Usciamo Un Po’ Dal Seminato, Con Una Tripla Dose Di AOR! Journey, Toto E Foreigner.

journey live in japan 2017

Journey – Live In Japan 2017: Escape + Frontiers – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Toto – 40 Tours Around The Sun – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Foreigner – Live At The Rainbow ’78 – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – CD/DVD – CD/BluRay

Prima di cominciare vorrei ringraziare Bruno che ogni tanto mi permette di “svicolare” dagli argomenti trattati abitualmente sul blog per parlare di artisti che rientrano nella categoria “piaceri proibiti” (ogni tanto non significa che a volte pone il veto, ma sono io che cerco di non approfittare del suo buon cuore). Un genere musicale che non disdegno, anche perché quando è fatto bene a mio parere è tutt’altro che disprezzabile, è l’AOR, acronimo di “Adult Oriented Rock”, una definizione perlopiù giornalistica tesa a categorizzare un tipo di musica alla quale negli anni settanta non si riusciva a dare una collocazione precisa, un rock di forte appeal radiofonico caratterizzato da melodie ad ampio respiro, sonorità levigate ed eleganti e con le tastiere ad avere quasi la stessa importanza delle chitarre, un genere più adatto forse ad ascoltatori over 30. Negli anni parecchi gruppi e solisti sono stati associati all’AOR, a volte anche per un solo disco (penso ai Deep Purple di Slaves & Masters), a volte per una fase “commerciale” della carriera (come band dalle origini prog come Kansas, Rush e Styx), ma la cosiddetta “sacra triade” è formata indubbiamente da Journey, Toto e Foreigner (ci sarebbero anche i Boston, che però sono più una creatura di laboratorio di Tom Scholz). Ebbene, sembra che i tre gruppi si siano dati appuntamento, in quanto nel giro di un mese circa ognuno di essi ha pubblicato un disco dal vivo (quello dei Foreigner è però d’archivio), tutti usciti per la Eagle Rock nel solito insieme di combinazioni audio e video. Bando alle ciance dunque, e vediamo in breve (spero) di cosa si tratta.

Journey. Per molti il gruppo cardine del genere AOR, soprattutto da dopo la metamorfosi avvenuta in seguito all’ingresso del cantante Steve Perry (che, piacesse o meno il tipo di musica proposta, all’epoca Steve era una delle più belle voci d’America): Escape e Frontiers sono considerati dai fans la Bibbia dell’AOR, ed oggi quei due album vengono riproposti integralmente in questo Live In Japan 2017, registrato nello storico Budokan di Tokyo. I Journey sono per quattro quinti nella formazione che aveva inciso quei due album nel 1981 e 1983 (Neal Schon alla chitarra solista, Jonathan Cain alle tastiere, Ross Valory al basso e Steve Smith alla batteria): il problema è il cantante, che non è più Perry da anni ma un suo clone, tale Arnel Pineda, un filippino che militava in una cover band asiatica proprio del gruppo di San Francisco, e scritturato da Schon dopo aver visionato dei filmati su YouTube. Però se lasciamo perdere per un attimo l’effetto karaoke questo doppio ha il suo perché, in quanto è inciso benissimo e suonato anche meglio, con una potenza quasi da gruppo hard rock; e poi i Journey hanno a mio parere un repertorio superiore a quello delle due altre band di cui mi occupo in questo post. Il primo CD è occupato quindi da Escape, di gran lunga il miglior disco dei nostri a cominciare dal brano di apertura, la splendida Don’t Stop Believin’, una grande canzone da qualunque punto la si guardi (l’ultima volta che ho controllato deteneva anche il record di brano più scaricato di tutti i tempi).

Dopo un avvio così il concerto è in discesa, ma non mancano altri classici del gruppo come Stone In Love, altro pezzo di grande impatto, Who’s Crying Now, Open Arms e Mother, Father (Escape era un disco che somigliava molto ad un Greatest Hits). E la band suona che è una bellezza, dando risalto anche a brani come la toccante ballata Still They Ride, la potente Lay It Down o il rock’n’roll sotto steroidi di Dead Or Alive. Frontiers non era bello come Escape, ma un album comunque molto compatto al quale mancava però una hit che spaccasse come Don’t Stop Believin’: in questa rilettura live non mancano in ogni caso momenti di rock sontuoso come Separate Ways, Faithfully, Send Her My Love ed Edge Of The Blade. Come bis abbiamo La Raza Del Sol (un lato B dell’epoca di Frontiers), tramutata in una lunga jam di stampo progressive, e la quasi bluesata (peccato per quel synth) Lovin’, Touchin’, Squeezin’: sorprendentemente assenti due classici “da fine concerto” come Wheel In The Sky e Anyway You Want It.

toto 40 tours around the sun

Toto. Lo scorso anno la band di Los Angeles ha celebrato i quarant’anni di carriera con un’antologia ed un lungo tour, dal quale è stato tratto questo 40 Tours Around The Sun, registrato nel Marzo del 2018 allo Ziggo Dome di Amsterdam dalla formazione attuale del gruppo che comprende i membri fondatori Steve Lukather, David Paich e Steve Porcaro ed il cantante Joseph Williams (già con i Toto negli anni ottanta, anche se per molti fans la voce della band rimane Bobby Kimball). La scaletta non è scontata, in quanto a fianco delle prevedibili hits del gruppo (Hold The Line, Rosanna, la sempre coinvolgente Africa, Stop Loving You e Georgy Porgy entrambe acustiche, anche se manca stranamente I Won’t Hold You Back) ci sono parecchie scelte a sorpresa, i cosiddetti “deep cuts”, tra i quali segnalerei la roccata Lovers In The Night, dal ritornello orecchiabile, la bella ed intensa I Will Remember, con un bell’assolo di Lukather (che, va detto, è un chitarrista formidabile), la trascinante English Eyes ed anche una ripresa del Desert Theme dalla colonna sonora di Dune.

Non ci sono pezzi dalla loro ultima fatica di studio, Toto XIV (2015), ma sono presenti due dei tre brani nuovi del Best Of dello scorso anno, la vigorosa e ritmata Alone, che apre il concerto (tastiere un po’ troppo invadenti però) e la gradevole Spanish Sea, rock ballad fruibile ma non banale. Qualcosa avrei evitato, tipo le due cover (Human Nature di Michael Jackson, che però è stata scritta da Steve Porcaro, ed il classico di George Harrison – e dei BeatlesWhile My Guitar Gently Weeps, proposto da Lukather e soci in una versione raffinata ma con poca anima), ma direi che tutto sommato l’ascolto del doppio CD si rivela piacevole nonostante qualche pomposità qua e là.

foreigner live at the rainbow 78

Foreigner. Live At The Rainbow ’78 è la prima pubblicazione ufficiale di questo famoso concerto tenuto dalla band anglo-americana nel noto teatro londinese. All’epoca i nostri non avevano ancora raggiunto la popolarità che arriverà negli anni ottanta, in quanto avevano dato alle stampe un solo album, l’omonimo Foreigner di un anno prima, mentre il successivo Double Vision vedrà la luce dopo pochi mesi da questa serata. Dodici canzoni, tutto il primo album più una doppia anteprima dal secondo (i singoli Hot Blooded e la title track), per un concerto molto rock e poco AOR, dominato dalla chitarra di Mick Jones e dalla voce potente di Lou Gramm. Un gruppo quindi ancora abbastanza distante dalle sonorità patinate di canzoni future come I Want To Know What Love Is e Waiting For A Girl Like You (a parte la gradevole Fool For You Anyway, ballata che mostra i germogli dello stile più pop degli anni a venire). Basti sentire l’iniziale ed aggressiva Long, Long Way From Home o la riffata I Need You, che presenta elementi blues ed un ottimo assolo di Jones, le accattivanti Double Vision e Feels Like The First Time, o cavalcate rock come l’elaborata Starrider e la conclusiva Headknocker, dodici minuti ciascuna.

Quindi se anche a qualcuno di voi non dispiace il genere, accomodatevi pure: se dovessi fare una scelta, io privilegerei il live dei Journey, nonostante il discutibile cantante.

Marco Verdi

Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte I

ian hunter stranded in realityian hunter stranded in reality

*NDB. Come al solito quando Marco si lascia prendere la mano (ma per qualcosa che vale la pena) il contenuto del Post si allunga a dismisura, quindi dividiamo in due parti la recensione del cofanetto.

Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Da sempre Ian Hunter è uno dei miei musicisti preferiti, in quanto per me rappresenta la quintessenza del cantante rock, con in più quel tocco dylaniano nel songwriting che non guasta (anzi): durante la sua lunga carriera, sia come frontman dei Mott The Hoople che da solista, ha mantenuto una qualità decisamente elevata, confermata circa due mesi fa dall’ottimo nuovo disco, Fingers Crossed. Per celebrare la parte solista del cammino discografico di Hunter, la Proper ha pubblicato (solo sul suo sito ed in una quantità limitata a 2.500 copie) questo Stranded In Reality, mastodontico box di ben 28 CD più due DVD, un’opera magnifica che ha il solo difetto di costare parecchio (250 sterline), ma che dimostra che quando si vuole è possibile gratificare i fans con prodotti di altissimo livello come questo. Infatti il box, oltre a comprendere tutti gli album solisti di Ian, sia quelli in studio (tranne l’ultimo, che è però appena uscito) sia i live ufficiali (e tutti in versione rimasterizzata ex novo, in confezione simil-LP e mantenendo tutte le bonus tracks delle varie edizioni deluxe uscite nel corso degli anni, ed ognuno con il suo bel booklet con testi e note), aggiunge ben nove CD quasi completamente inediti, tra brani in studio, outtakes, rarità assortite e canzoni dal vivo, e due DVD con performance varie ed anche in questo caso il più delle volte rare. In più, uno splendido libro con copertina dura e note di Ian stesso canzone per canzone, una rivista fittizia, intitolata Shades, che comprende recensioni ed articoli vari sul nostro pubblicati negli anni dalle più prestigiose testate inglesi, ed una foto autografata. Un cofanetto da leccarsi i baffi dunque, che vado a riepilogare per sommi capi, approfittandone anche per riassumere la carriera di un artista che secondo me andrebbe inserito nel novero dei grandi.

Ian Hunter (1975): il disco d’esordio di Ian è subito un classico. Con Mick Ronson come chitarra solista, partnership che proseguirà anche negli anni a seguire, Hunter ci regala un album che rappresenta alla perfezione la sua arte, a partire da Once Bitten, Twice Shy, un coinvolgente rock’n’roll ispirato da Chuck Berry, e che prosegue con la vigorosa Who Do You Love, la sontuosa Boy, una fantastica ballata di quasi nove minuti, l’acustica e toccante 3.000 Miles From Here, la solida The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth, con uno strepitoso assolo di Ronson, la vibrante e roccata I Get So Excited e, tra i bonus, le outtakes Colwater High e One Fine Day (entrambe con parti vocali incise nel 2005), che non avrebbero sfigurato sul disco originale.

All American Alien Boy (1976): registrato a New York con una superband (che vede Chris Stainton al piano, Jaco Pastorius al basso ed Aynsley Dunbar alla batteria, oltre a tre quarti dei Queen, cioè Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor ai cori nella ballad You Nearly Did Me In), questo è un altro grande disco, con più pezzi lenti rispetto all’esordio (ma Ian è un fuoriclasse anche nelle ballate), che si apre con la splendida Letter From Britannia To The Union Jack, una vera e propria missiva scritta con il cuore in mano da Ian al suo paese in profonda crisi, la scintillante title track, con gran lavoro di Pastorius, o la pianistica e bellissima Irene Wilde, una delle ballate più riuscite del nostro. Ma non sono da meno neanche Rape, dal sapore gospel, e la volutamente dylaniana God.

Overnight Angels (1977): un buon disco, molto più rock del precedente ma inferiore nel songwriting, un album poco considerato ma solido, con qualche buona canzone ed altre più normali. Golden Opportunity è un inizio potente e deciso come un pugno in faccia, ben bilanciato dalla pianistica Shallow Crystals, una rock ballad coi fiocchi. Ma la poco spontanea title track, un tentativo costruito a tavolino di scrivere una hit, non funziona, così come la pomposa Broadway; il resto si divide tra cose più riuscite ed altre meno (tra le prime la gradevole Miss Silver Dime e The Ballad Of Little Star, il miglior slow del disco), o veri e propri riempitivi come l’insulsa Wild’n’Free.

You’re Never Alone With A Schizofrenic (1979): al quarto disco Ian firma il suo capolavoro: con mezza E Street Band in session (Roy Bittan, Garry Tallent e Max Weinberg, più Ronson  di nuovo alla solista, l’ex Velvet Underground John Cale al piano in Bastard ed Eric Bloom dei Blue Oyster Cult ai cori) Schizofrenic è un grandissimo disco, quasi un greatest hits se si contano i futuri classici presenti. Grandi canzoni rock come Just Another Night, Cleveland Rocks, When The Daylight Comes (splendida) e Bastard, e superbe ballate come Ships, dal suono levigato, Standing In My Light e la straordinaria The Outsider, forse il più bel lento mai scritto dal nostro. Ma il disco brilla anche nei momenti meno noti, come il festoso errebi Wild East ed il boogie pianistico Life After Death; tra le bonus tracks, una Just Another Night più lenta ma altrettanto bella (con un grande Bittan) ed una scatenata versione del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ Goin’ On.

Welcome To The Club (1979): la decade dei grandi dischi dal vivo si chiude con uno dei più belli, registrato al Roxy di Los Angeles, e che vede Hunter in forma strepitosa, ben coadiuvato da Ronson e da un gruppo che va come un treno. Dopo un inizio con la potente rilettura dello strumentale degli Shadows FBI, il doppio CD presenta versioni spiritate di classici di Ian solista ma anche dei Mott The Hoople (Angeline, poco conosciuta ma bellissima, All The Way From Memphis, I Wish I Was Your Mother, Walkin’ With A Mountain, il superclassico All The Young Dudes, One Of The Boys e The Golden Age Of Rock’n’Roll): un disco potente ma lucido ed ispirato anche nelle ballate (una Irene Wilde da favola), e con in fondo tre brani nuovi incisi in studio, dei quali il migliore è senza dubbio lo slow Silver Needles.

Short Back’n’Sides (1981): nonostante la presenza di due Clash, Topper Headon e soprattutto Mick Jones (che produce insieme a Ronson), questo esordio di Ian nella nuova decade è un disco un po’ involuto e senza particolari guizzi, con sonorità gonfie tipiche del periodo: si salvano Central Park’n’West, un pop-rock orecchiabile e coinvolgente nonostante l’uso massiccio di sintetizzatori, e la stupenda Old Records Never Die, ballata incisa la sera in cui viene assassinato John Lennon. Il resto, con la possibile eccezione della colorita I Need Your Love, un errebi alla Southside Johnny, è trascurabile (e Noises è proprio brutta): Hunter stesso, nelle note del book accluso al box, non è per nulla tenero verso questo album.

All Of The Good Ones Are Taken (1983): questo sarà l’ultimo disco di Ian negli anni ottanta (una decade nefasta per molti rockers), un album che non contiene classici futuri ma una media di canzoni migliore del precedente, anche se il sound è notevolmente peggiorato (Captain Void’n’The Video Jets fa davvero schifo): tra gli highlights abbiamo la bella title track, una rock song che risente solo in parte del suono dell’epoca (e presenta un paio di buoni interventi al sax di Clarence Clemons), il rock’n’roll un po’ bombastico di Every Step Of The Way, la bowiana Fun, l’orecchiabile That Girl Is Rock’n’Roll (ma troppi synth) e la soulful Seeing Double.

Yui Orta (1990): dopo sette lunghi anni di silenzio, Ian torna con l’unico disco accreditato a metà anche a Mick Ronson (che però si limita, si fa per dire, a suonare la solista ed a collaborare al songwriting), ed è un buon disco, un album rock con una produzione rutilante e con diverse buone canzoni, anche se non serve a rilanciare la figura del nostro. Hunter ritrova comunque grinta e smalto e le belle canzoni non mancano, come la potente rock ballad American Music, al livello dei suoi pezzi degli anni settanta, la seguente The Loner, diretta come un macigno, l’energica e vibrante Women’s Intuition, o ancora la trascinante Big Time, un rock’n’roll scatenato come ai bei tempi. E Livin’ In A Heart dimostra che il nostro è ancora in grado di scrivere ballate coi fiocchi.

Ian Hunter’s Dirty Laundry (1995): nel 1993 scompare tragicamente Mick Ronson, e Hunter va fino in Norvegia ad incidere il nuovo disco con musicisti locali. Le nuove generazioni conoscono poco il nostro, ed il fatto che Dirty Laundry esca per una piccola etichetta locale non aiuta di certo; è un peccato, perché il disco è il più riuscito dai tempi di Schizofrenic, un album di rock al 100%, grezzo, diretto e chitarristico, con brani come la ritmata Dancing On The Moon, la corale e splendida Good Girls, uno dei più bei rock’n’roll del nostro, la travolgente Never Trust A Blonde, rollingstoniana fino al midollo, la deliziosa Psycho Girl, tra rock e pop e con una fulgida melodia. Ma poi abbiamo anche la meravigliosa Scars, una sontuosa ballata elettroacustica e dylaniana, che avrebbe meritato ben altra sorte. E quelle che non ho citato non sono certo inferiori (Invisible Strings è splendida): un disco da riscoprire assolutamente.

BBC Live In Concert (1995): accreditato alla Hunter-Ronson Band, questo CD registrato a Londra nel 1989 è stato pubblicato anche per omaggiare lo scomparso Mick. Un ottimo live, ben suonato e con un Hunter in forma, che accanto a classici assodati (Once Bitten, Twice Shy, Just Another Night, Standing In My Light, Bastard, Irene Wilde), presenta ben sei brani in anteprima da Yui Orta, che uscirà di lì ad un anno (eccellenti How Much More Can I Take? e Big Time), ed anche un inedito, Wings, invero piuttosto trascurabile.

The Artful Dodger (1996): disco registrato in Norvegia come Dirty Laundry, ma con maggior dispendio di mezzi (all’epoca uscì per la Polydor), The Artful Dodger è meno rock e con più ballate del suo predecessore, ma ha il merito di rimettere in circolo il nome di Hunter. Un lavoro più che buono, che ha come brano centrale Michael Picasso, una toccante ballata dedicata all’amico Ronson, ma che presenta diversi pezzi sopra la media, come Too Much, uno slow d’atmosfera davvero riuscito, la superlativa Now Is The Time, il limpido folk-rock Something To Believe In, la cristallina (ed autobiografica) 23A, Swan Hill, o la title track, unico vero rock’n’roll del CD. Mentre il funk-rap di Skeletons era meglio se non ci fosse stato.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Una Delle Ristampe Del 2013 (Anche Se Manca Un Disco)! The Clash – Sound System

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The Clash – Sound System – Sony Legacy Box Set 11CD/1DVD

Vengo subito al punto: il disco mancante è Cut The Crap, l’ultimo album, uscito nel 1985, dei londinesi Clash, disco rinnegato da tempo dagli ex componenti del gruppo (e non soltanto perché c’erano solo due membri originali), e perfino tolto dalla loro discografia ufficiale.

Ma si sa, il fan completista la vede in maniera diversa, e quindi io penso che per questa volta, dato che comunque il leader Joe Strummer faceva parte di questo ultimo album (quindi non si possono fare paragoni con i dischi dei Doors senza Jim Morrison o dei Velvet Underground di Doug Yule), si potesse fare un’eccezione. Ma poi scopro che il curatore del box è Mick Jones (cioè uno dei due assenti in Cut The Crap, l’altro era il batterista Topper Headon) e allora comincio a darmi delle risposte.

A parte questi discorsi da maniaco, Sound System è indubbiamente, come da titolo del post, una delle ristampe dell’anno, in quanto presenta l’opera (quasi) omnia dei Clash, con in più un triplo CD ed un DVD di rarità, il tutto corredato da una splendida confezione a forma di ghetto blaster (o boombox, insomma lo stereo “da passeggio” tipico degli anni ottanta), pieno di gadgets e cosucce varie che delizieranno sia i neofiti che i fans della prima ora (imperdibile il poster contenuto in un tubo rappresentante una maxi-sigaretta).

(NDM: per chi ha meno soldi da spendere e meno spazio sugli scaffali la Sony ha previsto anche il mini-box 5 Albums Studio Set, che contiene soltanto la discografia ufficiale nuda e cruda, e The Clash Hits Back, un’antologia su due CD).

Non credo certo di dovervi dire qua chi erano i Clash: troppo frettolosamente bollati come gruppo punk, il quartetto formato da Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Nicky “Topper” Headon furono una delle band cardine degli anni a cavallo tra settanta ed ottanta, e la loro musica andava ben oltre il punk degli esordi, toccando rock, reggae, rock’n’roll, rap e dub, il tutto accompagnato a testi corrosivi, ironici, spesso polemici o politicamente impegnati, ed una scarsa, per non dire nulla, predisposizione al compromesso.

Sound System ripercorre quindi la carriera dei Clash passo dopo passo, con tutti i CD in una elegante confezione a libretto che rispecchia gli album originali (quindi London Calling è un doppio CD, Sandinista! un triplo), rimasterizzati in maniera davvero spettacolare.

Si va quindi dall’omonimo esordio The Clash, ancora grezzo e questo sì, chiaramente punk, a Give ‘em Enough Rope, con la produzione più rotonda e rock ad opera di Sandy Pearlman (già mentore dei Blue Oyster Cult), al mitico London Calling, il loro capolavoro, uno dei dischi più influential (come dicono gli anglosassoni) degli anni settanta, all’ambizioso Sandinista!, che se invece di triplo fosse stato doppio poteva stare sullo stesso livello del precedente, a Combat Rock, il loro album più venduto, grazie anche a brani come Should I Stay Or Should I Go e Rock The Casbah.

Il triplo CD di extra contiene tutta una serie di sciccherie miste, come i singoli non finiti su album, i lati B, gli EP The Cost Of Living e Capital Radio, diverse outtakes e versioni alternate e, nel terzo dischetto, le loro prime due sessioni di registrazione del 1976, che mostrano un gruppo ancora acerbo ma con una grinta ed una voglia di spaccare il mondo da paura, e sei brani dal vivo al Lyceum di Londra nel 1978.

Il DVD mostra invece interviste inedite, quattro pezzi live del 1977 alla Sussex University, filmati mai visti girati da Don Letts e Julian Temple, oltre a tutti i videoclip ufficiali.

(NDM , part 2: la versione su ITunes del box include anche i due live albums postumi, Live At Shea Stadium e From Here To Eternity, ma certo che chi lo acquista sulla piattaforma della Apple si perde la confezione…).

In pratica, se non avete nulla o poco dei Clash, questo è un cofanetto imperdibile, se avete tutto…fateci lo stesso un pensierino, in quanto è rimasterizzato veramente alla grande.

Marco Verdi

E’ Sempre Un Piacere (Nonostante Le Ripetizioni)! Ian Hunter – From The Knees Of My Heart

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Ian Hunter – From The Knees Of My Heart – The Chrysalis Years (1979-1981) – Chrysalis 4CD

Come avevo già scritto parlando della sua ultima fatica When I’m President, io sono da sempre un ammiratore di Ian Hunter, che ho sempre considerato una sorta di Bob Dylan più rock’n’roll (e io adoro sia Dylan che il rock’n’roll, quindi…), con l’aggiunta di un gusto melodico sopraffino che lo ha sempre visto eccellere anche nelle ballate.

Nonostante questo, quando ho visto il contenuto di questo boxettino intitolato From The Knees Of My Heart, in un primo momento mi sono girati i maroni: ma come? Dopo soli tre anni dalla sontuosa edizione doppia deluxe di You’re Never Alone With A Schizofrenic, cioè il disco più bello di Hunter insieme ai primi due (ma non sottovaluterei il recente Man Overboard), lo stesso album mi viene ripresentato in un’edizione più “povera” come primo dei quattro CD?

La cosa che mi ha subito calmato è stato il prezzo del box: praticamente come un singolo CD, e visto che il quarto dischetto è (quasi) totalmente inedito, e che ci sono anche alcune sorprese sparse sugli altri CD, ho deciso che questa era una pubblicazione da avere.

Ma andiamo con ordine: From The Knees Of My Heart, come recita il sottotitolo, prende in esame gli album pubblicati da Ian durante il suo breve periodo alla Chrysalis, cioè due dischi in studio ed un live, più un altro concerto all’epoca uscito solo in VHS (e sfido chiunque di voi ad averlo, nel 1981 in Italia c’erano a malapena i videoregistratori).

Se siete seguaci di questo blog, non penso che io debba parlarvi più di tanto di You’re Never Alone With A Schizofrenic: semplicemente è uno dei grandi dischi rock degli anni settanta, con Hunter ispirato come non mai, e con un gruppo di musicisti incredibile (oltre al fido Mick Ronson, c’è dentro il cuore della E Street Band, cioè Bittan, Tallent e Weinberg, oltre a John Cale ed a Eric Bloom, lead vocalist dei Blue Oyster Cult). Un disco imperdibile, con classici assoluti di Ian quali Just Another Night, Cleveland Rocks, Ships, When The Daylight Comes, Standin’ In My Light, anche se forse il mio brano preferito è The Outsider, una ballata stellare, nella quale Hunter raggiunge punte di pura poesia rock, cantata con un pathos formidabile. Il primo CD contiene anche alcune versioni alternative tratte dalla ristampa del 2009, oltre ad un brano disponibile solo in download (una prima versione di Ships) e tre inediti assoluti, tra cui Alibi, un brano mai pubblicato prima da Ian.

Il secondo CD contiene Welcome To The Club, ovvero il miglior live album della carriera di Hunter: registrato al Roxy di Los Angeles, vede Ian ripercorrere il meglio della sua carriera solista e con i Mott The Hoople, con una band tostissima guidata da un Mick Ronson in stato di grazia. Ian stesso è in forma strepitosa, e ci regala quasi un’ora e mezza di rock’n’roll da strapparsi i capelli (Once Bitten, Twice Shy, All The Way From Memphis, The Golden Age Of Rock’n’Roll, la formidabile cover di Laugh At Me di Sonny Bono) e di ballate strepitose (Irene Wilde, la superdylaniana I Wish I Was Your Mother), oltre naturalmente al superclassico All The Young Dudes. Questo secondo CD non contiene bonus, anzi omette i brani registrati in studio per il disco originale (ma li recupererà sul quarto CD), e mancano anche due live tracks presenti invece nella ristampa del 2007 (ma difficile da trovare). E’ comunque sempre una goduria di disco!

Il terzo CD contiene Short Back’n’Sides che è, parola di fan, l’album meno bello di tutta la discografia di Ian: prodotto con Mick Jones dei Clash, ha i suoi punti di forza in due soli brani, cioè Central Park’n’West, infarcita di sintetizzatori ma con un bel tiro rock ed una melodia coinvolgente, e Old Records Never Die, una delle più belle ballate di Hunter, incisa la sera dell’omicidio di John Lennon. Per il resto, una serie di brani irrisolti, non particolarmente ispirati, e con arrangiamenti talvolta discutibili, tra pop, new wave e reggae, si salvano Rain e la buona Keep On Burning: i bonus sono in parte tratti dalla ristampa del 1994 (ormai introvabile), più un paio di inediti assoluti (Detroit e China) che nulla aggiungono al disco.

Il quarto CD, intitolato Ian Hunter Rocks, è come già detto la ristampa di una videocassetta registrata dal vivo nel 1981 a New York, con Hunter come al solito impeccabile on stage: non è Welcome To The Club (non c’è neppure Ronson), ma ha comunque il suo perché. I brani di Short Back’n’Sides guadagnano punti in questa veste (specialmente I Need Your Love, quasi un’altra canzone, in medley addirittura con Honky Tonk Women degli Stones, che il libretto mette erroneamente mixata con All The Way From Memphis), ed in più nel finale c’è un medley spettacolare di una decina di minuti che fonde All The Young Dudes, Ships, Honaloochie Boogie e la fantastica Roll Away The Stone.

Come cilegina, nel booklet interno ci sono le disamine brano per brano (tra il serio e il faceto, anzi quasi sempre faceto) di Ian stesso, che danno così un sigillo di garanzia all’operazione.

Dio benedica Ian Hunter.

Marco Verdi