Doobie Brothers 1969-2019, Cinquanta Anni Di Rock Classico Americano. Parte Seconda

My beautiful picture

doobie brothers 1978

Seconda parte.

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Stampede – Warner Bros 1975 – ****

Un disco dove Baxter è ormai membro effettivo della band, ma tra gli ospiti appaiono nomi di spicco come Ry Cooder, Maria Muldaur, Bobbye Hall, Victor Feldman, e le due coriste Sherlie Matthews e Venetta Fields in una travolgente versione della hit Motown Take Me in Your Arms (Rock Me a Little While) scritta da Holland-Dozier-Holland per Kim Weston che, se mi passate il termine, viene “doobiezzata” da Tom Johnston, che la canta meravigliosamente e che include un assolo da urlo di Jeff Baxter. E come primo brano troviamo anche una rara collaborazione tra Johnston e Simmons nella splendida Sweet Maxine, un pezzo che rimanda al suono classico dei primi dischi della band con il valore aggiunto di Bill Payne al piano e di una sezione fiati non accreditata che aggiunge fascino all’insieme, mentre le chitarre all’unisono tornano a ruggire nel “potere del rock and roll”, come dice il testo.

Basterebbero questi due brani, ma ci sono anche Neal’s Fandango, dedicata al vecchio pard di Jack Kerouac Neal Cassady, una canzone che ricorda i Grateful Dead più gioiosi, con Baxter che se la batte alla steel con le chitarre impazzite di Johnston e Simmons, che musica ragazzi! Texas Lullaby è un country-rock alla Doobie Brothers, cioè splendido, Music Man galoppa come nella fuga precipitosa del titolo dell’album con le sue chitarre sfolgoranti e l’arrangiamento di fiati ed archi curato da Curtis Mayfield , e che dire della lunga e sofisticata I Cheat The Hangman che parte come una outtake di qualche brano di Crosby o dei Jefferson Starship di Grace Slick e Paul Kantner, con Maria Muldaur come voce femminile, un paio di trombe, archi, synth “umani” e un crescendo ispirato dalla Notte Sul Monte Calvo nel finale travolgente. E Ry Cooder ci regala un lavoro al bottleneck magistrale in Rainy Day Crossroad Blues. Il resto del disco non è da meno, uno dei loro migliori, ma ora che succede? Arrivano

Gli Anni Di Michael McDonald 1975-1982

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Takin’ It To The Streets – Warner Bros 1976 – ***1/2

Invitato su suggerimento di Jeff “Skunk” Baxter, che aveva lavorato con lui negli Steely Dan, Michael McDonald dalla sera alla mattina, dopo un periodo di prova, diventa il nuovo cantante e autore principale della band, che però per me diventa un altro gruppo; rispettabile, con degli ottimi dischi, con il vocione baritonale del nostro in primo piano e uno stile che parafrasando il rockin’ country potremmo definire rockin’ soul. Il pubblico sembra gradire: Wheels Of Fortune, cantata in duetto da Simmons e Johnson è nel solito stile della band, magari più funky (rock), con  Richie Hayward dei Little Feat alla batteria, ma la title track è un’altra storia, non brutta, diversa, molto funky-soul diciamo, con i Memphis Horns ed i loro sax in evidenza, 8th Avenue Shuffle cantata in falsetto da Simmons, sembra quasi un pezzo di blue eyed soul alla Boz Scaggs, Losin’ End è una delle ballatone di McDonald, Rio conferma la svolta danzereccia di Simmons, It Keeps You Runnin’ è l’altra hit di McDonald, con Johnston che contribuisce al tutto con la discreta, ma tipicamente rock, Turn It Loose.

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Livin’ On The Fault Line – Warner Bros 1977 – ***

Tom Johnston a questo punto sparisce, ma sul finire del 1976 la Warner pubblica un Best Of The Doobies che nel corso degli anni finirà per vendere 10 milioni di copie, mentre il disco del 1977 non è un gran successo, infatti nessun brano entra nella top 40, benché il disco contenga il duetto You Belong To Me cantato con Carly Simon, anche se la versione di successo sarà quella reincisa da sola nel 1978 https://www.youtube.com/watch?v=ukkRG-flg20 .

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Minute By Minute – Warner Bros 1978 – ***1/2

A furia di insistere arriva alla fine il grande successo: Minute By Minute è il primo disco dei Doobie Brothers ad arrivare al primo posto delle classifiche americane, vendendo complessivamente oltre tre milioni di copie, ma a mio modesto parere più che un disco della band, al di là di 5 brani firmati da Simmons, comunque buoni, mi sembra più un disco solista di Michael McDonald accompagnato dai Doobie Brothers, tanto che dopo questo disco, pare a causa di dissapori proprio con McDonald, se ne andarono anche Baxter e il batterista originale John Hartman. Comunque per chi ama il genere, tra blue eyed soul , AOR di classe e pop raffinato, suonato e cantato benissimo, il disco si ascolta con piacere, anche se dei tre Dukes Of September, gli altri sono Fagen e Scaggs, McDonald è quello che amo di meno: in ogni caso What A Fool Believes e Minute By Minute, con Bill Payne al synth, e Dependin’ On You, cantata da Simmons, con il supporto di Rosemary Butler e Nicolette Larson, sono fior di canzoni https://www.youtube.com/watch?v=aiJfwXOwvUw , mentre Steamer Lane Breakdown, è uno strumentale country-bluegrass strepitoso con Norton Buffalo, Herb Pedersen e Byron Berline in azione https://www.youtube.com/watch?v=_EbBsNp9tbI .

Anche Johnston fa una ultima apparizione nel brano più rock del disco, una ottima Don’t Stop To Watch The Wheels e niente male anche Sweet Feelin’ un altro duetto con la Larson.

Il meglio (e il peggio) del resto – 1979- anni 2000.

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Vediamo infine velocemente cosa succede dopo. Nel 1980 esce One Step Closer (**1/2), primo disco con John McFee alla chitarra e voce, ancora 3° posto e un milione di dischi venduti, però il brano firmato da McDonald con Paul Anka , Dedicate This Heart, non mi sembra molto rock e Real Love vira pericolosamente verso la disco lite. Nel 1982 Farewell Tour, doppio dal vivo pubblicato nel 1983, ancora una volta tutti insieme appassionatamente, anche Johnston che canta China Grove, Long Train Runnin’ e Slippery Saint Paul, un buon live anche se si poteva fare meglio, e poi in CD è uscito solo in Giappone. Dei vari LP dal vivo postumi forse meglio quello al Greek Theatre del 1982, uscito in CD nel 2011.

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Al solito anche i consigli per gli acquisti per chi fosse interessato riguardo a eventuali cofanetti: nel caso dei Doobie Brothers siamo messi piuttosto bene, perché la discografia della band californiana del periodo 1971-1983 è coperta da un box da 10 CD con tutti i dischi del periodo Warner, oppure da due cofanetti da 5 CD ciascuno con gli stessi album, tutti a prezzi decisamente bassi. E li vedete riportati qui sopra.

Mentre delle reunion in studio Cycles del 1989, il primo per la Capitol, con Johnston e Hartman di nuovo in formazione è un discreto disco (***), molto anni  ’90, Brotherhood del 1991 è decisamente peggio, sia a livello di critica che di vendite, per cui vengono cacciati dalla Capitol, genere: disco-rock?!? Tornano nel 2000 con Sibling Rivalry, un po’ meglio, qualche sprazzo di classe, ma giudizio critico sempre un bel “maah”? Nel 2010 per World Gone Crazy (***1/2) torna in cabina di regia il vecchio produttore Ted Templeman, Johnston, Simmons e McFee sono alla guida di una formazione a tre chitarre, un disco più che dignitoso e grintoso, l’ultimo con il batterista Michael Hossack che morirà per un cancro nel 2012, tra gli ospiti oltre all’immancabile e scatenato Bill Payne e a Norton Buffalo (appena scomparso nel 2009), ci sono anche Willie Nelson e Michael Mc Donald che duettano ciascuno in una canzone.

Nel 2014 una idea “geniale”, un intero disco Southbound (***1/2) dove i Doobie Brothers ripropongono in piacevoli versioni country, ma non solo, visto che il rock non manca, il meglio del loro repertorio in una serie di duetti con, tra gli altri, Zac Brown, Huey Lewis, Brad Paisley, Sara Evans, Toby Keith, Vince Gill. Il resto è storia recente: in questi giorni è uscito Live From The Beacon Theater, un eccellente triplo registrato nel 2018, 2 CD + DVD, di cui leggerete in altra parte del Blog, in cui la band ripropone per intero, ed in modo eccellente, Toulouse Street e The Captain And Me https://discoclub.myblog.it/2019/09/13/dopo-quasi-50-anni-ancora-insieme-per-un-concerto-esplosivo-doobie-brothers-live-from-the-beacon-theatre/ .

Anche per questa volta direi che è tutto.

Bruno Conti

Un Doveroso Omaggio Ad Un Protagonista Del West Coast Sound. Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg

a tribute to dan fogelberg

Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg – BMG Rights Management

Il 16 dicembre (ieri) è caduto il decimo anniversario dalla prematura morte di Dan Fogelberg, autore di ottimi dischi negli anni settanta e ottanta in uno stile riconducibile al country rock molto in auge in quel periodo grazie a protagonisti di assoluto valore come gli Eagles, Jackson Browne, Crosby, Stills & Nash, James Taylor, Poco e Doobie Brothers, solo per citare alcuni dei nomi più noti. Daniel era originario di una piccola cittadina dell’Illinois, Peonia. Dopo aver militato in alcuni gruppi locali, decise di esibirsi in proprio ed ebbe la fortuna di essere notato da Irving Azoff, colui che sarebbe diventato manager di grandi stelle del rock, tra cui i già citati Eagles. Azoff gli fece ottenere il primo contratto discografico e lo presentò all’esperto bassista e produttore Norbert Putnam che divenne suo amico e fidato collaboratore per il decennio che seguì, dal bel disco d’esordio Home Free, del 1972, fino al capolavoro del 1981, il doppio The Innocent Age (disco strepitoso dove erano presenti Joni Mitchell, Glenn Frey, Brecker Brothers, Richie Furay. Emmylou Harris, Don Henley, Chris Hillman e moltissimi altri grandi musicisti).

Per tutta la sua carriera Fogelberg, oltre a mettersi in luce come valido compositore di ballate spezza cuori e di brani rock dalla tipica impronta della West Coast, esibì notevoli doti di arrangiatore e strumentista suonando ogni tipo di chitarra o tastiera, sempre coadiuvato da session men di primissimo ordine. Pubblicò anche due interessanti album in coppia con il flautista Tim Weisberg, prova tangibile di una passione mai sopita per il jazz e per gli arrangiamenti orchestrali, e un vero gioiello in stile bluegrass, High Country Snows del 1985, realizzato con una band di superstars della musica country tradizionale. Negli anni novanta Dan diminuì progressivamente le sue produzioni e l’ultimo lavoro con materiale inedito rimane Full Circle, del 2003 (senza contare Love In Time uscito postumo nel 2009). Dopo le sua scomparsa nel 2007, Jean Fogelberg, terza delle sue mogli, si è presa l’impegno di onorarne la memoria con un album tributo che coinvolgesse musicisti di grande fama, da vecchi amici e collaboratori del marito a stelle emergenti dell’ultima generazione che riconoscessero Fogelberg come fonte d’ispirazione.

Ad aiutarla, i fidati Putnam e Azoff, oltre al noto produttore Chuck Morris. Dopo sette anni e sette mesi passati a reclutare gli artisti e a trovare il tempo utile per farli incidere, ecco finalmente il risultato di tanta passione, un album piacevolissimo in cui la media delle performances si mantiene elevata e la bellezza originaria delle composizioni di Dan Fogelberg rimane intatta. Ad aprire le danze ci pensa l’icona del country nashvilliano Garth Brooks (supportato ai cori da Trisha Yearwood). La sua versione di Phoenix è fresca e potente con quel bel gioco di chitarre che caratterizzava anche la versione originale. Oibò! Che ci fa la regina della disco music in un contesto di questo genere? Frenate la vostra diffidenza, la scelta di Donna Summer (deceduta nel 2012, aveva registrato il pezzo due anni prima) per interpretare Nether Lands si rivela azzeccatissima.

Ascoltate come si dispiega la sua bella e stentorea voce sull’imponente arrangiamento orchestrale che riproduce fedelmente quello d’origine, e non potrete che applaudire. Michael Mc Donald annerisce con il suo vocione Better Change, sottolineandone il ritornello con un robusto coro gospel. La classe non è acqua, ma onestamente preferivo l’arrangiamento del suo autore. Vince Gill (a proposito, che ne dite del suo recente ingresso negli Eagles insieme al figlio di Glenn Frey?) duetta co nla moglie Amy Grant per uno degli hit di maggior successo di Fogelberg, la delicata Longer, qui impreziosita da un bell’assolo di tromba di Chris Botti. I Train (quelli di Hey Soul Sister) danno prova di coraggio dando ritmo ad una delle canzoni più lente e struggenti che Dan abbia mai composto, mantenendo la citazione finale di Auld Lang Syne suonata con il sax. A me non dispiace, ma siete liberi di pensarla diversamente.

Dobie Gray, protagonista negli anni settanta e ottanta tra country, soul e R&B (sua la mitica Drift Away), prima di arrendersi al cancro nel 2011 fece in tempo a registrare l’intensa  Don’t Lose Heart, uno dei pochi inediti presenti nella quadrupla antologia Portrait, del 1997. Versione di gran classe, che fa il pari con quella di Old Tennessee, eseguita da Danny Henson e Tom Kelly, in arte Fool’s Gold,  che accompagnarono Dan Fogelberg per il tour di Souvenirs nel 1974 ed incisero a loro nome un paio di buoni album nel ’76 e ’77. Casey James è un giovane cantautore e chitarrista texano di grandi prospettive come dimostrano i suoi tre dischi e questa incendiaria versione di As The Raven Flies. Casey ci dà dentro di brutto con la sua sei corde, dando nuova linfa ad un pezzo già trascinante. Randy Owen è meglio conosciuto come voce solista degli ultra noti Alabama. La sua scelta è perfetta perchè la magnifica country ballad Sutter’s Mill gli calza a pennello, melodia in crescendo e perfette armonie vocali nel refrain. Da qui in poi il tributo si assesta su livelli altissimi. Run For The Roses  è un’altra masterpiece song di Fogelberg e qui per riproporla al meglio troviamo altri due nomi eccellenti della country music, Richie Furay e la Nitty Gritty Dirt Band.

Boz Scaggs,  vecchia gloria del rock americano, interpreta con la sua calda ed intensa voce la malinconica Hard To Say, dotandola di un’atmosfera più blusey, con un pregevole assolo centrale di chitarra. Joe Walsh fu il produttore dell’ottimo e già citato Souvenirs, ovvio quindi che abbia scelto di riproporrre, insieme agli altri componenti degli Eagles, la canzone che apriva quell’album, Part Of The Plan. Bella versione, che mantiene la freschezza melodica dell’originale. Da quella che apre a quella che chiude lo stesso disco, manco a farlo apposta: There’s A Place In The World For A Gambler è, a mio modesto avviso uno dei vertici compositivi di Dan, una specie di inno che, non a caso, lui poneva in chiusura dei suoi concerti facendone cantare il ritornello al pubblico con un effetto da pelle d’oca (risentitela sul live Greetings From The West, ne vale la pena!). Il grande Jimmy Buffett la rivisita con tutta la maestria e la sensibilità di cui è capace, ricreando quel finale da brividi con gli strumenti e le voci che si rincorrono.

Il gran finale è riservato alla canzone in assoluto più nota e celebrata di Dan Fogelberg, quella Leader Of The Band che egli dedicò al padre, insegnante di musica e direttore della banda cittadina di Peonia. Zac Brown ne dà una versione scarna e toccante, registrata dal vivo, solo chitarra acustica e voci. Applausi…e da lassù padre e figlio riuniti sicuramente sorridono.

Marco Frosi

Un “Eroe” Musicale Delle Due Coste? Michael McDonald – Wide Open

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Michael McDonald – Wide Open – BMG

Michael McDonald, da St. Louis, Missouri, è stato per certi versi, come Garibaldi fu “l’eroe dei due mondi”, una sorta di “eroe” musicale delle Due Coste, prima, ad inizio carriera, su quella orientale, come membro aggiunto degli Steely Dan, poi della West Coast, quando nel 1976 entrò nei Doobie Brothers come sostituto di Tom Johnson. In entrambe le band il suo stile si ispirava comunque alla soul music, se vogliamo il cosiddetto “blue eyed soul”, più raffinato e composito quello della band di Donald Fagen, più vicino al pop e al soft-rock nel gruppo californiano. Se devo essere sincero io ho sempre amato molto di più i Doobies quando facevano del sano rock misto a country e blues, quelli del primo periodo, ma anche nella fase a guida McDonald hanno regalato dei buoni album, più sofisticati e commerciali, ma con il baritono vellutato di Michael in grande spolvero. Poi il nostro ha intrapreso un carriera che attraverso undici album solisti (di cui due natalizi) ci porta ai giorni nostri. Non una produzione sterminata, ma Michael McDonald è anche stato l’uomo delle collaborazioni, e proprio in un paio di ensemble collettivi, come la New York Rock And Soul Revue (sempre con Fagen), e poi nei Dukes Of September, dove si aggiungeva anche Boz Scaggs, ha forse dato il meglio di sé http://discoclub.myblog.it/2014/03/26/band-tutte-le-stagioni-the-dukes-of-september-donald-fagen-michael-mcdonald-boz-scaggs-live-at-lincoln-center/ .

L’ultimo album, Wide Open, arriva dopo una pausa di nove anni dal precedente Soul Speak, e come i due che lo precedevano erano dischi di cover usciti per la rinnovata Motown, questo nuovo CD è il primo da vent’anni a questa parte a contenere materiale originale: nel disco, co-prodotto con Shannon Forrest, suonano uno stuolo di musicisti di pregio, tra cui spiccano Michael Landau, poi, li cito a caso, Larry Goldings, Willie Weeks, Steve Porcaro, Tom Scott, Michael Leonhart (storico collaboratore sempre di Fagen) che ha curato gli arrangiamenti dei fiati, insieme a Mark Douthit e, per non farsi mancare nulla, tra gli ospiti appaiono Robben Ford, Warren Haynes, Brandford Marsalis e Marcus Miller. Il disco, elaborato nel corso di vari anni, è buono, non possiamo negarlo, ma dovete forse, per apprezzarlo, essere estimatori dello stile comunque levigato e a tratti turgido del nostro, che ha sempre il suo classico vocione, scrive brani piacevoli, e se siete estimatori del blue-eyed soul lo apprezzerete sicuramente, ma anche gli ascoltatori “neutrali” troveranno motivi per godere della classe e dell’eleganza raffinata della musica contenuta in questo Wide Open. Dall’apertura classico groove tra le due coste di Hail Mary, che fonde il sound di Steely Dan e Doobie Brothers, con un suono vellutato come la musica del suo autore, tra voci femminili di supporto (la moglie Amy Holland), fiati, chitarre e tastiere accarezzate per ottenere quella versione bianca della soul music che McDonald ha sempre prediletto, e in questo disco ripropone con più vigore e rinnovata fiducia nei suoi mezzi, ottimo l’assolo di sax, di Mark Douthit, in un lungo brano che sfiora i sette minuti, mentre addirittura la successiva Just Strong Enough avvicina gli otto, per  una sorta di blues ballad con fiati e archi, sulla falsariga di certe cose di BB King, e che vede Warren Haynes e Robert Ford duettare brillantemente alle soliste in un pezzo molto cool, dove tutta la band lavora di fino.

L’album comunque contiene canzoni che superano regolarmente i cinque minuti (solo una è sotto questo minutaggio) e quindi i musicisti sono liberi di suonare al meglio delle loro possibilità: i due pezzi iniziali sono i migliori, ma anche la mossa Blessing In Disguise è eccellente, con un sound che richiama addirittura (con il dovuto rispetto) gli Steely Dan di Aja, funky-jazz soul music con Branford Marsalis al sax nel ruolo che fu di Wayne Shorter, notevole anche Shannon Forrest alla batteria, quasi un novello Steve Gadd. Find It In Your Heart si basa un sinuoso wah-wah a guidare le danze, mentre Marcus Miller pompa sul basso e l’assolo di sax è di Tom Scott è la classica ciliegina sulla torta; Half Truth, con lo stesso Michael McDonald all’armonica, è un avvolgente pezzo rock di grande impatto, con Ain’t No Good che ricade in certo easy listening che ogni tanto si insinua nei brani del nostro amico, e pure Honest Emotion, nonostante gli inserti acustici, fa sì che entrambe le canzoni siano meno valide, come pure Dark Side che però ha una bella melodia e qualche vago tocco alla Bacharach, grazie a fiati e archi. Anche If You Wanted To Hurt Me non mi piace molto, troppo simile al McDonald più leggerino del passato, meglio Beautiful Child dove si riprende il gusto per gli arrangiamenti complessi e raffinati al servizio della pop song, elementi che sono da sempre nel menu del buon Michael. Too Short ha sonorità Caraibiche e world miste all’errebì classico, quasi alla Paul Simon, con la conclusiva Free A Man, molto incalzante e ben suonata, che vira di nuovo verso una sorta di jazz-rock alla Steely Dan, grazie ad un liquido piano elettrico, al sax, ancora Scott e alla chitarra di Landau. Come per tutto il disco d’altronde, non parliamo di un capolavoro, ma di un album solido e molto piacevole, oltre che, come detto, assai raffinato.

Bruno Conti

A Proposito Di Belle Voci! Jo Harman – People We Become

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Jo Harman  – People We Become – Totale Creative Feed

Ogni tanto dal Regno Unito sbuca qualche nuova voce femminile interessante, con un repertorio musicale che può essere interessante per i nostri lettori: penso a Joss Stone, potenzialmente una delle migliori voci rock & soul moderne, ma che spesso paga le scelte non felici di produttori e compagni di viaggio, che quest’anno compie 30 anni e dovrà scegliere cosa vuole fare da grande http://discoclub.myblog.it/2012/07/23/ma-che-voce-ha-il-ritorno-di-joss-stone-the-soul-sessions-vo/ , ma anche la bravissima Rumer, in possesso di una voce deliziosa, dal phrasing perfetto e con uno smisurato amore (ricambiato) per Burt Bacharach, che a chi scrive piace moltissimo http://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , tra i nomi del passato forse si potrebbe paragonare, anche se non vocalmente, a Dusty Springfield. In mezzo a questi nomi ora arriva Jo Harman, giovane cantautrice del Southwest britannico, nata a Luton e cresciuta nel Devon, poi trasferitasi a Londra per dedicarsi alla musica. Nella sua musica si trova una passione per i classici della canzone inglese, Beatles, Cat Stevens, Moody Blues, oltre alla grande soul music americana, nella persona di Aretha Franklin (passione in comune con Rumer), nomi e musiche carpiti dalla discoteca dei genitori e poi usati nei primi passi nel mondo musicale.

Di lei si parla molto bene in questi giorni per l’uscita del presente People We Become, ma in passato ha già pubblicato un album autoprodotto nel 2013, e due dischi dal vivo, tra cui un Live At The Royal Albert Hall, pubblicato dalla BBC. Inserita nel filone soul e blues (dove ha ricevuto vari premi di categoria) mi sembra che Jo Harman si possa inserire a grandi linee  in quel ramo, dove fioriscono anche voci come Beth Hart, Dana Fuchs o Colleen Rennison dei No Sinner, oltre a cantautrici, più, come le potremmo definire, “confessionali”, quelle che si ispirano a Joni Mitchell o Laura Nyro, per volare alti, o, soprattutto Carly Simon, quella del primo periodo, con cui mi pare condividere il timbro vocale. Ovviamente i nomi citati sono semplici suggestioni, anche personali, che servono comunque ad inquadrare il personaggio: questo nuovo album è stato registrato in quel di Nashville, mi verrebbe da dire a cavallo tra la Music City più commerciale e il lato più rootsy e ricercato dell’altro lato di Nashville, Il produttore scelto per l’avventura americana è Fred Mollin, un canadese trapiantato nel Tennessee,  uno che ha lavorato con Jimmy Webb, Kris Kristofferson (il di recente ristampato Austin Sessions), ma anche in moltissime colonne sonore per la Disney: e anche i musicisti utilizzati, grandi professionisti, da Greg Morrow alla batteria, Tom Bukovac alla chitarra e il bravissimo tastierista Gordon Mote, hanno lavorato, da professionisti, con Blake Shelton, Faith Hill, Amy Grant e simili, ma pure con Bob Seger e i Doobie Brothers.

Scusate questo voler esser fin troppo didascalici, ma questo dualismo nel disco, a tratti, si sente: ci sono molti brani dove si percepisce a fondo il talento di questa giovane cantante e alcuni dove è coperto da esigenze di mercato; e così si alternano brani come l’iniziale No One Left To Blame, un brano rock tirato, con chitarre, tastiere e sezione ritmica in evidenza, che sembrano essere in competizione con la voce della Harman, e non sempre, anche se l’ugola è potente, vince lei, ma pur risentendo del suono fin troppo pompato,  la classe si percepisce e non siamo lontani dagli episodi più duri di Beth Hart o dei No Sinner. Ma poi quando si passa a una canzone come Silhouettes Of You veniamo proiettati in un sound molto seventies, alla Carly Simon, con piano ed una bella slide in evidenza, oltre alla voce calda e matura di Jo. Molto bella anche la lunga, oltre i sette minuti, Lend Me Your Love, una ballata che parte solo voce e piano, e poi si sviluppa in un notevole crescendo, con l’organo, le chitarre e il resto degli altri strumenti, fiati compresi. che entrano man mano, qualcuno ha riscontrato addirittura delle similitudini in fase di costruzione sonora con i Pink Floyd, il tutto cantato con grande autorità.

Eccellente anche Unchanged and Alone, partenza acustica per un’altra splendida ballata dal crescendo irresistibile, mentre The Reformation introduce elementi blues e rock, più duri e tirati, che evidenziano la voce grintosa. Changing Of The Guard, sempre con una bella slide, è più leggera e godibile, sempre vicina alla Carly Simon citata, con Person Of Interest, intima e raccolta, che esplora il sound più acustico che veniva utilizzato nel primo album, per poi esplodere nel riff di When We Were Young https://www.youtube.com/watch?v=LyWw7ixwKjs , che sembra un pezzo dei Doobie Brothers, e quando entra la voce di Michael McDonald alle armonie vocali ne hai la conferma, il singolo dell’album, che prosegue con The Final Page, altra traccia elettroacustica sulle ali di una malinconica lap steel, ancora con la bella voce di Jo Harman da gustare, e pazienza se nell’arrangiamento c’è qualche zucchero di troppo. Infine la conclusiva Lonely Like Me, altra ballata pianistica dai saliscendi sonori e con elementi gospel conferma il valore di questo nuovo talento prodotto dalla scena britannica.

Bruno Conti

Grande Attore, Ma Anche Musicista Coi Fiocchi ! Jeff Bridges & The Abiders – Live

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Jeff Bridges & The Abiders – Live – Mailboat Records

Mi viene da pensare che senza il film Crazy Heart, oggi il sottoscritto non avrebbe nel lettore questo live di Jeff Bridges & The Abiders. Jeff Bridges, noto attore americano ha sempre avuto una grande passione per la musica, e nel lontano 2000 aveva persino fatto un disco a suo nome Be Here Soon (sofisticate riletture di brani rock, country e soul, con l’aiuto di Michael McDonald e David Crosby), poi la colonna sonora di Crazy Heart lo ha definitivamente consacrato: nel film (che gli ha fruttato l’Oscar come miglior attore protagonista) Jeff canta molto bene canzoni come Hold On To You, Somebody Else, Fallin’ & Flyn’, I Don’t Know e Brand New Angel, e T-Bone Burnett (che musicalmente non è secondo a nessuno), ha capito le potenzialità di Bridges, gli ha trovato la band perfetta, poi insieme hanno trovato le canzoni, e il risultato è stato l’ottimo album omonimo Jeff Bridges (11). E siccome come dice un famoso detto “l’appetito vien mangiando”, arriva al mio ascolto anche questo Live (che non è proprio recentissimo, essendo uscito il 30 Settembre dello scorso anno), registrato durante un caldo concerto estivo al Red Rock Casino di Las Vegas, un totale di quattordici brani, in buona parte pescati dal disco d’esordio e dal film, più alcune cover scelte dal repertorio dei Byrds, Tom Waits, Townes Van Zandt, Creedence Clearwater Revival, e autori più recenti come Stephen Bruton e Greg Brown, CD pubblicato dalla Mailboat Records, l’etichetta di Jimmy Buffett.

Jeff Bridges & the Abiders Perform At The El Rey Theatre jeff-bridges-abiders

Jeff (capelli e barba bianca d’ordinanza) https://www.youtube.com/watch?v=_ct5tYkHrqY  voce, chitarra e tastiere, sale sul palco con i suoi Abiders che sono Chris Pelonis chitarra e tastiere, Bill Flores pedal steel e chitarra, Randy Tico al basso e Tom Lackner alla batteria e percussioni, iniziando con il blues incalzante di Blue Car (che arriva dalla penna di Greg Brown) cantato alla perfezione, seguito dalle atmosfere di frontiera di I Don’t Know, una ballata tra rock e country come What A Little Bit Of Love Can Do https://www.youtube.com/watch?v=oQ1lJFftyyo , la romantica Maybe I Missed The Point e la dolcissima serenata texana Exception To The Rule (del suo amico cantautore John Goodwin)  https://www.youtube.com/watch?v=nRt3Oh2fhlU , la lunga She Lay Her Whip Down con un bel lavoro della chitarra“slide”, andando a chiudere la prima parte omaggiando John Fogerty, con una pimpante e gioiosa Lookin’ Out My Back Door. Dopo una pausa e una bella bevuta di birra, si ritorna sul palco con Jeff che declama nuovamente una bellissima What A Little Bit Of Love Can Do, sorretta da batteria, pedal steel e un crescendo di chitarre, chitarre che “galoppano” anche nella successiva Van Gogh In Hollywood, per poi passare ad una delicata cover di Townes Van Zandt To Live Is To Fly (era in High, Low And In Beetwenhttps://www.youtube.com/watch?v=9J-yQuCbPjI , ad una campestre Fallin’ & Flyin’ recuperata dalla colonna sonora di Crazy Heart https://www.youtube.com/watch?v=TGJm72H31do , una inaspettata Never Let Go di Tom Waits (con Jeff al piano), per una ballata che profuma d’Irlanda (che è sempre nel mio cuore), rispolverando pure la famosissima So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds https://www.youtube.com/watch?v=3vT1ZsE7B6k  , chiudendo omaggiando un autore bravissimo ma poco conosciuto come il compianto Stephen Bruton (da sempre nel cuore di Jeff), con il ruspante blues di Somebody Else. Applausi!

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Dopo il grande successo di Crazy Heart e il disco in studio prodotto da T-Bone Burnett, l’attore-cantante Jeff Bridges fa il disco che ha sempre sognato, un Live ruspante dove interpreta con il supporto di bravi musicisti, una sontuosa “setlist” di ballate, country e rock songs, cantate con una bella voce pastosa, per un CD che non ha scalato le classifiche, ma che potrebbe fare centro nel cuore degli amanti della buona musica. Sentire per credere!

Tino Montanari

P.S. Temo che stasera non vincerà nuovamente l’Oscar per il fim Il Settimo Figlio (che per fortuna non è neppure candidato), ma neanche il recente progetto, ambient e parlato, Sleeping Tapes, entrerà negli annali della musica, al di là dei suoi meriti filantropici!

Una Band Per Tutte Le Stagioni! The Dukes Of September – Donald Fagen, Michael McDonald, Boz Scaggs Live At Lincoln Center

dukes of september dvd

The Dukes Of September Donald Fagen, Michael McDonald, Boz Scaggs – Live At Lincoln Center 429 Records/Universal DVD o Blu-ray

Forse qualcuno di voi (spero molti) ricorderà la New York Rock And Soul Revue, un ensemble di musicisti che ha operato nel periodo a cavallo tra il 1989 e il 1992, regalandoci un unico disco, il piacevolissimo Live At The Beacon, registrato al famoso teatro newyorkese nelle serate dell’1 e 2 marzo 1991 e pubblicato dalla Giant a fine ottobre dello stesso anno. Gli “istigatori” del progetto erano gli stessi che ora si presentano come The Dukes Of September (ma vanno bene per tutte le stagioni): ossia Donald Fagen (per tutti Mr. Steely Dan), Michael McDonald, il cantante della seconda fase dei Doobie Brothers e Boz Scaggs, nella Steve Miller Band delle origini e poi con una lunga carriera solista che ha toccato tutti i generi, dal blues degli inizi, al blue-eyed-soul e funky degli anni ’70 e poi la musica raffinata e cesellata che lo ha sempre caratterizzato fino all’ultimo, bellissimo, Memphis http://discoclub.myblog.it/2013/02/27/la-classe-non-e-acqua-boz-scaggs-memphis/. Ma nella formazione originale degli anni ’90 c’era anche uno dei maestri del blues e del R&B (e di Ray Charles, anche The Genius ne aveva uno, o più d’uno) come Charles Brown, oltre ad una delle voci più belle mai prodotte dalla musica americana (e tra le mie preferite in assoluto, come ben sa chi legge il Blog) come Phoebe Snow http://www.youtube.com/watch?v=JgBrmOZCyVg , e due terzi (i meno noti, comunque bravi) dei Rascals, Eddie & David Brigati, quelli di Groovin’, che infatti era presente nel CD.

new york rock and soul revue

Quindi il menu della Revue era ancora più ricco di voci e sapori, ma anche la versione “ristretta” della Band, quella attuale, che da qualche anno gira con il nome The Dukes Of September, per continuare a spargere il seme della buona musica (quella che piace a loro, soul, blues, errebì, funky, classici degli anni ’60 e della loro discografia) oltre che per divertire e divertirsi, è sempre un gruppo più che rispettabile, i tre leader hanno qualche annetto fa in più e ogni tanto la voce non arriva dove vorrebbe (con l’eccezione di Scaggs, sempre in forma vocale strepitosa), ma i musicisti che li accompagnano sono formidabili, a partire da Michael Leonhart, qui in versione di trombettista e leader della sezione fiati, completata da Walt Weiskopf e Jay Collins a sax e fiati, proseguendo con Jon Herington, chitarrista sopraffino, anche lui da tempo collaboratore di Donald Fagen sia nell’ultimo Sunken Condos (http://discoclub.myblog.it/2012/10/18/torna-il-cesellatore-donald-fagen-sunken-condos/) quanto nelle esibizioni Live con gli Steely Dan. Jim Beard, che si alterna e si integra alle tastiere con Fagen e McDonald, oltre ad avere una notevole discografia jazz e fusion e ad avere suonato nei dischi di Herington e Walter Becker, l’altro Steely Dan. Sezione ritmica lussuriosa con il bassista Freddie Washington, sempre del giro e Shannon Forrest, il batterista che oltre ad essere un turnista di lusso era nell’ultimo disco di Scaggs, Memphis. A completare il tutto le due vocalist di supporto, la moglie di Leonhart, Carolyn e Monet Owens. 

Poi, non avendo potuto assistere di persona (come penso tutti voi) al concerto tenutosi al Lincoln Center, nel 2012, a due passi da Manhattan o avere visto lo stesso alla PBS Television, basta inserire il dischetto nel lettore DVD e si inizia a godere. Sono 18 brani, all’incirca un’ora e mezza che traccia la storia della musica americana. Lo strumentale programmatico People Get Up And Drive Your Funky Soul presenta la band sul bellissimo palco del Lincoln Center, poi la chitarra di Herington si impossessa del celeberrimo riff di Who’s That Lady, uno dei pezzi più belli del periodo post-hendrixiano degli Isley Brothers, uno stupendo brano di, come definirlo, “soul spaziale”, con i tre protagonisti, prima Scaggs, poi Fagen e infine McDonald a dividersi le parti cantate e la band che inizia a macinare musica nella migliore tradizione delle grandi revue concertistiche. Sweet Soul Music, l’altrettanto celebre brano di Arthur Conley, che è un piccolo bigino di tutta la musica soul, con fiati e coriste che impazzano, vede Scaggs alla chitarra solista mentre i tre si dividono ancora democraticamente le strofe della canzone, deliziosa come sempre. Poi partono gli spazi solisti: Michael McDonald per primo,  con la sua melliflua e raffinata I Keep Forgettin’, che era su If That’s What It Takes, il primo disco del 1982, la voce ogni tanto “sforza” ma è sempre un bel sentire, Kid Charlemagne è uno dei brani migliori degli Steely Dan,dal groove inconfondibile, immancabile nei concerti e qui Fagen si trova decisamente più a suo agio rispetto agli altri brani, dove comunque se la cava alla grande. The Same Thing, con l’ottimo Herington alla slide, è proprio il celebre blues scritto da Willie Dixon per Muddy Waters, e qui Boz Scaggs dimostra di avere ancora una voce fantastica, la più inossidabile del trio al passare del tempo, e allo stesso tempo di essere anche un ottimo chitarrista.

Miss Sun inizia a scaldare la pista da ballo, con il funky misto a blue-eyed soul di Scaggs, un brano del 1980 che scivola liscio come l’olio sul wah-wah che lo attraversa, mentre le coriste (la Owens soprattutto, qui in duetto con Boz) e fiati si dannano sempre l’anima. E’ musica anche commerciale e easy, ma come è fatta bene, sei minuti e mezzo di delizie vocali. You Never Can Tell è proprio il classico di Chuck Berry, ancora Boz a guidare la band per una versione che ripropone lo stile country’n’roll dell’oriiginale, anche grazie alla fisarmonica di Michael McDonald e al pianino honky-tonk di Fagen. Ovviamente non potevano mancare pure un paio di classici dei Doobie Brothers, il primo a fare la sua apparizione è What A Fool Believes, chi scrive ha sempre avuto una preferenza per i primi Doobies, quelli di Tom Johnston e Patrick Simmons, ma non posso negare che le evoluzioni vocali soul-rock di McDonald hanno sempre avuto un loro fascino. Torna il repertorio degli Steely Dan per una sontuosa Hey Nineteen, uno dei brani più belli di Donald Fagen (ma ne ha fatti di brutti?), con i precisi interventi dei vari solisti e della band, poi è tempo di “Philly Sound” per una Love TKO che viene dal repertorio di Teddy Pendergrass, ma sia McDonald che Scaggs l’hanno incisa, un soul ballad sontuosa, uno degli standard della musica anni ’70 nell’era pre-disco, qui la canta splendidamente Boz, che voce che ha ancora il “ragazzo”, 70 anni quest’anno ma come canta! Di nuovo repertorio Steely Dan per una pimpante Peg, grande assolo di Herington, con Fagen che lascia il giusto spazio ai suoi pard ma spesso sale al proscenio con la sua melodica, come in questo brano.

In ogni caso secondo me il grande protagonista della serata è proprio Boz Scaggs, quando parte il riff di basso di Lowdown (uno dei più ripresi da chi ama la musica funky di gran classe dei seventies) è goduria pura http://www.youtube.com/watch?v=4p8LEAanLZs , Freddie Washington magistrale nella scansione ritmica, e Harington alla solista, ma tutta la band è magnifica. La parte finale del concerto è decollata e da qui in avanti è un tripudio per il pubblico: McDonald in gran spolvero, anche al piano, in una trascinante Takin’ It To The Streets http://www.youtube.com/watch?v=NQmYB7_Z93Q  e poi una versione eccellente di Reelin’ In The Years con la band che gira a mille, Herington alla solista su tutti, ma anche Fagen canta veramente bene. E poi si capisce che lo stile dei tre è interscambiabile e si incastra in quello degli altri senza il minimo problema. Ancora Scaggs sugli scudi per una perla della funky music virata rock come Lido Shuffle http://www.youtube.com/watch?v=iAZXVmGPhBM : non so quanti di voi lo conoscano, in caso contrario è una lacuna da colmare assolutamente, un signore che ha percorso tutte le strade del rock, dal blues con Steve Miller e Duane Allman al funky, al soul e poi di nuovo al rock, con una classe sempre integra, sentire per credere, un vero bianco “nero”! Si conclude con un altro dei capolavori di Donald Fagen, la riflessiva e bluesata (per l’occasione) Pretzel Logic con Jon Herington che viene stimolato a prendersi i suoi spazi. I tre grandi bianchi concludono con quello che era uno dei classici del rock “nero”, Buddy Miles prima, da solo e con Santana, Hendrix con la Band Of Gypsys, poi, mentre per l’occasione viene rivoltata in una versione anche jazzata, cantata da McDonald, più raffinata ma sempre vicina allo spirito “selvaggio” dell’originale. Titoli di coda e sigla finale, grazie per la bella serata, rende benissimo anche su DVD, musica per le gambe e la braccia, ma soprattutto per il cervello, funky soul come dicono le coriste nella coda del DVD?

Bruno Conti

Torna Il “Cesellatore”, Alcune Impressioni! Donald Fagen – Sunken Condos

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Donald Fagen – Sunken Condos – Reprise

Devo dire che quando ho cominciato a vedere i primi segni dell’imminente uscita di un nuovo album di Donald Fagen, mi sono detto che non era possibile, “solo” sei anni dopo l’uscita di Morph The Cat. Non va mica bene, ventiquattro anni per una trilogia, quella di The Nightfly, che abbiamo scoperto con certezza essere tale, solo quando è uscito il cofanetto retrospettivo, e adesso è già pronto questo Sunken Condos. Ma stiamo scherzando! E invece no, non era uno scherzo, il disco è qui, lo sto ascoltando, è pure bello, genere “Donald Fagen”, nel senso che quando schiacci il bottone Play e parte il primo brano Slinky Thing, lo stile è inconfondibile, al massimo poteva essere un nuovo disco degli Steely Dan, ma Fagen fa parte di quella categoria a parte che è un genere a sè stante. Ok, c’è jazz, c’è funk, c’è rock, soul e persino pop ma il risultato finale è Fageniano, per coniare un nuovo sinonimo, solo per l’occasione nella sua personalità più groovy.

Dopo un disco più rilassato e meditativo come Morph, il nostro amico questa volta ha voluto essere più funky, ma sempre a modo suo, con quella precisione e quella levità che potremmo anche definire classe: in quanti dischi trovi, in brani diversi, tre assoli di armonica e tre di vibrafono. E trovare un tipo come Michael Leonhart, che è anche più pignolo di lui nella produzione e negli arrangiamenti, non deve essere stata una cosa facile. Oltre a tutto questo signore deve avere delle origini italiane celate, perché va bene tenere famiglia, ma tre parenti nello stesso disco costituiscono “raccomandazione”: il babbo Jay, contrabbassista jazz, la moglie Jamie alle armonie vocali e pure la sorella Carolyn ai Vocal Ad-Libs, va bene il nepotismo, ma senza esagerare. Se poi lui pure si sdoppia, e sotto lo pseudonimo di Earl Cooke Jr. si occupa anche delle parti di batteria, siamo di fronte ad un piccolo genietto, tastiere, vibrafono, tromba, fisarmonica, flicorno, glockenspiel, percussioni e che caspita! E tutto suona alla perfezione fin nel minimo particolare.

A rendere più vivace e meno preciso e tassonomico il tutto ci pensa proprio Donald Fagen, che, rigenerato dai suoi tour con la Dukes Of September Rhythm Revue (con Michael McDonald e Boz Scaggs, altri praticanti dell’arte del blue-eyed soul) e prima ancora con la New York Rock And Soul Revue, dove c’era la meravigliosa Phoebe Snow, ha riscoperto una certa passione per il ritmo, il groove, anche il gusto per le cover, e nel disco ce n’è una, inconsueta e intrigante, di un brano di Isaac Hayes del periodo Polydor, la quasi disco di Out Of The Ghetto, con i consueti coretti tipici dei dischi di Fagen e qualche “stranezza”, come un assolo di violino in un brano così funky e qualche inflessione vocale (e musicale) alla Stevie Wonder, che ritorna anche in altri brani (ed è inteso come un complimento perchè nella prima metà degli anni ’70 pochi facevano dischi belli e consistenti come quelli di Wonder), come anche l’uso dell’armonica mi sembra mutuato da quei dischi, mentre il vibrafono o la marimba hanno un che di Zappiano (Ruth Underwood dove sei?). Se poi il caro Donald si autocita e fa una sorta di cover di sè stesso, per esempio in una canzone come Miss Marlene, che è una specie di I.G.Y parte seconda, fa parte sempre di quell’essere una categoria a parte, quelli che hanno un sound. Un disco di Van Morrison o di Richard Thompson lo riconosci subito e lo stesso vale per Fagen, non tradiscono mai i loro ammiratori!

Un altro dei protagonisti del disco è la chitarra di Jon Herington, spesso in evidenza con assoli mai banali e impegnato con un wah-wah insinuante in un brano come Good Stuff che se non arriva ai limiti inarrivabili degli Steely Dan di Aja prova ad avvicinarli con le sue atmosfere avvolgenti (ma in quel disco suonava gente come Wayne Shorter, Steve Gadd, Larry Carlton, Joe Sample e mille altri, che con tutto il rispetto per l’attuale fantastico gruppo di Fagen, erano un’altra cosa). Comunque Herington “costringe” un musicista come Larry Campbell a fare il chitarrista ritmico di supporto nel disco, ma nella conclusiva Planet d’Rhonda ,secondo me, la solista è quella dell’ottimo chitarrista jazz Kurt Rosenwikel, che dà un’aria più raffinata e meno funky al brano, anche se meno immediata, forse.

Senza stare a fare una disamina di tutti i nove brani, il disco mi pare bello, come dicevo in apertura, e ho voluto mettere in questo Post alcune delle impressioni che mi ha suscitato un ascolto attento, ripetuto e molto gratificante del disco, che ad ogni nuovo giro ti rivela particolari unici e sonorità veramente cesellate! E non ho citato neppure una volta Walter Becker (non ho resistito).

Bruno Conti

Il 16 Ottobre In Uscita Sunken Condos Il Nuovo Album Di Donald Fagen

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Visto che nel Blog (e non solo) ci sono dei fans di Donald Fagen due parole veloci in attesa dell’uscita di Sunken Condos prevista per la Reprise/Warner il prossimo 16 ottobre. Si tratta del primo album solista di Fagen dopo la conclusione della Nightfly Trilogy con al’album Morph The Cat del 2006 e la pubblicazione l’anno successivo del bellissimo cofanetto relativo alla trilogia con sette dischetti tra CD e DVD, anche se gli audiofili, per quello che si è letto, sono rimasti parzialmente delusi (per la qualità del suono, non certo per il contenuto).

Il nuovo album viene anticipato dal singolo promozionale I’m Not The Same Without You che potete ascoltare qui sotto…

Questi sono i brani, 8 originali e una cover di Out Of The Ghetto di Isaac Hayes.

 

  1. “Slinky Thing”
  2. “I’m Not the Same Without You”
  3. “Memorabilia”
  4. “Weather in My Head”
  5. “The New Breed”
  6. “Out of the Ghetto” (Isaac Hayes)
  7. “Miss Marlene”
  8. “Good Stuff”
  9. “Planet D’Rhonda”

Donald Fagen questa estate ha girato gli Stati Uniti con i Dukes Of September, ossia Michael McDonald e Boz Scaggs, e il tour avrà un’ultima propaggine il 24 ottobre a Honolulu, se vi capita di essere da quelle parti.

Viceversa se volete sapere tutto sull’album, questo è il link per leggere un’intervista con Michael Leonart, il co-produttore dell’album http://dl.dropbox.com/u/78948039/sunken_condos_interview.pdfhttp://

Direi che è tutto.

Bruno Conti

P.S.

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In questi giorni è uscito anche il nuovo disco solista di Jon Herington, Time On My Hands. Si tratta del quinto album da solista del musicista che da parecchi anni occupa il ruolo di chitarrista negli Steely Dan e nelle band di Donald Fagen e Walter Becker.