Un Gruppo Di Texani Anomali. The Vandoliers – Forever

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Vandoliers – Forever – Bloodshot Records

Sono in sei, vengono dal Texas,  ma incidono per una etichetta di Chicago, la Bloodshot, e il disco è stato registrato in quel di Memphis. Forever è il terzo disco dei Vandoliers, band proveniente dall’area di Dallas/Forth Worth, e come molti gruppi sotto contratto con la Bloodshot il loro genere ha comunque strette parentele con lo stile alternative e punk frequentato da gruppi come gli Old 97’s, i Mekons, ma anche pescando nel passato, Jason And The Scorchers, oppure su lato più vicino al folk arrabbiato, i Dropkick Murphys. Il leader dei Vandoliers Joshua Fleming, ha anche raccontato di una recente passione per la musica country, e per Marty Stuart nello specifico, sviluppata durante un periodo di riabilitazione da un infezione alla vista, passata guardando lo show televisivo di quest’ultimo. Tutto questo quindi ci porta al fatidico cow-punk, termine abbastanza” inflazionato” che comprende influenze country, alternative rock, ovviamente punk, ma anche elementi di roots music e Americana, insomma un calderone dove confluisce un po’ di tutto.

In America hanno ricevute molte definizioni lusinghiere: dai Pogues americani, a un incrocio trai Calexico e Dropkick Murphys, ma anche Tex-Mex punk e via discorrendo. Ascoltando il loro disco tutto torna, queste influenze e rimandi naturalmente ci sono, aiutati da una formazione che affianca una sezione ritmica particolarmente grintosa ed un chitarrista diciamo energico come Dustin Fleming, che non è parente di Joshua, alla presenza di un violinista, Travis Curry e di un multistrumentista come Cory Graves, tastiere ma anche tromba, per cui tutte le suggestioni sonore poc’anzi ricordate ci sono,  per carità niente di straordinario, comunque si apprezzano almeno freschezza e vivacità confortanti per chi ama il genere. Joshua Fleming ha la classica voce vissuta e roca, temprata dal passato punk, mitigata da questa “nuova” commistione con stili meno roboanti: ecco allora il Red Dirt country energico dell’iniziale Miles And Miles, dove il violino guizzante di Curry si affianca alle chitarre ruvide e alla voce scartavetrata di Fleming, per un brano che potrebbe rimandare anche ai Gaslight Anthem https://www.youtube.com/watch?v=3eiTD0BkBbs. La galoppante Troublemaker, con il suo ritmo incalzante e la voce sgangherata ricorda appunto quasi dei Pogues  in trasferta sui confini messicani, con violino e tromba ad animare le influenze folk e tex-mex immerse in un punk barricadero. Trombe che imperversano anche in All In Black, altro brano energico, con una chitarra twangy a ricordarci i vecchi Jason And The Scorchers: insomma tutta roba già sentita, piacevole ma nulla più.

Fallen Again è nuovamente border music, non particolarmente innovativa ma con qualche spunto sonoro più interessante, a voler essere benevoli. Sixteen Years con trombe mariachi che si innestano su una base di rock americano blue collar, e con la voce urgente di Fleming e la chitarra dell’altro Fleming a menare le danze, è sempre gradevole, ma non travolgente; Shoshone Rose potrebbe ricordare un Popa Chubby (anche per il tipo di voce) convertito ad un roots-rock di stampo ’70’s e Bottom Dollar Baby vira verso un “countrabilly” più frenetico, di nuovo in bilico tra Messico e chitarre twangy. E non manca neppure una ballata “ruffiana” come Cigarettes And Rain, che comunque non dispiace, un pezzo di chiaro stampo southern, che però mi sembra sincero e partecipe, bella melodia corale e anche l’interpretazione dei due Fleming è efficace, con il violino che torna a farsi sentire; Nowhere Fast ci scaraventa di nuovo verso la frontiera con il Messico, anche se poi il sound vira verso un rock mainstream quasi radiofonico, se le emittenti FM contassero ancora. A chiudere arriva Tumbleweed, altra ballatona country-folk eletroacustica di impianto vagamente celtico, grazie al solito violino che interagisce con una chitarra elettrica più lirica del solito https://www.youtube.com/watch?v=LhLhC9TTgSc . Abbiamo già sentito tutto, ma essendoci in giro decisamente molto di peggio, diciamo sufficienza risicata con riserva.

Bruno Conti

Anche Se “Mini” L’Unione Fa…Un Bel Disco! Mini-Mekons & Robbie Fulks – Jura

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Mini-Mekons & Robbie Fulks – Jura – Bloodshot CD

Pubblicazione in CD a larga diffusione di un disco uscito solo in vinile lo scorso anno per il Record Store Day: Jura è una collaborazione inedita e molto particolare tra il prolifico Robbie Fulks, musicista alternative-country autore di diversi album a suo nome (e che da troppo tempo non rilascia zampate degne di nota) ed il combo anglo-americano dei Mekons, qui ribattezzati Mini-Mekons, in quanto solo cinque di essi hanno partecipato alle sessions (i più importanti, non me ne vogliano gli altri: il leader Jon Langford, la vocalist Sally Timms, l’ottima violinista Susie Honeyman, il fisarmonicista Rico Bell ed il chitarrista Lu Edmonds). E’ successo che i sei sono andati fisicamente a Jura, un’isola dell’arcipelago delle Ebridi (a Sud della Scozia), a scrivere ed incidere undici brani di puro British folk, con marcate implicazioni Irish. Jura è una piccola isola di appena 170 abitanti, con un paio di paeselli, un hotel ed una distilleria di whisky (le immagini pubblicate nel libretto del CD, con tanto di faro, mi fanno venire in mente i romanzi di Peter May), ed è famosa più che altro in quanto George Orwell vi ha completato la sua opera più famosa, 1984.

Evidentemente l’atmosfera del luogo (e magari qualche whisky) è stata di aiuto all’improvvisato supergruppo, in quanto Jura  è un dischetto davvero sorprendente, di sicuro la cosa migliore messa su disco sia da Fulks sia dai Mekons da diversi anni a questa parte: l’album dura solo 34 minuti, ma sono minuti molto intensi, nei quali i sei ci deliziano con brani di folk puro ed incontaminato, con il solo uso di strumenti a corda, fisa ed organo, ma senza sezione ritmica, dividendo le performances tra canzoni più profonde e drammatiche ed altre più scanzonate, alla stregua di veri canti marinareschi (il mare è l’argomento principale nei testi). Un disco fresco, creativo, stimolante e, soprattutto, inatteso. Introdotta da un organo quasi ecclesiastico, A Fearful Moment rivela una splendida melodia epica, con chiare influenze irlandesi ed un languido violino: un brano sorprendente, bellissimo e toccante (ricorda molto certe performances di Neil Young al pump organ). Refill cambia subito registro: trattasi di un folk-blues acustico, due chitarre, un’armonica e le voci, con un deciso cambio di registro nel ritornello; con An Incident Off St. Kitt’s siamo ancora in Irlanda, una voce circondata da strumenti a corda (c’è anche un ukulele) che suonano con grande forza, un brano semplice ma riuscito, che dimostra che siamo di fronte ad un progetto serio, non ad un divertimento estemporaneo.

Shine On Silver Seas (canta la Timms), è una struggente e malinconica ballata che dona emozioni a profusione pur solo con una chitarra ed un violino, mentre Land Ahoy!, maggiormente strumentata, è puro folk, un sea shanty limpido e cristallino, ancora con lo splendido violino della Honeyman in evidenza; e che dire di Beaten And Broken, una trascinante e coinvolgente canzone marinaresca, da canticchiare dopo mezza strofa: sembrano i Fairport Convention d’annata, quelli di dischi “di mezzo” (ma belli) come Angel Delight e Babbacombe Lee. La fluida Getting On With It affianca per la prima volta elementi western alla solita matrice Irish (l’origine, se vogliamo, è la stessa) ed il tutto, manco a dirlo, funziona a meraviglia; I Am Come Home è ancora lenta ed intrisa di malinconia, con un bel coro sullo sfondo, mentre The Last Fish In The Sea è un country-folk giusto a metà tra Gran Bretagna ed America. Il CD, ripeto, una vera sorpresa, si chiude con l’intensa I Say, Hang Him!, il classico brano che i marinai possono cantare solo dopo un’allegra bevuta in compagnia, e con Go From My Window, l’unico traditional del disco, puro folk d’altri tempi, dal pathos sempre alto e toni drammatici.

Ha fatto bene la Bloodshot a rendere disponibile questo Jura su scala più larga, sarebbe stato un vero peccato perderselo.

Marco Verdi

Una Piacevole Sorpresa! Jon Langford & Skull Orchard – Old Devils

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Jon Langford & Skull Orchard – Old Devils – Bloodshot Records/Ird

E’ da un po’ che ci giro intorno, lo sento e lo risento, ogni mi volta mi piace di più ma non mi decido mai, quando me l’hanno dato da recensire era un Advance CD, nel frattempo è uscito, quindi direi che il “momento è giunto”.

Jon Langford percorre le strade del rock da una vita, prima nel natio Galles, poi a Leeds dove nel 1977 dà vita ai Mekons, uno dei primi gruppi punk a fondere l’energia del genere con una passione insana per il folk. Il nostro amico all’inizio era il batterista, poi ha imbracciato la chitarra e si è assunto la guida del gruppo come vocalist chiamando accanto a sé la bravissima Sally Timms come sua contraparte vocale femminile e realizzando una lunghissima serie di album (l’ultimo Natural nel 2007).

Ma essendo Langford un irrequieto o meglio un “artista inquieto ed eclettico”, “The Renaissance man” viene chiamato, la sua attività si svolge anche in altri campi, come pittore e disegnatore ad esempio (le copertine dei suoi dischi e di molti altri artisti sono sue). Ma rimanendo nell’ambito musicale che è quello che ci interessa, Langford ha fondato e porta avanti anche molti altri gruppi: i Waco Brothers, una ottima country-punk band con sede a Chicago, che è anche la città dove è andato a vivere agli inizi degli anni ’90, ma anche i Pine Valley Cosmonauts, un gruppo di musicisti con l’ottima Kelly Hogan alla voce, dediti alla rivisitazione di classici del country e del rock; nel passato c’erano anche i Three Johns oggi i Wee Hairy Beasties ma fermiamoci se no non ne usciamo più.

Oltre a tutto ciò, naturalmente, Jon Langford coltiva anche una carriera solista, e ci mancherebbe, di cui questo Old Devils mi sembra l’esempio più fulgido. Il gruppo, Skull Orchard, prende il nome dal primo disco da solista del 1998.

Questa volta, a 53 anni, ha deciso di fare un disco, sempre rock, ma più classico, con ampie escursioni nello stile da cantatutore ma anche nella musica roots, nel vecchio R&R e nell’amato pop di ottima qualità della sua terra d’origine, il risultato, come da titolo, è una piacevole sorpresa!

L’album è pervaso da una sottile vena di nostalgia e malinconia ma anche dal vigore del rock: un ottimo esempio è l’iniziale 1 2 3 4 Ever che unisce un vigoroso drumming da parte di Joe Camarillo (che ricorda quello del compianto Keith Moon negli Who circa 1968), a delle vigorose pennate di chitarra da parte di Langford e la chitarra Blasteriana (si potrà dire? Non credo ma chi se ne frega!) di Jim Elkington che evoca atmosfere fifties and sixties, Langford canta con verve e convinzione come sempre, ma anche con una nuova consapevolezza nella sua voce.

Book Of your life introduce elementi country-rock, sarà il violino dell’ottima Jean Cook (che si occupa delle armonie vocali e della seconda voce in tutto il disco con ottimi risultati), sarà l’atmosfera generale del brano, molto rilassata, laid-back direi quasi, comunque una canzone piacevole e godibile.

Getting used To Uselessness col testo che non manca mai della consueta ironia ed amarezza verso i tempi che viviamo ma li affronta non dico con rassegnazione ma, come si diceva, con la consapevolezza degli anni che passano: sembra dire, non si può fare il punk tutta la vita, ma quasi quasi ci provo. La voce e l’atmosfera musicale del brano ricorda gli episodi migliori della carriera di Billy Bragg accompagnata da una vena melodica e da un ritornello gustosamente orecchiabile oltre che da un assolo di chitarra semplice ed immediato, come diceva il buon Nick Lowe (un altro che, attraverso i suoi Rockpile, rieccheggia nella musica di questo CD) Pure Pop For Now People, proprio una bella canzone!

Self Portrait con i suoi coretti vecchio stile, il suo pianino insinuante e la chitarra rockabilly unsice il vigore del punk con quello del R&R come i vecchi Blasters e i già citati Rockpile. Luxury è una delicata ballata piena di melodia degna del John Lennon nostalgico degli anni ’70, gli archi, i cori e un arrangiamento “lussurioso” aggiungono spessore ad un brano molto semplice nelle sue intenzioni iniziali.

La voce minacciosa dell’icona soul André Williams (che recita solo) ci introduce a Pieces Of The Past, una storia di pirati, sangue e oro, ambientata nel porto e nelle strade di Bristol, un brano “strano”, molto cinematografico, dalle atmosfere complesse e con continui cambi di tempo, tra armoniche, tastiere e chitarre vintage con la voce guida di Langford che racconta seria ma divertita al tempo stesso.

Haunted introduce nel menu anche una sezione fiati e ci trasporta verso lidi soul e citazioni di New Orleans music da parte dell’enciclopedico Jon Langford, grande esperto di musica oltre che ottimo cantante e bandleader. Flag of Triumph è un bell’esempio di rock classico, semplice e diretto con chitarra e batteria sugli scudi, mentre la successiva Death Valley Days è un’altra ballatona di quelle lussureggianti, romantica ed “esagerata” con Jean Cook a fare il controcanto a Langford, ancora pop music di quella eccellente.

Ancora punte di eccellenza nella raffinata Old Devils, lui canta veramente bene, in ogni brano meglio che nel precedente pur non essendo in possesso di una voce memorabile in questo disco la utilizza con una efficacia raramente raggiunta nel suo passato più “urlato”, la parte centrale con chitarra e violino che duettano deliziosamente è da antologia della roots music come pure il resto del brano.

River Of Ice ancora con i fiati in evidenza è un ulteriore divertito tuffo nel passato, ma meno riuscito degli altri brani. La conclusione è affidata alla bellissima Strange Way To Win Wars, ancora cantata a due voci con la bella voce di Jean Cook che ci delizia anche con un ulteriore delicato assolo del suo violino e che mi ha ricordato, come in altri brani, il Dave Alvin degli ultimi dischi, quello maturo e pensieroso del post Blasters.

E bravo Jon Langford, da aggiungere alla lista dei Beautiful Losers.

Bruno Conti