Cantastorie, Pittore E Artista Di “Culto”. Otis Gibbs – Hoosier National

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Otis Gibbs – Hoosier National – Wanamaker Recording Company – CD – LP – Download

Questo signore è un cliente abituale di queste pagine virtuali fin dal lontano 2010, nel Bog abbiamo recensito i suoi dischi a partire da Joe Hill’s Ashes, e poi in seguito Harder Than Hammered Hell, Souvenirs Of A Misspent Youth, sino al più recente Mount Renraw https://discoclub.myblog.it/2017/02/22/un-grande-narratore-alt-country-da-salotto-otis-gibbs-mount-renraw/ . Stiamo parlando del barbuto Otis Gibbs (un tipo che potrebbe essere benissimo il quarto componente dei texani ZZ Top), pittore, fotografo ed ecologista convinto, oltre che narratore e artista di culto nell’ambito country, più o meno alternativo, che torna con questo nuovo lavoro Hoosier National, un disco completamente elettrico, dove per la prima volta suona una vecchia chitarra Les Paul con corde di grosso calibro, collegata ad un amplificatore Princeton Tuxedo del ’63, particolare non indifferente nello sviluppo delle storie che compongono questo grintoso concept album in stile roots-rock.

Per questo ennesimo capitolo della sua saga, il buon Otis si avvale come è consuetudine del suo ristretto giro di eccellenti musicisti, a partire dal chitarrista Thomm Jutz (Nanci Griffith, Mary Gauthier), il batterista Lynn Williams (Delbert McClinton, Wallflowers), Mark Fain al basso (uno che ha lavorato con Tom Petty, John Fogerty e Ry Cooder), e il pianista Jen Gunderman (Sheryl Crow, Jayhawks), ma su tutto spicca la sua voce che negli anni è diventata sempre più roca e sofferta. Le storie si aprono con una Nine Foot Problem dal passo tipico dei folksinger americani, a cui fanno seguito i sei minuti di Panhead, un bel groove blues che mi ricorda l’ultimo Steve Earle, mentre Sons And Daughters viaggia su una buona ritmica con il suono di una chitarra potente. Il racconto prosegue con l’incantevole Lord Open Road dal complesso spirito narrativo (si racconta l’omicidio di un certo James H.Langford avvenuto nel lontano 1981), un brano quasi recitativo cantato e suonato in perfetto stile Dirty Blvd del grande Lou Reed (era nell’album New York (89), per poi passare ad un brano molto rootsy come Fountain Square Stare, con un riff e una melodia trascinante, rispolverare il blues paludoso alla Tony Joe White di Mid Century Modem e a seguire un altro ritratto di vita reale come Bill Traylor (storia della vita di un afro-americano in Alabama), cantata da Gibbs con la grazia e il cuore di un vecchio bluesman.

Le storie volgono alla fine con il sincopato riff chitarristico, alla Keith Richards, di una trascinante Blood, per poi cambiare ancora genere con il gioioso country di Ten Minutes (G.A.R. Reprise), e andare a chiudere il percorso con la solita ballata commovente, una Faithful Friend dal feeling universale che ricorda il duo Mellencamp/Springsteen, su un bel tessuto musicale di tastiere e chitarre. Negli ultimi 18 anni Otis Gibbs ha pubblicato alcuni dischi straordinari (i primi tre soprattutto), ma questo ultimo lavoro Hoosier National contrassegnato da una svolta più elettrica (chitarra elettrica, basso e percussioni) potrebbe nel tempo diventare il suo CD migliore. Negli anni Otis Gibbs è stato paragonato a molti (forse troppi) musicisti, a partire da Woody Guthrie,Johnny Cash, Steve Earle, Guthrie Thomas (un altro assolutamente da riscoprire), JJ Cale, il Tom Waits più oscuro, mentre musicalmente è certamente possibile cogliere rimandi a Bruce Springsteen, e per quello che vale, credetemi, non c’è un brano debole in tutto lo sviluppo di questo splendido album roots-rock.

Per quanto riguarda la sua attività musicale, Gibbs rimane un grande narratore musicista itinerante che sa scrivere canzoni accattivanti e avvincenti, che porta la sua musica in giro per il mondo, suonando ovunque possa farlo, rimanendo volutamente fuori dallo “showbiz”, e ciò lo porta a essere un musicista di culto, ma con un fascino che molti artisti sopravvalutati neanche sfiorano. Alla fine la filosofia musicale di Otis è quella di cantare storie, a chi ha voglia di sentirle. Se lo ascoltate, difficile che possiate pentirvene.

NDT: Come al solito il CD è di difficile reperibilità, comunque lo si può acquistare sul suo sito, anche se le spese di spedizione dagli Usa sono molto salate!

Tino Montanari

Bravo, Ma Basta? Kip Moore – Wild World

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Kip Moore – Wild World – MCA Nashvile/Spinefarm Records/UMG

Kip Moore viene da Tifton, Georgia, ma da anni vive a Nashville, dove è diventato un campione di certo country “alternativo”, influenzato da heartland rock, southern e anche molto mainstream o Arena rock come viene chiamato (Bon Jovi, Kid Rock e simili) , visto che il suono ogni tanto vira diciamo sul commerciale. Wild World è il suo quarto album, ma ha pubblicato anche una decina tra singoli ed EP, con il precedente Slowheart ha coniugato successo di vendite, entrando nella Top 10 delle classifiche, e critiche più che lusinghiere, almeno negli Usa. Anche esteriormente fonde l’aspetto del countryman con il rocker urbano da giacca di pelle, fascetta, cappellino, un po’ da Springsteen o Mellencamp de “noantri”, con canzoni che oscillano tra l’impegno sociale e politico e le odi all’amore romantico e alle vicende della vita quotidiana, complessivamente il risultato è piacevole e ben bilanciato: il disco è co-prodotto con David Garcia, Luke Dick e Blair Daly, che suonano anche un po’ di tutto nell’album e firmano con Kip alcuni brani, insieme ad almeno una dozzina di altri co-autori, tutti del lato più disimpegnato del country della capitale del Tennessee (tra Contemporary Christian e gente come Carrie Underwood e Florida Georgia Line), non disprezzabile però a tratti influenzato dall’industria discografica locale.

Moore ha comunque una bella voce, profonda, risonante ed espressiva, appunto tra il nuovo country e il rock di buona fattura, prendiamo il brano di apertura, Janie Blue, dopo un incipit a base di chitarre acustiche arpeggiate, Kip rilascia una interpretazione onesta e sentita di questa intensa ballata, sottolineata da una sezione ritmica discreta ma presente; quando i ritmi si alzano e il suono si fa più muscolare come in Southpaw, si vira verso un country-southern più riffato e radiofonico non esecrabile per quanto non memorabile.

Fire And Flame è piacevole ma si comincia ad andare verso un sound con batterie martellanti e melodie orecchiabili, tipo gli ultimi U2 per intenderci, mentre la title track Wild World è un altro discreto mid-tempo , tra chitarre elettriche e tastiere non invasive; Red White Blue Jean American Dream sta tra il country targato Nashville e derive tipo lo Springsteen o il Mellencamp più innocui https://www.youtube.com/watch?v=-n__Pn4_tqE . Anche She’s Mine ricorda il Coguaro dei primi anni ‘80, quello che non aveva ancora deciso se voleva essere un epigono di Springtsteen, Dylan, degli Stones e Woody Guthrie o un rocker da FM, sia pure il tutto trasportato ai giorni nostri; Hey Old Lover dimostra una volta di più che il nostro amico sa scrivere canzoni con il cosiddetto “gancio”, ma poi le declina in un modo a tratti un po’ banalotto https://www.youtube.com/watch?v=ip3JjHNOe28  e anche Grow On You è della categoria che se la ascolti su qualche decapottabile lanciata sulle highways americane fa un figurone, con chitarre spiegate a tutto riff, ma alla fine non convince del tutto, per quanto si ascolti con piacere https://www.youtube.com/watch?v=LXaQfQb-65Y .

Quando il suono si fa più intimista, tipo in More Than Enough, si va dalle parti del Boss di Tunnel Of Love, e anche l’introspettiva, ma ben arrangiata, tra chitarre elettriche ed acustiche ridondanti, Sweet Virginia ha un suo fascino e conferma che a Kip Moore il talento di scrivere belle canzoni non manca. South, fin dal titolo ricorda il tardo southern rock degli anni ‘80, quello di 38 Special, Atlanta Rhythm Section e compagni, belle chitarre, grinta, ben cantato, ma forse non rimane molto, però se lo scopo, rispettabile, è di vendere e farsi sentire alla radio, direi missione conclusa, e pure la ruffiana Crazy For You Tonight è della stessa parrocchia, intendiamoci se confrontato con quello che circola oggi nel mainstream rock siamo di fronte ad un mezzo capolavoro, anche se forse mi aspettavo di più.

La conclusiva Payin’ Hard è l’eccezione che conferma la regola, come per l’iniziale Janie Blue si tratta di un brano più intimo e raccolto che illustra il lato migliore e più onesto della musica di Kip Moore.

Bruno Conti

Un Cielo Country, Azzurro Con Nuvole! Jason Michael Carroll – What Color Is Your Sky

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Jason Michael Carroll – What Color Is Your Sky – For The Lonely Records

Nashville è notoriamente la capitale del country, il luogo dove si reca chi vuole sfondare nell’industria discografica più tradizionale.. Ma in una città che ospita la Grand Ole Opry e altre istituzioni della musica country più genuina trova posto anche una cosiddetta “Other Side Of The City” che accoglie i musicisti meno allineati ai dettami delle majors e del suono più commerciale, più legati alla musica delle radici e, naturalmente, una schiera di artisti che si situano a cavallo tra le due scuole. Jason Michael Carroll appartiene a questa categoria di musicisti: nato a Houston, ma cresciuto nel North Carolina, che a dispetto del nome è a due passi dal Tennessee, Carroll, proveniente da una famiglia religiosa (una storia già sentita) è rimasto affascinato fin da ragazzino dal subitaneo successo di Billy Ray Cyrus (per i più giovani, è il babbo di Miley) con la sua Achy Break Heart, venduta a milionate negli anni del massimo fulgore commerciale della country music, e dopo le varie trafile nei primi gruppi locali, vince un concorso della Fox per i nomi nuovi (ci sono sempre stati, anche se forse ai tempi non li chiamavano talent) e ottiene un contratto per la Arista Nashville, con la quale pubblica il primo album Waitin’ In The Country, che casualmente (?) diventa il primo album di un esordiente, dal 1993 del disco di Cyrus, ad entrare direttamente al n°1 delle classifiche country e nelle Top 10 di Billboard.

La differenza sostanziale sta nel fatto che il disco era prodotto da Don Gehman (esatto, quello del Mellencamp degli anni d’oro, dei R.E.M., di Hootie & The Blowfish) che lo affianca a ottimi musicisti come Larry Franklin, Dan Dugmore, Greg Morrow, con un suono rootsy e rockin’ country, che non tralascia i dettami di un suono più commerciale, un giusto mix in definitiva https://www.youtube.com/watch?v=lzgMsqbjGcc . Ma siamo già nel 2007 e la crisi discografica comincia a farsi sentire, il secondo album, Growing Up Is Getting Old, sempre prodotto da Gehman, vende molto meno (ed è anche meno riuscito) e il nostro, siamo nel 2009, viene scaricato in un battibaleno dalla sua etichetta. Dopo un terzo album, Numbers, pubblicato e distribuito dalla Cracker Barrel, la nota catena di negozi e ristoranti del Tennessee, anche Jason Michael Carroll, che nel frattempo si è comunque fatto un nome come autore di brani per altri artisti, decide di tentare la strada dell’autofinanziamento, che negli Stati Uniti ormai è una scienza quasi esatta: la Kickstarter campaign lanciata ad inizio 2014 con l’obiettivo di raccogliere 40.000 dollari, non pochi, ma evidentemente Jason che ragiona ancora in termini di grandi numeri sa il fatto suo, di fondi ne raccoglie addirittura per 70.000 e questo What Color Is Your Sky di cui stiamo parlando è oggi una realtà. Con tanto di 3 bonus tracks, presentate come “fan requested addictions”: come avrebbe detto il buon Lubrano, la domanda sorge spontanea, ma è bravo?

Più o meno, diciamo abbastanza: intanto le canzoni se le scrive tutte lui, si produce, utilizza una band di onesti musicisti locali, con forte prevalenza di chitarristi e, soprattutto, è in possesso di una voce assai gradevole, dal timbro baritonale, la tipica voce del “perfetto” cantante country, con un occhio (e un oreccchio) legato al suono delle radio di settore. La “fischiettante” All I’m Drinking ‘Bout, ha una melodia molto orecchiabile, ma è nobilitata da buoni inserti chitarristici e le tastiere non sono invadenti più di tanto, anzi; God Only Knows ha un bel tiro rock classico, sempre con le chitarre in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=mmX_Ju7X0Tc , la title-track è un buon mid-tempo dall’atmosfera sognante, anche se lo scontato e il risaputo sono appena dietro l’angolo, mentre Here’s To è un bel pezzo che ricorda i gruppi country anni ’70, Eagles, Pure Prairie League, la Nitty Gritty meno tradizionale, Loggins & Messina, quel tipo di suono. Love Like July, forse con qualche synth di troppo, ha un bel groove tra West Coast e James Taylor (che Carroll molto vagamente a tratti ricorda vocalmente) https://www.youtube.com/watch?v=UttGx8VEXAw , Does He Know è la classica ballata romantica, piacevole senza essere memorabile, con un bel break chitarristico e Til The Speakers Blow, come da titolo, è un sano pezzo rock molto “riffato”. Civil War è più di quella scuola Nashville “leccata” e troppo rifinita (forse se gli davano meno soldi nella raccolta fondi era meglio) e anche Urgency, una ballata melodrammatica non entusiasma.. Meglio Blown Away, classico country-rock, meno bene We Ride, mid-tempo rock molto anni ’80, con Close Enough, traccia elettroacustica di buon spessore con uso di violino, a chiudere le danze https://www.youtube.com/watch?v=yNZNLm_5zEk . Le tre bonus non aggiungono molto, se vogliamo solo dodici minuti di musica, gradevoli ma non imprescindibili, come tutto il disco.

Bruno Conti

“Sentieri Selvaggi” ! Gathering Field – Wild Journey

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Gathering Field – Wild Journey – Wild Journey Records

Tornano dopo due anni dall’album live tratto da una occasionale reunion (recensito come sempre puntualmente su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2011/09/16/occasioni-mancate-occasioni-ritrovate-gathering-field-live-1/), quando già si cominciava a pensare che la loro carriera ventennale fosse ormai giunta al termine: in effetti questo Wild Journey è il primo disco in studio da una dozzina d’anni a questa parte, ma i pochi che li conoscono credo che non si siano certamente dimenticati come i Gathering Field fossero bravi. Il gruppo originario di Pittsburgh, come i “compagni di merenda” Rusted Root (anche loro tra i miei preferiti, ma sicuramente non fanno lo stesso genere), è una rock-band di formazione classica, solida e ben modellata, che vive come sempre sulle composizioni del leader Bill Deasy e sulla chitarra e il piano di Dave Brown, ben coadiuvati dal basso di Eric Riebling, dalla batteria di Ray DeFade, dalle tastiere di John Burgh e con il nuovo membro Clark Slater aggiunto alla seconda voce; il risultato sono dodici brani di roots-rock classico, con qualche spruzzata di country https://www.youtube.com/watch?v=xl7mDqmfHvo .

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I sentieri cominciano a dipanarsi con l’iniziale Wild Journey, una ballata elettrica dalla melodia avvincente, a cui fanno seguito le ritmate Something Holy e When Hearts Go Cold, entrambe con un bel lavoro delle chitarre, mentre la pianistica Brooklyn Honey è più introversa, molto rilassante e cantata alla meglio dalla voce profonda e calda di Deasy. Si riparte con il “groove” più ritmato di Never Gonna Let It Go e l’incedere country di Love No Longer, la fiera accattivante melodia di Not Ready Yet,  e la tambureggiante elettro-acustica Days Fly Away. Con Rough Landing si viaggia dalle parti della Dave Matthews Band, seguita dalla splendida Wild Summer Wind, grande “ballad” elettrica cantata e suonata con trasporto (la canzone migliore di tutto il disco per il sottoscritto), arrivando a concludere il viaggio con la melodia struggente di Disassemble, un bellissimo brano (con un piano limpidissimo) dal testo molto malinconico, e con la bucolica Learning To Stay dall’andamento country-western.

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I Gathering Field sono la classica band americana con un suono vicino alle radici del grande rock, e Wild Journey è un lavoro composito, ben strutturato, pieno di solide ballate elettriche nella grande tradizione della canzone d’autore a stelle e strisce (Mellencamp, Dylan, Springsteen), perché in fondo questi sono i grandi “eroi” di Deasy e Brown, ed il suono della band inevitabilmente risente di questo retaggio.

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Per questo finale di annata un lavoro da non sottovalutare (se lo avessi sentivo prima sarebbe entrato nella mia “listina” dei Top), un disco maturo e musica di qualità per una band che aspetta solo, come un regalo di Natale a sorpresa (ma anche per la Befana,o quando volete, visto la non facile reperibilità), di essere conosciuta come merita dagli appassionati del rock americano.

Consigliato!

Tino Montanari

Una “Consegna” Di Belle Canzoni! Mary Cutrufello – Faithless World

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Mary Cutrufello – Faithless World – Appaloosa/IRD 10-11-2014

A distanza di due anni dall’ultimo lavoro Fireflies Till They’re Gone http://discoclub.myblog.it/tag/mary-cutrufello/ , torna con una nuova proposta e nuovi concerti (domenica 9 novembre, a chi interessa, sarà al Bar Trapani, in quel di Pavia, e il sottoscritto, salvo impegni, pensa di andarla a vedere),  la brava Mary Cutrufello (figlia adottiva di italo-americani), e per questo molto legata al nostro paese. Negli ultimi anni le registrazioni di Mary si erano concentrate su tematiche più acustiche e un certo amore dichiarato per la musica honky-tonky, ma con Faithless World si fa ritorno alle origini, mescolando dosi di sano rock, una spruzzatina di soul (che non fa mai male), con amplificatori sparati “a palla”.

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L’album è stato registrato a Minneapolis, Minnesota sotto la produzione del fidato batterista Greg Schutte (giunto alla quarta collaborazione, iniziata con l’ottimo 35), con chitarre sempre in tiro, per nove canzoni di stampo classico, interpretate in modo sfavillante da questa rocker di colore.

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Con l’iniziale Cold River si comprende subito il tono del lavoro, chitarre texane con armonie in stile gospel, a cui fa seguito il granitico rock’n’roll di Promise Into Darkness e la ballata lievemente soul Lonesome And The Wine. Si riparte con la tambureggiante Worthy Girl https://www.youtube.com/watch?v=6FLfXDRg9mU , per poi passare al country veloce di Fools And Lovers cantato a più voci, con il banjo suonato dal bravo Kenny Wilson, il rockabilly di stampo chitarristico di Fool For You, e il tex-mex (alla Los Lobos) di Three Broken Hearts. Le storie “infedeli” si concludono con la pedal-steel di Mike Hardwick che accompagna una campestre Santa Fe Railroad, e con la struggente ballata folk-blues di The FedEx Song con un bel lavoro di armonica (e una bella dose di autoironia, visto che è il mestiere che Mary fa da circa 10 anni per campare,  FedEx di giorno e musica di notte) .

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La storia di Mary Cutrufello è iniziata anni fa, quando ancora ragazzina, ma già con voce da maschiaccio e chitarra spianata, inseguiva i suoi miti musicali (Springsteen, Mellencamp, Seger e Willie Nile) arrivando nel contempo a sognare di confrontarsi con Joan Armatrading, Tracy Chapman e Melissa Etheridge, e  anche se in questi anni la fortuna non l’ha certamente aiutata, rimane imperterrita una tra le più brave “rocker” in gonnella sulla piazza, con una bella voce graffiante, ricca di vita vissuta, depositaria di un istinto “blue collar” che rivive in queste canzoni, cantate come sempre con una grinta fuori dal comune https://www.youtube.com/watch?v=XT-Tc9jXrmA .

NDT: Avviso ai naviganti, il CD della Appaloosa, in bella versione digipack con taschina, contiene il libretto con i testi originali, e la traduzione in italiano di Cesare Carugi e sarà disponibile per la vendita dal 10 novembre.

Tino Montanari

Altri Ripassi Per L’Estate: Dal Texas L’Ultimo “Troubadour”? Matt Harlan – Raven Hotel

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Matt Harlan – Raven Hotel – Berkalin Records

Con questo nuovo lavoro Raven Hotel (uscito la scorsa primavera), ritorna uno dei migliori e, purtroppo, più sconosciuti talenti della nuova canzone d’autore texana, quel Matt Harlan che con l’esordio con Tips & Compliments (10) è stato in lizza una prima volta per la vittoria finale ai “famosi” Texas Music Awards (premio poi ricevuto nel 2013 come miglior songwriter), un disco prodotto da quella vecchia volpe di Rich Brotherton (Robert Earl Keen), successo di critica bissato dal successivo Bow And Be Simple (12) registrato con il gruppo danese dei Sentimentals, sempre di ottima fattura. Matt Harlan è un interessante personaggio, proveniente da Houston, che sfoggia la capacità di coniugare testi piuttosto personali con una costruzione melodica di tutto rilievo, scrivendo belle canzoni che lasciano il segno https://www.youtube.com/watch?v=tzf1-5P9vzc . La band che accompagna Matt negli studi di Austin, Tx, dove è stato registrato il CD, comprende, oltre al fidato produttore e polistrumentista Rich Brotherton alle chitarre, lap steel, dobro, banjo e sinth, il grande Bukka Allen all’organo, fisarmonica e piano, Mickey Raphael all’armonica (compagno d’avventura fisso nei dischi di Willie Nelson), Glenn Fukunaga al basso (visto e sentito spesso con Joe Ely), John Green alla batteria, Floyd Domino anche lui alle tastiere, John Mills al sassofono, la brava Maddy Brotherton al violino (una delle figlie di Rich), e l’indispensabile contributo come “vocalist” di supporto della moglie Rachel Jones, per un viaggio nel tempo nelle dodici stanze del Raven Hotel.

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La prima stanza è quella caratterizzata dal violino e dal banjo della delicata Old Spanish Moss https://www.youtube.com/watch?v=iYffTyrdkvk , poi ci sono le atmosfere country bluegrass di Half Developed Song, i toni caldi di una ballata tipicamente texana come Second Gear https://www.youtube.com/watch?v=tpwsbp_HscE , mentre il piano e la splendida voce di Rachel Jones disegnano una melodia cristallina in Riding With The Wind. Salendo al secondo piano dell’hotel, troviamo il sentimentalismo nostalgico di We Never Met (Time Machine) https://www.youtube.com/watch?v=CmjzAGkv7sk , le chitarre elettriche spianate di una Rock & Roll (qui in versione acustica https://www.youtube.com/watch?v=D7BuXsjKuZw )molto alla Mellencamp , le soffuse percussioni della title track Raven Hotel, passando per la dolce fisarmonica di Bukka Allen nella splendida Old Allen Road (da cantare sotto un cielo di stelle del Texas). Salendo ancora le scale si arriva alle suite, con le note ovattate di Burgundy & Blue, una malinconica canzone d’amore fatta come una ballata jazz, sostenuta dal sax fumoso di John Mills, alla quale si aggiunge Slow Moving Train, cantata in duetto dai coniugi Harlan, con l’armonica di Mickey Raphael ad illuminare la scena, mentre The Optimist si sviluppa su lap-steel e chitarre elettriche, andando a chiudere il portone del Raven Hotel con il folk delizioso e acustico di Rearview Display https://www.youtube.com/watch?v=lDSlg_ViS5Q .

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Matt Harlan, per chi scrive, possiede la liricità che soltanto gli “storytellers” di razza hanno avuto in passato (maestri quali Guy Clark e Robert Earl Keen, per citarne un paio), e pare inseguire la stessa lezione di quella generazione di “songwriters” che hanno raccontato e cantato l’altra faccia dell’America in chiave elettro-acustica (Chris Knight, Chris Smither e Slaid Cleaves, per citarne altri), e un disco come questo Raven Hotel è uno di quelli (ne sono certo) che finirà per piacere a tutti gli innamorati di un certo “songwriting” made in Texas, perché Harlan è un narratore, i racconti di Matt sono vere storie di vita reale, come i personaggi che occupano le dodici stanze del Raven. Matt Harlan è uno dei regali più belli, e meno conosciuti, usciti negli ultimi anni nel panorama del cantautorato americano.

Tino Montanari

“Giovane Per Sempre”, Ma Alla Fine Anche Lui Se Ne E’ Andato, A 94 Anni Si E’ Spento Pete Seeger!

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Peter (Pete) Seeger, nato e morto a New York, 3 maggio 1919 – 27 gennaio 2014, è stato uno dei più importanti musicisti dello scorso secolo e di uno scorcio di questo, attivista politico, autore di canzoni, per grandi e piccini, “socio” di Woody Guthrie, ha attraversato due guerre mondiali, è stato “comunista in America”, ecologista, pacifista, antesignano di Occupy Wall Street, voi pensatelo, lui lo ha fatto http://www.youtube.com/watch?v=ADtAU43MM14 . Ha scritto centinaia di canzoni e registrato decine di dischi, da solo o con gli Almanac Singers e i Weavers, ha influenzato un po’ tutti, da Dylan e i Byrds http://www.youtube.com/watch?v=W4ga_M5Zdn4a Joan Baez e Steve Earle, fino a Springsteen e Mellencamp http://www.youtube.com/watch?v=mt9jWoXmrLw . Sarebbe troppo lungo raccontare la sua parabola musicale, e quindi piuttosto che ridurmi a dire, come hanno fatto molti quotidiani italiani, che il suo contributo più significativo alla musica è stato quello di scrivere If I had a hammer, che in italiano diventò Datemi un martello di Rita Pavone!, preferisco ripubblicare quanto avevo scritto, sul finire del 2012, in occasione dell’uscita del suo ultimo disco, aggiornandolo con alcune foto significative più di mille parole (e qualche video) http://www.youtube.com/watch?v=QhnPVP23rzo . Mi sembra un epitaffio più dignitoso.

93 Anni E (Quasi) Non Sentirli! With Lorre Wyatt – A More Perfect Union

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Pete Seeger & Lorre Wyatt – A More Perfect Union – Appleseed Recordings/IRD

Nel 2008 aveva pubblicato At 89, chiaro riferimento alla sua età, l’anno successivo per il 90°, si è tenuto al Madison Square Garden un concerto commemorativo, The Clearwater Concert, dove appariva accanto ad una folla di cantautori accorsa per celebrare la sua carriera, da Springsteen a Mellencamp, Dave Matthews, Billy Bragg, Tom Morello, Roger McGuinn, Joan Baez, Ramblin’ Jack Elliott e moltissimi altri, tra i quali il figlio del suo vecchio sodale Woody, Arlo Guthrie. Proprio a Woody Guthrie, in contemporanea a questo A More Perfect Union, in occasione del centenario, Pete Seeger ha dedicato un doppio CD Pete Remembers Woody e per non farsi mancare nulla, a luglio, in quel di New York al Bryant Park, è apparso a firmare copie della sua autobiografia, arzillo come non mai e ha partecipato, naturalmente al movimento Occupy Wall Street http://www.youtube.com/watch?v=1y2SIIeqy34 .

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Il suo compagno di avventura in questo album è Lorre Wyatt, un folksinger molto più giovane di Seeger (bella forza direte voi!), ma che ha avuto notevoli problemi di salute a metà degli anni ’90 e ci ha messo quasi una quindicina di anni a riprendersi completamente dal “colpo”. Quindi “una bella accoppiata”, ma a dispetto delle premesse il disco è molto piacevole, tra favola, parabola e impegno politico, con una particolare attenzione per i più piccoli, che sia nelle tradizione musicale di Guthrie che di Seeger hanno sempre avuto una parte di rilievo nel repertorio affrontato, sia come fruitori che come piccoli canterini. Naturalmente ci sono degli “amici” anche più adulti in questo CD, a partire dal primo brano God’s Counting On me…God’s Counting On You, che dopo il primo verso cantato da Seeger e da un coro di bambini, vede la presenza di Bruce Springsteen http://www.youtube.com/watch?v=t1AuE-LoRe4 che si alterna con Lorre Wyatt e Seeger nel cantato del brano http://www.youtube.com/watch?v=GmoHJyUaVIQ  e non è la solita partecipazione “invisibile”, dove per sentire la voce dell’ospite devi indossare le cuffie e cercare di percepire la presenza dell’ospite nascosto in armonie vocali indecifrabili, invece in questo caso Bruce canta chiaramente più o meno metà della canzone (non saranno le Seeger Sessions, ma si lascia sentire), scritta a proposito del disastro ambientale nel Golfo del Messico del 2010, un tipico brano del repertorio di Seeger http://www.youtube.com/watch?v=cvnsB_kVNYI .

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Il folksinger si accompagna con l’immancabile banjo e la voce è quella che è, diciamo vissuta, nel folk-blues Old Apples, dopo il primo verso lascia spazio a Wyatt che ha ancora una bella voce a dispetto dei problemi fisici e si fa aiutare dal bel baritono di Jeff Haynes, mentre una bella slide lavora di fino nel tessuto sonoro delle retrovie. Ottima Keep The Flame Alive, con l’alternanza tra le voci di Wyatt e Seeger, mentre Memories Out of Mud, un duetto tra Wyatt e Dar Williams, accompagnati da un tappeto di percussioni ha un sapore quasi etnico, fino alla citazione del clarinetto del tema di When The Saints Go Marching In. Nella lunga title-track A More Perfect Union, un brano fatto e finito, con basso, batteria e sax ad aggiungersi alla parca strumentazione acustica abituale, e la partecipazione di Tom  Morello alla chitarra e voce,  gli arrangiamenti sono quasi sofisticati, nella loro semplicità.

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The Old Man Revisited scandita dal banjo di Seeger vede l’alternarsi delle voci di Dar Williams, di nuovo, Steve Earle e Lorre Wyatt, con quell’andatura della filastrocca folk che ha sempre caratterizzato il miglior folk, anche didattico. These days in Zimbabwe solo percussioni e la voce di Wyatt è un po’ una “palla”, mentre in Somebody’s Else’s Eye si apprezza anche lo scorrere del tempo nella fragilità della voce di Seeger che non demorde, accompagnato dal violino in sottofondo di Sara Milonovich. Strange Lullabye, come da titolo, è una fragilissima ninna-nanna accapella per bimbi di tutte l’età. Somos El Barco/We Are The Boat è la canzone più famosa di Lorre Wyatt che è stata incisa in passato da Peter, Paul & Mary, Holly Near e dallo stesso Seeger, qui viene ripresa in una versione corale con la bellissima voce di Emmylou Harris a fare da guida http://www.youtube.com/watch?v=r1rKxRXkukU . Gli ospiti finiscono qui, ma non le canzoni, ci sono favolette simpatiche e didattiche, su gatti e cani parlanti, come Howling For Our Supper, ballate struggenti come Fields Of harmony e una A Toast of The Times ancora combattiva nonostante il tempo che passa. Un disco onesto e (quasi) bello per un signore di 93 anni, che non ha ancora deciso di appendere il banjo al chiodo. Una leggenda del folk e molti amici per una piacevole oretta senza tempo, Forever Young, come ha cantato nel tributo a Dylan http://www.youtube.com/watch?v=Ezyd40kJFq0 !

Bruno Conti

Reload And Replay: Una Serenata A New Yok City…Across The River – Carolyne Mas Tour Italiano

Ripubblico questo Post in considerazione del tour italiano di Carolyne Mas, partito ieri da Napoli, domani sera, 11 gennaio, a Milano, allo Spazio Teatro 89, Via F.lli Zoia 89 (è la zona dietro San Siro) e poi molte altre date in giro per l’Italia, queste:

9 – NAPOLI – Archivio storico
10 – ROMA – N`Importe Quoi
11 – MILANO – Spazio Teatro 89 12 euro ingresso
12 – CLAVESANA (CN) – private event
13 – VARESE – Twiggy
16 – CASALGRANDE (RE) – Barricada Cafè
(“Storytellers Night”, con Graziano Romani
e Daniele Tenca) ingresso gratuito
17 – PIOVE DI SACCO (Padova) – Music Ale
18 – ZOAGLI (GE) – Il Banco
19 – TREZZO (MI) – Amigdala Theatre
20 – CANTU` (CO) – Allunaetrentacinquecirca

Come dimostra il disco qui sotto recensito è ancora una grande cantante, non mancate!

Bruno Conti
carolyne mas across the river

Carolyne Mas – Across The River – Route 61 Music 2013

Torna sulla scena (dopo sette anni da Brand New World) Carolyne Mas, una delle voci più autorevoli della musica d’autore statunitense. Piccola premessa a tutti i “naviganti”: tra la fine dei ’70 e i primi anni ’80, quando nelle orecchie e nel cuore di moltissimi appassionati di rock, imperversavano i vari Springsteen, Mellencamp, Tom Petty, Willie Nile, un piccolo ma meritato spazio se l’era conquistato una giovane ed irrequieta ragazza del New Jersey, con il rock’n’roll nel sangue ed una voce tagliente che trasmetteva sensazioni elettrizzanti. Narra la leggenda che la giovane e brava Carolyne sia stata scoperta sul palco  di un locale del Greenwich Village (per la precisione il Cornelia Street Cafè) alternandosi ad altri esordienti cantautori come Steve Forbert, Jack Hardy, David Massengill, Rod MacDonald (tutte “personcine” che in seguito hanno sviluppato una buona carriera). Messa sotto contratto discografico dalla Mercury, esordisce con due splendidi album, l’omonimo Carolyne Mas (79) e Hold On (80) e un promo live, il “mitico” Mas Hysteria (81) che vendette ben 250.000 copie (la ristampa è stata puntualmente recensita da Bruno sul Blog  http://discoclub.myblog.it/2011/10/06/new-york-my-father-s-place-30-anni-fa-1-carolyne-mas-more-ma/), testimonianza di tante infuocate performances. Poi improvvisamente la luce si spense, dopo un interlocutorio terzo album di studio Modern Dreams (81) e dopo una lunga pausa artistica, si crea il sodalizio con la SPV di Hannover, che porta la Mas a ritrovare  una buona vena compositiva, che si certifica con Action Pact (89), il doppio Live (92), Reason Street (93) e l’immancabile antologia che chiude la prima vita musicale di Carolyne Beyond Mercury (03), mentre la seconda (a causa di vari problemi personali), riprende con il citato Brand New World (05) e questo nuovo lavoro Across The River, che nasce e vive  principalmente per merito del produttore Ermanno Labianca, titolare della migliore etichetta italiana indipendente (Route 61 Music) http://www.youtube.com/watch?v=1xlDTOfJ8Ug

Il disco è stato registrato in Italia (Roma), e si avvale dell’apporto di validi musicisti italiani, ovvero Andrea Lupi al basso, Lucrezia De Seta alla batteria, Gianfranco Mauto piano e tastiere, Marco Valerio al cello, Piergiorgio PJ Faraglia alle chitarre elettriche, Luciano Gargiulo all’hammond, Joe Stomp ai cori, e come ospite Daniele Tenca con la sua Working Class Band  in un brano.

Mas

Apre il disco l’inedito Dizzy From the I-IV-V, con la sola voce della Mas protagonista, a cui fa seguito lo swing notturno di That Swing Thing, che ci introduce poi as una nuova sontuosa versione del classico Sittin’ in the Dark  http://www.youtube.com/watch?v=wvDYD8jVTZ8, rifatto con un arrangiamento quasi “jazz”. Una fisarmonica accompagna Under The Boardwalk, brano famosissimo portato al successo dai Drifters (ma ripreso,tra gli altri, dagli Stones, Rickie Lee Jones, Mellencamp), mentre la seguente cover di Across The River di Willie Nile, pianoforte, voce e un violino sul finale, è la cosa più commovente sentita quest’anno (da sola vale il costo del CD). La seconda parte del disco (come nei vecchi vinili) inizia con un’altra ballata, In a box, di grande intensità, mente in So Hard To Be True entrano in scena Daniele Tenca e la sua band per dare al brano una calda atmosfera blues. Arriva il momento di un omaggio al suo vecchio amico Steve Forbert, con una bella versione di Witch Blues, per poi avvicinarsi al finale con Mexican Love Song , una toccante canzone d’amore (scritta da Carolyne ai tempi del Greenwich Village (81), e una New York City Serenade di Bruce Springsteen (che ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo dalla Mas qualche anno fa, in un locale vicino a Pavia) di una bellezza disarmante, dieci minuti di accordi ininterrotti di pianoforte, una personalissima versione, che è una vera dichiarazione d’amore alla sua città http://www.youtube.com/watch?v=J27HkRb4Lj4

In questo Across The River Carolyne Mas canta benissimo (quasi meglio che da giovane), in quanto riesce a coniugare sfumature blues e jazz, ma sempre con il rock nell’anima, confermandomi che le tante difficoltà incontrate, in carriera e nella vita, l’abbiano resa più forte, sempre pronta a rimettersi in gioco. Per quanto mi riguarda una grande conferma, un grande disco (che farà sicuramente parte della mia “playlist” di fine anno).

Tino Montanari

Una Piacevole (Ri)Scoperta. Mike Ryan – Night Comes Falling

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Mike Ryan – Night Comes Falling – Smith Music 2012

La settimana scorsa, cercando altro nel disordine dei miei CD (sono più di 10.000 purtroppo, o per fortuna), mi ritrovo tra le mani l’esordio di tale Mike Ryan Six Feet Over del lontano ’98, e incuriosito lo metto nel lettore, e il positivo ascolto mi porta a consultare i siti internet per ulteriori informazioni. La breve ricerca certifica che il “nostro” nel periodo seguente ha prodotto pochino (la sua discografia è  sempre stata piuttosto scarna), in quanto ha pubblicato solamente due EP The First One e Just Takes Time del 2010, prima di questo Night Comes Falling. Ryan arriva da Minneapolis e oltre a cantare, suona la chitarra elettrica ed acustica, mentre i suoi “partner” sono Rodney Pyeatt alle chitarre, Jeremy Bryant alla batteria, Stephen Cargill al basso, Clark Erickson al piano, Roger Ray alla pedal-steel, e il bravo Jeremy Watkins al violino, per un “sound” sullo stile di Mellencamp, con un orecchio verso la musica delle radici e l’altro nei confronti del rock stradaiolo.

Undici canzoni, quaranta minuti di musica: inizio potente con The Cold One, figlia del Boss e di John il “coguaro”, 57 Songs andamento classico e tempo incalzante. Dance With an Angel è una ballatona elettrica cantata con passione, mentre con Baby Blue Jeans si viaggia dalle parti del country blues. Si prosegue con Should I dalla melodia gradevole, dal suono sempre elettrico ma non duro, mentre un inizio di violino introduce Prettiest Girl at The Dance, un brano che lascia fluire la pedal steel, con una ritmica sempre presente. Con My Heartbreak si ritorna alla ballata di sapore roots, una composizione, acustica nella parte iniziale, che poi si apre con una melodia di ampio respiro, seguita da una Little Too Long dal ritmo funky. Holding On ha un intro vocale pieno di nostalgia, poi il brano si distende e lascia spazio agli strumenti, e Mike ci regala una di quelle ballate spesse e profonde, che solo un musicista vero è in grado di scrivere, mentre Night Comes Falling sembra uscita dai primi dischi dei Dire Straits, con le chitarre in spolvero per un suono cristallino. Chiude Only All the Time, canzone nostalgica, che parla di una storia d’amore finita male, una di quelle ballate d’altri tempi, con il violino di Watkins ad accompagnare il sofferto canto di Ryan.

Dischi come questo escono sempre più raramente, e Mike Ryan è un “rocker” degno successore, oltre che dei sopra citati maestri (Springsteen e Mellencamp), di gente come Steve Earle, Jack Ingram, Todd Snider e personcine meno famose che seguivo ai tempi, come Martin Zellar , Jason Reed e Joe D’Urso. Se amate il genere date un ascolto al buon Ryan, forse avrete solo il rimpianto di non averlo scoperto prima.

Tino Montanari

Un Ritorno Alle Sue Radici. Mary Cutrufello – Fireflies Till They’re Gone

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Mary Cutrufello – Fireflies Till They’re Gone – Self Produced 2012

L’occasione per ritornare a parlare di Mary Cutrufello viene data da un concerto a cui ho assistito recentemente in un meritevole locale di Pavia (Bar Trapani). Mary, una sorta di Armatrading roots, è nata nel 1970 a Fairfield (Connecticut), in seguito ha conseguito un diploma a Yale, prima di essere convertita dai dischi di Dwight Yoakam al country. Emigrata ad Austin, dove subisce l’influenza di Dale Watson, la “signorina” forma il gruppodegli Havoline Supremes e si invaghisce di honky tonk e alternative country, maturando però uno stile chitarristico duro, muscoloso e bluesato e cantato con voce mascolina, un po’ alla Melissa Etheridge degli esordi.

Una sua canzone, Tonight I Know, viene inclusa nella compilation Austin Country Nights e attira l’attenzione della crema musicale di Austin, e le ottime apparizioni dal vivo muovono l’interesse di diverse case discografiche, la spunta la Mercury che nel ’96 pubblica Who To Love, album ancora piuttosto acerbo ma che mette in evidenza la grinta e la bravura chitarristica dell’artista. Il seguente When The Night Is Through (‘98), amplifica le buone impressioni suscitate dall’esordio, poi segue nel 2001 Songs from the 6, e dopo un silenzio che poteva diventare permanente (a causa una grave affezione alle corde vocali), incide nel 2008 il suo capolavoro personale 35, un album autoprodotto caratterizzato da una voce roca, una chitarra scorticata da “blue collar” che attinge a piene mani da   Mellencamp, Seger e ovviamente dal Boss, primo amore musicale (con una bruciante Take Em ‘As They Come), con i migliori “turnisti” su piazza da Greg Leisz a Kenny Aronoff , Cody Braun dei Reckless Kelly, e Rami Jaffee dei Wallflowers.

Questo EP Fireflies Till They’re Gone venduto solamente ai concerti e sul sito, (disponibile per il download) fireflies.htm è stato registrato a Idaho, e Minneapolis, fra il Novembre 2011 e il Gennaio 2012 (prodotto dal batterista Greg Shutte), ed è una breve raccolta di canzoni country che riporta Mary alle sue radici.

Si parte con una My Wife’s the Only One Who Knows dall’incedere country e una pedal steel in evidenza. La seconda traccia It’s Not Supposed to Be That Way, viene ripescata dal repertorio di Willie Nelson, è una roadsong che parte acustica e poi si trasforma in una ballata “rollingstoniana” con tanto di piano, cantata con voce rauca e androgina. Eight Second Lives è malinconica e molto campagnola, mentre la seguente I Just Can’t Fall Out of Love with You sembra uscita da un disco di Waylon, molto western. Un violino accompagna On a Sunday in March, 55082 (il titolo si riferisce al codice di avviamento postale di Stillwater), ballata delicata con una melodia dolorosa. Chiude un piccolo ma grande disco Dreaming My Dreams, una canzone triste e penetrante uscita dalla penna di Allen Reynolds, giocata sul violoncello delle Jelloslave (Jacqueline e Michelle).

Mary Cutrufello avrà anche un cognome improponibile per una “rockstar” (e chissà, forse anche per questo la sua avventura non è mai decollata), ma è una chitarrista dal tocco felino e un’ottima cantante, e le sue canzoni esalano il sudore di chi è cresciuto a contatto col pubblico e la vita dura on the road, e per una che ha ripreso prima di tutto i fili della sua vita, merita grande attenzione.

Tino Montanari

*NDB I video scarseggiano, per cui mi sono arrangiato con quello che c’era! Lei è brava, qualcosa da acquistare in rete si trova, fateci un pensierino.