Oscure E “Rumorose” Trame Sonore. Midnight Ghost Train – Cold Was The Night

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The Midnight Ghost Train – Cold Was The Ground – Napalm Records

Vengono da Topeka, Kansas, o meglio, questi Midnight Ghost Train nascono a Buffalo, nello stato di New York, nel 2008, ma già nel 2010 sono nel Kansas dove registrano il primo album omonimo nel loro studio casalingo, ora con questo Cold Was The Ground approdano al terzo disco di studio, inframmezzato da un disco dal vivo, uscito nel 2013. Si tratta del primo album pubblicato dopo avere firmato per la Napalm Records, etichetta austriaca nota per il suo catalogo di heavy metal estremo, ma che ogni tanto si cimenta anche con gruppi dell’area stoner e hard rock più classico. La prima cosa che colpisce è la copertina inquietante del CD, una foto da american gothic, alleggerita e mitigata dalla foto sul retro che ci presenta una “panterona” discinta su un divano, che ammicca verso la camera del fotografo. Lo stile musicale, come forse si intuisce da questa breve presentazione, oscilla appunto tra lo stoner rock cattivo di band come Fang, Clutch ed altre simili, che abitualmente non frequento nei miei ascolti musicali, ma che hanno ovviamente un loro seguito e anche elementi dei Kyuss, tra i progenitori del genere, e andando più indietro, il classico hard dei primi Black Sabbath. La voce del leader, cantante e chitarrista della band, Steve Moss, è stata descritta come una via di mezzo tra Chuck Billy (sempre per non chi frequenta, cantante della band trash metal dei Testament) e Tom Waits, e qui conosciamo.

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Per il sottoscritto mi sembra più avvicinarsi ai “cantanti” di band di death metal nordiche, e quindi non propriamente tra i miei preferiti, francamente faccio abbastanza fatica (per usare un eufemismo) a digerire questo stile canterino (Lemmy è un “raffinatone” al confronto), ma la parte prettamente strumentale non è male: il classico heavy power trio, direi assai heavy, pochissimi gli assolo, quasi assenti, comunque capace di escursioni in un rock-blues sporco e cattivo, molto “polveroso”, dove le storie di donne, birra, tabacco e whisky si mescolano a narrazioni più oscure in cui voodoo, dark ladies, pastori protestanti e strani personaggi che popolano le lande americane si confondono con atmosfere musicali laddove anche una certa dose di southern rock (giusto un briciolo), quello più cattivo, neanche a dirlo, si amalgama con il desert rock e il primo heavy metal degli anni ’70. Quindi siete stati avvisati e sapete cosa aspettarvi ascoltando questo disco.

Se siete ancora qui, vediamo anche una breve disamina dei brani contenuti in Cold Was The Ground. Il suono è duro e grezzo, la voce è difficile da digerire (ma anche Tom Waits, fatte le debite proporzioni, non è un cantante “facile”, però ha un suo lato romantico, totalmente assente nell’attitudine di questo Steve Moss): Among The Chasm, l’intro strumentale, sembra un brano di Master Of Reality dei Sabbath (o dei Masters Of Reality), con ampio uso di wah-wah, mentre già in Gladstone le atmosfere si stemperano e si fanno più complesse, pur se in un ambito costantemente heavy https://www.youtube.com/watch?v=L1ep1mzAsi8 , anche se l’ascolto della vocalità di Moss è da subito “faticoso” per non i non adepti, con il suo timbro ursino. BC Trucker, un inno ai conducenti di camion, accelera i tempi verso un classico metal seventies con un suono denso di riff https://www.youtube.com/watch?v=0sCRSZPfHHA , mentre Arvonia   vira verso lo stoner, o desert rock, se preferite, alla Kyuss, con chitarre, basso e batteria che pestano di brutto, con leggere variazioni sul tema https://www.youtube.com/watch?v=fvUZB0ft-7g . One Last Shelter, è un altro strumentale, che, tra accelerazioni e frenate, si muove sempre negli stessi territori https://www.youtube.com/watch?v=32YmNIldGJ0 , seguito da un’altra durissima The Canfield. Insomma, più o meno ci siamo capiti, 227 è un blocco unico, granitico, mentre per Little Sparrow, parlando di passerotti, Moss ci concede un attimo di tregua, quasi waitsiano nella sua inconsueta, per lui, lievità. Ma è un attimo, le conclusive Twins Souls e Mantis, i brani più lunghi del disco, tornano sulle consuete coordinate di “viulenza abatantuoniana”.

Bruno Conti