 8 minuti era necessario?), ma con un assolo micidiale di slide nella parte finale https://www.youtube.com/watch?v=ZzlnpiH6SXY . Conclude la serata dell’1 dicembre una Movin’, quasi free form rock orgasmico che poi sfocia in un’altra micidiale cavalcata. La seconda serata, con alcune variazioni (anche sonore, per cui vale la pena di averla) replica il repertorio della prima, con l’aggiunta di un altro classico della band come Gigolò, che mancava dalla prima. Classico R&R con gli attributi, come usava un tempo.

Bruno Conti

Fra Tocchi Di Genio E “Follia” Sonora: Scott H. Biram – Nothin’ But Blood

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Scott H. Biram – Nothin’ But Blood – Bloodshot records/IRD

Ogni volta che mi imbatto, anche per recensire un suo disco, in Scott H. Biram, sono sempre combattuto tra l’ammirazione e la voglia di prenderlo a calci nel culo (si può dire calci?). Il talento nel musicista texano indubbiamente c’è, si è “inventato” questo stile da one man band, o meglio da Dirty Old One Man Band, che però è il classico discendente del cosiddetto “fenomeno da baraccone” delle feste di paese, quelli che girano tuttora per gli Stati Uniti e l’Europa con il loro armamentario (mi ricordo di Otto e Barnelli, lanciati da Arbore, o l’Edoardo Bennato degli inizi, che armato di chitarra, armonica, kazoo e di una grancassa azionata dai piedi, ma non solo, proponevano la loro personale visione del blues).

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Ma c’è tutta una tradizione di musicisti di questo stampo, Biram ha espresso la sua ammirazione per Hasil Hadkins e Bob Logg III, ma come non citare Hammell On Trial e Mojo Nixon & Skid Roper, forse Scott ha aggiunto una componente caciarona, elettrica, che quasi sconfina, di tanto in tanto, nell’hard rock e quasi nel metal, che è quella che gli ha attirato l’attenzione di chi cerca il “diverso” a tutti i costi e che fa girare ogni tanto le balle al sottoscritto. Il nostro amico ha vinto anche parecchi premi ufficiali, che accetta senza problemi, esibendosi tanto al Lincoln Center di New York come al SXSW di Austin, gira l’Europa con regolarità, 16 tour in giro per il continente, ha un buon contratto con la Bloodshot che gli pubblica regolarmente i CD e un discreto riscontro di critica e pubblico.

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Questo Nothin’ But Blood è il sesto album per la Bloodshot e l’undicesimo della sua carriera: non male per uno che nel 2003 era stato praticamente fatto a fettine da uno dei grossi “truck” che girano per le strade degli Stati Uniti e aveva rischiato di morire http://www.youtube.com/watch?v=CAsOX4wSt4U . E l’attacco di questo disco con un brano come Slow And Easy, che fin dal titolo mi aveva fatto pensare che Biram avesse messo la testa a posto e deciso di dedicarsi ad un folk-blues che tiene conto sia degli autori contemporanei texani, quanto di vecchi bluesmen come Mance Lipscomb e Lightnin’ Hopkins http://www.youtube.com/watch?v=VJ6AZzj7JjE , o icone come Leadbelly e Doc Watson: la voce non filtrata, piana e diretta, una chitarra acustica in fingerpicking, una elettrica distorta sullo sfondo, ma sotto controllo, qualche altro strumento a corda sovrainciso ed una atmosfera da “quiete prima della tempesta”. Anche Gotta Get To Heaven mantiene uno spirito minimale, la voce arriva da lontano, distorta ma nei limiti, le chitarre elettriche e qualche percussione aggiungono uno spirito country-blues-gospel al brano, ma siamo sempre in un ambito quasi tradizionale.

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Ma è proprio in Alcohol Blues una cover di Mance Lipscomb che lo spirito da rocker di Scott si manifesta, un riff di chitarra da southern rock della più bell’acqua, un cantato che più che a Townes Van Zandt si rifà a Ronnie Van Zant e un breve assolo di elettrica da vero guitar hero, un uomo solo al comando, però funziona. Never Comin’ Home è un country blues bellissimo, qui vicino allo spirito di gente come Townes, con un testo molto evocativo sulla vita selvaggia e dura del solitario http://www.youtube.com/watch?v=CXkRmEUuPu4 . Ha resistito quattro pezzi ma non è nella sua natura, Only Whiskey sembra un pezzo degli Stooges o degli MC5, senza sezione ritmica, ma con lo spirito punk della chitarra e la voce distorta e incazzosa di Scott Biram http://www.youtube.com/watch?v=HRb2xhcDc2U . Jack Of Diamonds con una slide minacciosa che sembra uscire dalle paludi del Mississippi e dintorni è un altro esempio del buon blues che il texano è in grado di regalare http://www.youtube.com/watch?v=KyK8wWlt4gg . Nam Weed, racconta la sua visione del Vietnam, in un brano che ha l’immediatezza dei migliori Dylan o Prine, perfetto nella sua semplicità.

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Fin qui tutto bene, a parte un paio di inc…ture, ma l’uno-due della cattivissima Back Door Man, Howlin’ Wolf targato Dixon, filtrato attraverso Captain Beefheart, ma profondamente blues, e della riffatissima Church Point Girls, ancora MC5 misti ai primi Canned Heat, però tutto più incasinato, riportano al combat punk e in un attimo siamo di nuovo a I’m Troubled, voce, armonica e acustica che è puro Woody Guthrie o Doc Watson, che l’ha scritta. Ma, senza tregua, arriva il garage punk ai limiti feedback di una violentissima Around The Bend, che richiama addirittura la Summertime Blues dei Blue Cheer, quasi sei minuti cattivissimi che, per chi scrive, appartengono al Biram che vorrei prendere a calci nel culo, meno di altre volte in questo disco. Poi, come se nulla fosse, intona Amazing Grace, solo voce, armonica e gli effetti sonori di un temporale, non è normale uno così, ai limiti del genio, ma al contempo pazzo. Di nuovo country-blues-gospel per una When I Die molto godibile, forse influenzata dalle recenti collaborazioni con Shooter Jennings http://www.youtube.com/watch?v=0Y8s9FwE4ek  e il duetto finale con Jesse Vain per una John The Revelator che vira decisamente verso il blues.                                                                                 

Bruno Conti      

Un “Piccolo Classico”! Nine Below Zero – Live At The Marquee

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Nine Below Zero – Live At The Marquee – Fontana/Universal CD+DVD 23-10-2012

Torna in circolazione, in edizione rimasterizzata e potenziata, uno dei “piccoli classici” di culto del rock britannico dello scorso secolo. Un album, Live At The Marquee, registrato nello storico locale di Londra nel giugno del 1980 e pubblicato, a distanza di pochi mesi, nello stesso anno. Un esordio folgorante e un’idea brillantissima, quella di iniziare direttamente una carriera discografica, con un album registrato dal vivo, che fosse testimonianza dell’incredibile carica che emanava dai live shows del quartetto, come vogliamo definirlo, Blues? Ci aggiungiamo pub rock, l’energia del punk migliore, boogie e rock’n’roll, ampie spruzzate di soul e r&b, persino un pizzico di beat, il tutto condito dalla classe della frontline della band: Dennis Greaves, chitarrista dalla tecnica notevole ma anche dalla pennata pesante e con il riff facile, e Mark Feltham, armonicista potente e dallo stile coinvolgente, entrambi impegnati pure come cantanti e trascinatori di un pubblico molto eterogeneo, che vedeva tra le proprie fila non solo esteti del blues, ma anche punkettari, estimatori della NWOBHM (New Wave Of British Heavy Metal), nonché “nostalgici” del pub rock dei grandi Dr.Feelgood, forse il gruppo più speculare rispetto ai Nine Below Zero.

Tutti felici e contenti, impegnati a cantare con il gruppo a squarciagola, brani come Homework di Otis Rush o Ridin’ On The L&N, una canzone scritta da Lionel Hampton, ma conosciuta ai più per la versione dei Bluesbreakers di Mayall, apparsa su Hard Road. Non proprio dei singalongs, al limite brani che uno si può aspettare di sentire in qualche fumoso locale di Chicago. Ma i NBZ li fanno loro con delle versioni tiratissime e strabordanti, dove la chitarra di Greaves e l’armonica di Feltham sparano veloci e stringati solo e la sezione ritmica pompa ritmi che fanno muovere il piedino e anche tutto il resto del corpo. Ma Dennis Greaves è capace di estrarre dal cilindro una versione di I Can’t Quit You Baby di Willie Dixon, che per eloquenza chitarristica e tiro non ha nulla da invidiare alla versione dei Led Zeppelin.  O tutto il gruppo è capace di scatenarsi e scatenare il pubblico in un uno-due soul/errebì da casa Motown con I Can’t Help Myself  e Can I Get A Witness. Ma che la temperatura non sia “Nove Gradi Sottozero” si intuisce fin dall’iniziale rilettura di un classico come Tore Down, un classico di Freddie King anche nel repertorio di Clapton, ma che qui viaggia a velocità supersonica e ricorda tra tanti, a chi scrive, quelle cavalcate tra boogie, blues e R&R dei Ten Years After più arrapati dal vivo, qualcuno ha detto “Hau, hau, hau”?

Anche Straighten Her Out, scritta dai componenti del gruppo, non ha nulla da invidiare ai brani più tirati dei Dr.Feelgood, o anche a un Thorogood o un Johnny Winter d’annata, lo spirito è quello. Dopo le delizie citate prima, il gruppo ci regala delle versioni al fulmicotone di Hootchie Cootchie Coo di Hank Ballard e una deragliante Woolly Bully, proprio quella di Sam The Sham & The Pharaos, con armonica e chitarra a sostituire il Farfisa dell’originale. Stop Your Naggin’, sempre più frenetica, tanto da far sembrare la parte centrale di I’m Going Home, un brano al ralenti, è un originale di Greaves. Una versione sontuosa di Got My Mojo Working che avrebbe reso orgoglioso il suo titolare Muddy Waters, ma anche i suoi discepoli Animals, Stones, Them e Pretty Things, nei primi anni di carriera, precede una Pack Fair And Square che sembra presa di sana pianta da Johnny Winter And Live, rock’n’rollin’ blues alla ennesima potenza, mentre Watch Yourself è Chicago Blues Elettrico di gran classe.  Conclude il concerto uno strumentale tra boogie e swing, Swing Job appunto, dove tutti i componenti del gruppo danno il meglio di sé.

E questo è solo il disco originale; ora, nella versione espansa, ci sono anche gli Encores, altri 7 brani fenomenali. Una Rocket 88 da multa per eccesso di velocità nel Blues, (Just) A Little Bit, un R&B roccato con la chitarra di Greaves e l’armonica di Feltham (che ricorda un poco il sound di John Popper dei Blues Traveler), Twenty Yards Behind  è pub rock misto a ska accelerato e punkizzato, grandissima versione, super classica, di Stormy Monday, a sancire le loro credenziali Blues. Un altro estratto da Johhny Winter And Live è il R&R iper vitaminizzato di Is That You mentre chiudono Keep On Knockin’ in una versione violentissima come neppure gli MC5 dei tempi d’oro e una Madison Blues con bottleneck d’ordinanza e un tiro musicale che ricorda ancora le annate migliori di Thorogood e Winter. I Nine Below Zero non si sono mai più ripetuti a questi livelli, ma questo Live At the Marquee basta e avanza per ricordarli con piacere tra gli outsiders di lusso. Il DVD contiene filmati d’epoca girati a 16 mm, da una vecchia VHs trasmessa dalla Rai ai tempi e altre chicche. L’imperativo è comprare!         

Bruno Conti      

Detroit Blues Rock. Howard Glazer And The El 34s – Wired For Sound

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Howard Glazer and The El £4s – Wired For Sound – Lazy Brothers Records

 

Fisicamente pensate ad una specie di incrocio tra Johnny Winter e Warren Haynes, forse anche musicalmente, se fossero nati a Detroit. Però meno bravo di entrambi, embé. Anche lui ha il classico difetto, immancabile in tanti bravi chitarristi, la voce (ma prendersi un cantante no?). Forse costa troppo, per cui vai col classico trio e con i soldi risparmiati per il cantante ci possiamo permettere una sezione fiati in alcuni brani.

Questo Wired For Sound è il terzo album di Howard Glazer dopo una militanza nella band di Harmonica Shah altro musicista di Detroit di cui francamente ignoravo l’esistenza. Se non consideriamo la voce Glazer ha un suono chitarristico di quelli tosti, riff e assoli poderosi spesso con la slide a manetta come nell’iniziale Touch my heart, si scrive i brani da solo, fa un power blues-rock roccioso con continui cambi di tempo e genere. Quando usa i fiati come in Happy In My Arms assume delle tonalità quasi alla Stax (il “vecchio” Albert King docet), ci sono anche un paio di voci femminili addette alle armonie vocali e il nostro amico sa anche essere più raffinato e meno brutale nei suoi interventi. Il voodoo blues di Living On The Edge profuma di swamp rock e in Detroit Blues Party appaiono anche uno dei “padri” del blues moderno (e antico) David Honeyboy Edwards e l’ottima vocalist locale Lady L dal timbro potente che consiglierei al nostro amico per il suo gruppo.

Non mancano anche i torridi slow blues quasi alla Cream come nell’intensa Hurts So Badly con la chitarra che viaggia che è un piacere, ma il cantato ricorda molto Roy Buchanan che non rimarrà nella storia del blues come cantante (e temo neppure Glazer). Qualcuno ha citato anche Kim Simmonds dei gloriosi Savoy Brown come fonte di ispirazione e devo dire che glielo appoggio. Waiting For The Train è una piacevole variazione sul tema, più acustica e con una bella slide resonator in evidenza. Wall Street Bailout con le sonorità minacciose di un wah-wah in primo piano per certi versi ricorda un altro “figlio” di Detroit, quel Ted Nugent che nei primi anni ’70 (ma già nelle decade precedente) era uno dei rocker più selvaggi della scena americana (e un chitarrista fantastico). Nello spazio di un attimo I Got A Good Girl ci riporta all’anima più gentile, acustica del nostro amico con il bassista Bob Goodwin che si cimenta anche all’armonica e la resonator di Glazer che ricorda l’albino texano ricordato all’inizio. Ancora slide ma elettrica per Get Me Out Of Here e poi il funky fiatistico di Reel me in ancora con wah-wah in evidenza.

A conferma dell’eclettismo di questo Wired For The Sound c’è spazio anche per l’acustica Half Empty con una chitarra arpeggiata e atmosfere sognanti e gentili quasi psichedeliche per poi passare nuovamente al funky marcato ed elettrico della successiva No regrets.

Quest’anno compie 80 anni ma il poeta, performer, leader delle “White Panther” e manager degli MC5 John Sinclair ai tempi gloriosi della Motor City Mania, fa una apparizione sia in Goodbye che nella ripresa di Detroit Blues Party per rinverdire i fasti dei vecchi tempi e il rock ruggente e glorioso dei suoi protetti, il vocione è ancora ipnotico e gli sprazzi jazzati del primo brano sono notevoli così come la chitarra in overdrive di Glazer. Magari un album tutto così non sarebbe male!

Bruno Conti