Cielo Grigio Su, Chitarra Rossa Giù… Indigenous – Gray Skies

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Indigenous – Gray Skies – Blues Bureau International/InakustikIrd

Mi scuso per l’ardita citazione poetico/canzonettistica nel titolo, ma mi scappava, comunque…

Questo dovrebbe essere l’undicesimo disco degli Indigenous (o 12°, a seconda dei conteggi delle discografie, se si contano forse anche gli EP e i Live), ma escluso il disco fatto in trio, a nome Mato Nanji, con David Hidalgo e Luther Dickinson. Per lui (loro), come per altri, vale il discorso che il meglio di solito esce ad inizio carriera, ma la band guidata dal nativo americano ha comunque creato spesso parecchi motivi di interesse, soprattutto per gli appassionati di rock-blues e di chitarristi in generale, con dischi dove “l’attrezzo musicale” è elemento importante ed imprescindibile del tutto, ma non sempre le canzoni sono all’altezza del contorno. L’ultimo disco del 2014 Time Is Coming, come dicevo all’epoca dell’uscita http://discoclub.myblog.it/2014/07/16/nativo-americano-sempre-piu-rock-indigenous-featuring-mato-nanji-time-is-coming/ , era comunque un buon album, in grado di soddisfare chi da questi dischi cerca grinta, perizia tecnica e tanta chitarra. Direi che anche in questo Gray Skies, per quanto i cieli siano grigi l’orizzonte pare comunque sgombro e ben visibile: la “parrocchia musicale” è sempre quella di Cream, Hendrix, Stevie Ray Vaughan e soci e discendenti, anche se la produzione di Mike Varney, boss della Blues Bureau (e anche della Shrapnel) evidenzia a tratti aspetti più hard ed esagerati nel genere del nostro amico.

Questa volta però il suono mi sembra più bilanciato e raccolto, e quindi sono abbastanza d’accordo con chi trova il nuovo album uno dei suoi migliori in assoluto e un ritorno alla forma dei tempi migliori: Stay Behind è una buona partenza, il groove è abbastanza alla Cream, ma l’uso dell’organo di Tommy Paris, un feeling sudista e una melodia che entra subito in testa permettono di gustare con piacere le evoluzioni della solista di Nanji, sempre brillante e ricca di inventiva, ma pure grintosa e potente, la parte cantata è onesta, pure i riff non mancano. Le canzoni al solito portano la firma di Mato Nanji, aiutato di tanto in tanto dalla moglie Leah Williamson e dallo stesso Varney: I’m Missing You è un buon rock-blues dalle parti di Stevie Ray Vaughan (e per analogia di Hendrix), al solito nobilitato dal lavoro della chitarra, mentre le parti vocali sono più scontate, croce e delizia di questo tipo di dischi (ma neppure SRV era questo gran cantante); Lonely Days è una piacevole rock ballad dal ritmo ondeggiante e con una buona melodia, al solito punteggiata dal timbro piacevole della solista di Mato, mentre Healers è più potente e tirata, anche se al di là del consueto phrasing sempre brillante dello strumento, comunque al centro del sound degli Indigenous, il resto è meno memorabile.

On My Way, sulle ali di un riff trascinante è un altro bel pezzo di classic rock, con un wah-wah veramente scatenato, e non può mancare un classico slow blues di stampo hendrixiano come l’eccellente Hear My Voice, dove la Stratocaster di Nanji, ben sostenuta dall’organo di Paris, costruisce una bella atmosfera sonora, intrigante e sognante, prima di rilasciare un assolo di rara classe e sensibilità, non lontano parente di brani alla Little Wing. Let It Shine è di nuovo dalle parti del blues-rock texano alla SRV, sentito mille volte, ma sempre gradito, come pure la scarica di pura energia della poderosa Don’t Know Where To Go e le 12 battute classiche di Let’s Carry On, cariche di blues, poi reiterate nel vibrante slow blues della lunga Both To Blame, dove la chitarra è sempre protagonista assoluta, grazie alla tecnica sopraffina e al feeling di uno dei migliori chitarristi del genere attualmente in circolazione. Il southern boogie della frizzante e coinvolgente You Broke It, You Bought It  e la frenetica e tiratissima What You Runnin’ From, concludono in bellezza un disco che non mancherà di entusiasmare chi ama questo tipo di musica: file under rock-blues.

Bruno Conti

La Chitarra E’ Il Suo “Amuleto” Portafortuna! Chris Duarte – Lucky 13

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Chris Duarte Group – Lucky 13 – Blues Bureau/Shrapnel Records

Ormai credo non occorra ribadire per l’ennesima volta chi sia Chris Duarte, e che genere faccia! Detto mille volte (più o meno) su queste pagine virtuali, due l’anno scorso: nel 2013 infatti Duarte ha pubblicato sia un disco nuovo in studio che un doppio Live http://discoclub.myblog.it/2013/09/13/nuovi-guitar-heroes-chris-duarte-group-live-5685960/ . Diciamolo ancora una volta: power guitar trio o se preferite Texas blues-rock. Con la sua immancabile Fender Stratocaster acquistata quando era un ragazzino il buon Chris cerca sempre di infiammare gli appassionati dei grandi chitarristi https://www.youtube.com/watch?v=BzNMlyxpD8Q  e anche se non ha mai tenuto fede completamente alle previsioni che lo volevano come l’erede designato di Stevie Ray Vaughan, sempre in quei dintorni musicali si è mosso, tra blues, rock and roll, piccoli tocchi di jazz, ma negli ultimi anni, grazie al sodalizio con Mike Varney, proprietario e factotum della Shrapnel records, co-produttore anche di questo album, si è spostato, di tanto in tanto, verso un suono più heavy, quasi confinante con il metal o con le “esagerazioni” della scuola Satriani-Vai-Van Halen. Quindi quello che bisogna capire di ogni album di Duarte non è tanto il genere (che è un derivato) quanto la qualità del disco in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=quzHYx2e7WQ .

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Questo Lucky 13 (sarà mica il suo tredicesimo album?) lo vede affiancato da una nuova, ennesima, sezione ritmica, John McKnight alla batteria e Kevin Vecchione al basso, e alle prese con quattordici brani che portano tutti la sua firma, quindi niente cover per l’occasione. Pertanto la domanda inevitabile è, un buon disco? A giudicare dalla partenza direi sicuramente di sì: You Know You’re Wrong è subito un poderoso rock-blues, a cavallo tra Hendrix e SRV, le due principali influenze di Chris, una solida ritmica, un cantato più convincente del solito e poi partono le evoluzioni della solista, tirate ma molto ben delineate anche a livello sonoro, insomma quello di meglio che ci si aspetta da questi tipi di dischi, tanta chitarra ma suonata con costrutto, la tecnica non è certo quella che fa difetto a questo signore, magari ogni tanto le idee diventano confuse. Questa volta pare che ci siamo, è uno dei dischi “giusti”, Angry Man è puro Texas blues-rock con la chitarra e la sezione ritmica che ci danno dentro di gusto, persino con le dovute sfumature R&R presenti negli episodi migliori della sua discografia, anche Crazy For Your Love è uno di quegli “strascicati” blues texani che erano tra le perle dell’opera di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=IJDw183eJEg , con Duarte che va a pescare anche un cantato alla Joe Walsh, o questa è l’impressione di chi scrive, mentre Who Loves You, con la ritmica che swinga di brutto, ha addirittura una patina sonora vecchio stile. Ottima anche Here I Come, sempre eccellente blues-rock old fashioned, ma ad alta gradazione chitarristica.

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Addirittura la lunga Let It Go è il classico slow blues tiratissimo che non può mancare in questo tipo di dischi, un brano di quelli da “faccine”, avete presente quando i solisti vanno a pescare fino in fondo alle loro budella l’ispirazione e la tensione per rilasciare degli assolo di devastante intensità e quindi il viso del chitarrista si contorce in espressioni facciali che fanno temere episodi fisici irreversibili, e questo mi pare il caso, anche se non posso verificare. E fin qui tutto bene, anzi benone, quasi 35 minuti di ottima musica, pure Man Up non è male, un rockettino di quelli leggeri ma piacevoli, proprio alla Joe Walsh vecchia maniera. Ma poi il tamarro che è in Duarte (e probabilmente in Varney) esplode, voci distorte e filtrate, chitarre esagerate, ritmica fracassona, per una Not Chasing It dove l’idea di un Hendrix futurista si scontra con la pochezza di idee, ma sempre meglio di Weak Wheels che sembra Jimi fatto, dai Red Hot Chili Peppers, non benissimo https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc. Ain’t Gonna Hurt No More, per fortuna ci riporta al classico, confortevole rock-blues, molto derivativo, va bene, ma almeno suonato con passione e perizia, anche se non si tratta di un brano memorabile, lavoro della solista alla parte https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc . Poi c’è una mini-suite Meus Via Vita Suite divisa in tre parti: una sognante e leggermente psichedelica Let’s Go For A Ride, dal suono molto West-coastiano, Minefield Of My Mine, che vira verso l’Hendrix più sperimentale, una cavalcata strumentale ricca di invenzioni chitarristiche e infine Setting Sun, dove l’organo di Art Groom, accentua la vena acida di questo lungo brano, che peraltro è tra le cose migliori mai trovate nella discografia di Duarte, che ci lascia per concludere, con un altro strumentale, Jump The Trane, un boogie rock’n’roll che ci permette di sperimentare nuovamente la grande tecnica di questo virtuoso dello chitarra elettrica. Quindi questa volta molte più luci che ombre, a parte quella sbandata nella parte centrale, uno dei dischi migliori della sua discografia.

Bruno Conti

“Fenomeni”, Nuovo Capitolo. Pinnick Gales Pridgen – PGP 2

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Pinnick Gales Pridgen – PGP 2 – Magna Carta

E’ passato poco più di un anno e mezzo dalla pubblicazione del precedente album http://discoclub.myblog.it/2013/02/21/esagerati-ma-bravi-un-mini-supergruppo-pinnick-gales-pridge/  e Dug Pinnick, Eric Gales e Thomas Pridgen pubblicano un nuovo album, che, secondo la classica formula del rock, dopo un esordio senza nome, vuole che il secondo porti il numero 2 come titolo (e forse potremo andare avanti, chissà?). Ovviamente la formula musicale, fortemente voluta anche dal loro produttore Mike Varney non muta ( e probabilmente era logico aspettarselo), siamo dalle parti di un hard-rock-blues (poco di quest’ultimo) in forma power-trio, un tipo di musica che nei quasi 44 anni che sono passati dalla scomparsa di Jimi Hendrix, raramente (dovrei dire mai) è stato avvicinato per non dire migliorato. Però, gli ammiratori, gli epigoni, del mancino di Seattle non sono mai mancati: qui addirittura siamo quasi nel patologico, con un chitarrista e un bassista, entrambi mancini, ma non dalla nascita, potremmo dire acquisiti, con Pinnick che per dare una sferzata di originalità al suo stile ha montato le corde del suo basso all’inverso, uno strumento per destrorsi con la corda più spessa in alto https://www.youtube.com/watch?v=OB5tDMyKkp4 .

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Al di là di questi tecnicismi, comunque il contenuto di PGP 2 ribadisce quello del suo predecessore: chitarre a manetta ululanti, spesso con il cry baby inserito, nelle mani di Eric Gales, basso pompato e usato quasi come fosse a sua volta uno strumento solista, batteria dal suono poderoso ed avvolgente, tra derive hard rock e tocchi funky, almeno nel brano di apertura Every Step Of The Way, firmato da Pinnick che la canta https://www.youtube.com/watch?v=_GazRcc3BJ4 . Ma non è che le cose cambino molto nella successiva It’s Not My Time To Die, sostituite la voce di Dug con quella di Gales, che è l’autore del brano, ma chitarra, basso e batteria continuano a macinare note inesorabilmente, con grande virtuosismo ma non una eccessiva varietà di temi, forse un’atmosfera più dark, anche per il testo più “buio” e violento della canzone.

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I tre sono indubbiamente bravi, ma ti danno quella sensazione di oppressione sonora, c’è troppo di tutto, chitarre rutilanti, ritmica megagalattica, voci trattate, come nella esplosiva Psychofunkadelic Blues (bel titolo però), saranno anche i Cream, gli Experience o meglio ancora, la Band Of Gypsys del 21° secolo, però se non amate il vostro rock duro, ma molto duro, si fatica a reggere. Intendiamoci le possibilità ci sono, nella introduzione quasi psichedelica della lunga Watchman, e poi nel corpo della canzone, Gales suona qualcosa che pare un sitar elettrico, ma è probabilmente una chitarra passata attraverso le diavolerie della sua pedaliera, i ritmi rallentano, si fanno meno frenetici, il virtuosismo rimane, visto che la formula è quella, ma si cerca, se non di rinnovarla, perché sarebbe difficile, quantomeno di renderla il più varia ed interessante possibile e in questo brano, a tratti, ci riescono. Interessanti anche le due tracce strumentali, la brevissima Ladonna, solo Eric e le sue chitarre, in modalità, manco a dirlo, hendrixiana, quello più sperimentale comunque, e la conclusiva Jambiance, che come lascia intuire il titolo è una sorta di jam ambient, dalla struttura più melodica e meno frenetica.

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In mezzo troviamo l’heavy blues di Have Cried, con ricorrenti armonizzazioni vocali di Gales e Pinnick, che lo rendono quantomeno inconsueto, il rock più moderato di Like You Used To Do, non particolarmente memorabile, o il lite metal di The Past Is The Past, ovvio come il titolo del brano, bravissimi ma vi devono piacere parecchio questi suoni e non sto sindacando la loro validità, constato! The Past Is The Past, Ain’t Got No Money e Down To The Bone sono ulteriori variazioni sul tema. Se mi posso permettere: c’erano più idee in una singola canzone di Hendrix o dei Cream che in tutto questo disco, ma forse mi sbaglio. In ogni caso suonato molto bene, come i prodotti di Varney in generale, se la cosa può consolare. Ripristinerei le due stellette e mezzo, non è così brutto da meritare due stellette ma non ne vale neppure tre.

Bruno Conti

“Nativo Americano” Ma Pur Sempre Rock! Indigenous featuring Mato Nanji – Time Is Coming

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Indigenous featuring Mato Nanji – Time Is Coming – Blues Bureau/Shrapnel Records

La storia è nota, per cui non vi tedierò troppo, raccontandovela nei dettagli per l’ennesima volta, ma a grandi linee, è noto come Mato Nanji sia un nativo americano, “indigenous” se preferite, cresciuto in una riserva indiana, con un babbo patito per il rock e per il blues, Hendrix e Stevie Ray Vaughan in particolare, passione tramandata al figlio, che negli anni fonda gli Indigenous, la band, con fratelli e sorelle, che registrano una buona serie di album, con cadenza annuale agli inizi, tra il 1998 e il 2000, di un rock-blues poderoso intriso delle influenze citate, ma valido per il notevole virtuosismo del leader e deus ex machina del gruppo. Nel 2006 approdano alla Vanguard con Chasing The Sun e quello che doveva essere il primo scalino di una carriera importante causa l’implosione della band che si scioglie.

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Nanji che è il titolare del nome, dopo un paio di album solisti e una collaborazione con Luther Dickinson e Cesar Rosas (buona, ma non eccelsa, visti i nomi coinvolti), riprende a pubblicare come Indigenous featuring Nato Nanji (che sempre lui è), firma un contratto con l’etichetta di Mike Varney, altro noto patito di chitarristi, come il babbo e con questo Time Is Coming siamo nuovamente a tre album in tre anni.

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Se li conoscete e vi sono piaciuti i precedenti http://discoclub.myblog.it/2012/06/11/un-chitarrista-che-fa-l-indiano-indigenous-featuring-mato-na/  la formula è più o meno sempre quella: brani originali, testi firmati dalla moglie Leah Nanji, musica di Mato, con un consistente aiuto di Mike Varney (che produce anche), una cover “minore” come Good At Feelin’  Bad di Bruce McCabe (mi pare ai tempi nel giro della Lamont Cranston Band e recentemente con Jonny Lang) e, soprattutto tanta chitarra, una Stratocaster sempre con il volume a 10, pedale del wah-wah spesso innestato e canzoni che raramente durano meno di cinque minuti (escluso l’unicaa cover) ma molte volte li superano. Anche questo album non mancherà di accontentare chi ama il genere: la chitarra è fluida, anche la voce ha molti agganci con quella di Stevie Ray, atmosferica senza essere memorabile, con qualche reminiscenza AOR di qualità e derive southern (anche se vengono dal Sud Dakota, che nonostante il nome, è a nord degli States), come nell’iniziale Grey Skies, dove la solista di Nanji ben coadiuvata dalle tastiere di Jesse Bradman inizia a tessere le sue trame rock.

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I’m Telling You, con il suo organo prominente e il wah-wah già a manetta ricorda il classico hard rock primi anni ’70 di gente come Deep Purple o Uriah Heep che le tastiere le avevano spesso in evidenza. Good At Feelin’ Bad, citata poc’anzi, sempre rock-blues è, magari un poco più funky, ma siamo su quelle coordinate. Time Is Coming ha tutte le caratteristiche di una bella “hard ballad “sudista, tra chitarre acustiche ed elettriche, tastiere di supporto, una bella melodia ricorrente nel refrain, una piacevole oasi di “tranquillità” nei ritmi frenetici dell’album https://www.youtube.com/watch?v=RVkNZ_D2jkM . Sun Up, Sun Down dal suono denso e corposo, ha qualche tocco psichedelico  https://www.youtube.com/watch?v=Fw2fnoByLvk come pure Around The World, saranno le tastiere che conferiscono questa impronta molto seventies, forse un filo ripetitiva, ma c’è decisamente molto di peggio in giro.

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La chitarra distorta e minacciosa di Won’t Be Around ci potrebbe riportare al Robin Trower che cercava di rifare Hendrix ad inizio carriera (ma lo fa anche oggi), Nanji, altro epigono, è nel suo elemento, e negli oltre sette minuti “lavora” la chitarra con classe e veemenza https://www.youtube.com/watch?v=o-bQoFTdsoE . Anche la super riffatissima You’re What I’m Living For è l’occasione per il buon solismo del nostro amico, magari gli arrangiamenti non sono raffinatissimi e variati, ma gli appassionati del genere gradiranno, penso. Day By Day è una sorta di heavy slow blues, con una chitarra molto distorta e la voce leggermente “effettata”, So Far Gone ritmata e cattiva prende sia da Stevie Ray come da mastro Jimi, ma quei signori, come si sa, erano un’altra cosa. In Give Me A Reason si sente anche una chitarra acustica, ma è subito sommersa da elettrica e tastiere, Something’s Gotta Change, di nuovo molto vaughaniana e la lunghissima Don’t Know What To Do, uno slow torrenziale https://www.youtube.com/watch?v=dPbCgwbsHU0 , sono altre due occasioni per gustare il virtuosismo chitarristico di Mato Nanjii, che è poi il motivo, credo, per cui si comprano i suoi dischi, e in questo CD ce n’è tanto.

Bruno Conti

Il “Figlioccio” Di Jimi Hendrix Tenta Nuove Strade! Eric Gales Trio – Ghost Notes

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Eric Gales Trio – Ghost Notes – Tone Center/Shrapnel Records

Dopo il disco registrato con dUg Pinnick e Thomas Pridgen http://discoclub.myblog.it/2013/02/21/esagerati-ma-bravi-un-mini-supergruppo-pinnick-gales-pridge/  e il CD/DVD Live http://discoclub.myblog.it/2012/10/10/tra-mancini-ci-si-intende-eric-gales-live/ , torna uno dei miei “clienti” abituali, Eric Gales (della premiata ditta dei fratelli Gales, che comprendeva anche Manuel, in arte Little Jimmy King, prematuramente scomparso, che era forse il più bravo della dinastia). Anche Eric come chitarrista non scherza un c…, una grandissima tecnica, che gli deriva in egual misura da anni di ascolti, sin dalla più tenera età, del blues di tutti i vari King, Albert, B.B. e Freddie, nell’ordine e da una insana passione per la musica di Jimi Hendrix, di cui possiamo definirlo “figlioccio” ed “erede”, anche se è una parola grossa (forse il fatto di essere entrambi mancini, a volere essere cattivelli, ma in verità è veramente bravo http://www.youtube.com/watch?v=S-f2Pby42eA e http://www.youtube.com/watch?v=amtLZwS441M )!

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*NDB La foto non è di Hendrix! Cercano sempre un attore per il film su Jimi, non occorre cercare lontano, altro che Andre 3000 degli Outkast, l’ideale sarebbe stato Phil Lynott dei Thin Lizzy, ma purtroppo…

Per questa nuova avventura con la Tone Center, una delle etichette della galassia di Mike Varney, Gales ha messo in piedi un altro trio, con due giovani virtuosi ai rispettivi strumenti, Orlando Thompson al basso e Nick Hayes alla batteria, ed ha realizzato il primo disco tutto strumentale della sua carriera http://www.youtube.com/watch?v=eDq_r3kCuxw . Tutti brani firmati dallo stesso Eric, questa volta viaggiamo tra rock, blues e jazz, con molto funky, come di consueto e le inevitabili acrobazie strumentali di uno dei migliori virtuosi della chitarra elettrica dell’ultimo ventennio (anche se non manca una Grandaddy Blues che è una veloce incursione nella musica acustica, ma è troppo rapida per dire se avrà un seguito).

eri gales live

C’è anche molta musica, come vogliamo definirla, neo-progressiva, hard-virtuosistica? Ai miei tempi si chiamava jazz-rock o fusion, prendete un pezzo come Caution, un brano che si potrebbe trovare su un qualsiasi album anche di Eric Johnson, altro musicista che è uno dei punti di riferimento del nostro amico Gales, vorticose scale chitarristiche sostenute da una sezione ritmica dove basso e batteria sono partner alla pari del funambolico chitarrista. Direi che proprio a questo tipo di ascoltatore si rivolge questo prodotto, tra blues futuristici ed hendrixiani (ovviamente) come A Few More Miles http://www.youtube.com/watch?v=C8oyEoa0bXM  e frenetiche cavalcate alla Dixie Dregs (eh, Steve Morse), tipo l’iniziale Pickin’N Grinnin’  http://www.youtube.com/watch?v=ThNhWMMTzUI o derive funky come nell’orgia wah-wah di Just Funk ,dalle parti della Band Of Gypsys se avesse fatto fusion, è soprattutto l’appassionato dei virtuosismi chitarristici che apprezzerà questo CD. Cast Away ha sempre quella allure spaziale à la Jimi, mista a certo jazz-rock anni ’70. Senza dimenticare, sempre per rimanere in tema, le libere improvvisazioni della Mahavishnu Orchestra o dei Return To Forever, senza il furore e l’inventiva di un Di Meola o di un McLaughlin, ma pur sempre con una rispettabile quota di virtuosismo.

Ovviamente per i non appassionati del genere, l’imperativo è stare alla larga, perché alla lunga, se non si ama questa musica, l’ascolto può essere impegnativo, anche se Gales e soci cercano di tenere i temi sonori i più vari possibili, come nella intensa e pirotecnica Way Down dove non si può fare a meno di ammirare un virtuoso di queste proporzioni, in grado di lavorare sulla propria chitarra in maniera notevole. Misunderstood, un “blues-rock meticcio”, basato sull’interscambio dei vari strumentisti e le melodie più romantiche di New Beginning,s dalle parti di certe cose di Gary Moore , (altro hendrixiano)ci riportano poi alla iper velocità di una EG Shuffle, di nuovo Johnson/Morse dipendente, per concludere con l’unica cover, una strana, ma affascinante rivisitazione prima acustica e poi elettrica del classico Amazing Grace. Cosa aggiungere? Per chitarrofili incalliti, stop!

Bruno Conti   

Da Omaha, Nebraska Un “Sudista” Convertito! Michael Lee Firkins – Yep

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Michael Lee Firkins – Yep – Magnatude/Magna Carta

Anche se Michael Lee Firkins è sempre stato considerato uno dei nuovi “fenomeni” della chitarra, un axeman funambolico, sin dalla sua apparizione con il primo omonimo album del 1990, pubblicato dalla Shrapnel di Mike Varney, tra critiche e musiche roboanti, capello lungo alla Yingwie Malmsteen (e un po’ anche la musica, stranamente però con echi roots, country e sudisti, un pizzico di Steve Morse, ma vicino pure a Vai e Satriani), ebbene, devo dire che al sottoscritto la sua musica non è mai apparsa irresistibile, pur apprezzandone le indubbie qualità tecniche, mi sembrava sempre “troppa”, non so se mi spiego, non sulla mia lunghezza d’onda. Dopo una decina di anni di onorata carriera Firkins ha avuto una sorta di ripensamento, di “crisi mistica” musicale, si è più volte ritirato nella sua città natale di Omaha, Nebraska, per studiare a fondo la sua musica ed il suo strumento.

E’ emerso una prima volta nel 2007, con l’album Black Light Sonatas che interrompeva il digiuno dei fans che durava dal 1999 del precedente Decomposition e introduceva le prime interessanti variazioni al suo stile; in alcuni brani erano presenti Matt Abts e Andy Hess, praticamente la sezione ritmica dei Gov’t Mule, e alle tastiere sedeva Chuck Leavell (per dirne tre con cui ha suonato, Allman, Stones, Clapton oltre ai suoi Sea Level) e la musica cominciava a dirigersi verso lidi più papabili per i miei gusti, anche se, aggiungo per i “chitarrofili,” nei vari dischi passati di Firkins ci sono fior di cover di Lynyrd Skynyrd, Rick Derringer, naturalmente Jimi Hendrix, ma anche la “Pantera Rosa” di Henry Mancini e Caravan di Duke Ellington, tutte suonate in modo incredibile (forse anche troppo) con la particolare tecnica di Michael Lee che non prevedeva l’uso del plettro, un vero virtuoso in sostanza. In questi anni di studio e ricerca il nostro amico ha “creato” una Reso-Electric Guitar, un incrocio tra una acustica Resonator e il corpo e il collo di una Fender Telecaster una sorta di slide, ma di quelle vigorosamente elettriche. Con undici nuove canzoni, niente cover, ha preso baracca e burattini e si è trasferito a Nashville, negli studi di Johnny Neel, dove lo aspettavano nuovamente Abts, Hess e Leavell, per registrare questa volta tutto il nuovo disco.

Michael Lee Firkins, in questi anni ha lavorato anche molto sulla propria voce e i risultati più che vedersi si sentono, per questo disco sfodera una voce da perfetto southern rocker. Ovviamente non ha perso neppure la sua prodigiosa tecnica, che però viene utilizzata in funzione delle canzoni e non solo per un mero sfoggio di bravura, anche se ci sono molti assolo che vi costringeranno ad andare a ricercare in giro per la stanza la vostra mascella che è caduta per terra per la meraviglia. Dalla Clapton anni’70 meets Allmans dell’iniziale Golden Oldie Jam dove la Reso e la solista di Firkins duettano con lo splendido organo old school di Leavell in modo magistrale e misurato, ho subito capito che questo è un disco ricco della “nostra” musica, spesso realizzato in presa diretta, senza sovra incisioni, con i quattro musicisti registrati live in studio, come nella deliziosa Cajun Boogie, ancora nella migliore tradizione del vecchio southern rock dei primi Lynyrd Skynyrd, già rivisitati da Firkins nel passato,ma qui presi solo come fonte d’ispirazione, sempre con quella solista che scorre velocissima sul groove solidissimo della sua band. No More Angry Man è un altro ottimo esempio del sound “roots” che Firkins per l’occasione riesce a cavare dalle sue chitarre, mentre Standing Ovation ancora con le splendide tastiere di Leavell ad affiancare le evoluzioni della solista ci trasporta sulle onde del miglior rockin’ country di Outlaws o Charlie Daniels Band, ragazzi se filano.

Long Day ci mostra che il musicista del Nebraska padroneggia anche l’arte della ballata, rock, ricca di chitarre e tastiere, ma pur sempre ballata, mentre Wearin’ Black è nuovamente quel country according to Michael Lee Firkins che si lascia ascoltare con piacere. Out Of Season è un’altra ballata mid-tempo sudista in crescendo, con continui spunti chitarristici, come pure Take Me Back, con un bel tessuto sonoro elettroacustico sempre orientato verso gli stati del Sud. Last Call con la sua slide tagliente è decisamente più bluesata, mentre No More Angry Man (Part 2) è un discreto boogie rock con Michael Bland (ex della band di Prince) che sostituisce Abts alla batteria, un po’ scontato, anche se non è che il disco tutto brilli per innovazione, ma non manca di feeling, come dimostra l’atmosferica e “misteriosa” The Cane, peraltro un po’ pretenziosa e che come il brano precedente lascia calare la giusta tensione che sostiene il resto dell’album. Bravo e sorprendente per chi conosceva la produzione precedente, solo del buon sano vecchio rock (anche sudista)!      

Bruno Conti

“Clienti Abituali”, Rivalutati! Stoney Curtis Band – Halo Of Dark Matter

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Stoney Curtis Band – Halo Of Dark Matter – Blues Bureau/Shrapnel

Dopo la buona prova con il Live CD+DVD dello scorso anno ( un-chitarrista-esagerato-stoney-curtis-band-live.html, la Stoney Curtis Band torna con un nuovo album di studio, registrato con una formazione completamente rivoluzionata, ovviamente leader a parte, e con l’aggiunta di un tastierista, per riproporre la consueta miscela di blues, rock, psichedelia anni ’70, omaggi a Hendrix. Il materiale è firmato da Curtis Feliszak (ovvero il nostro amico) e Mike Varney, boss e factotum della Shrapnel, nonché produttore del disco, una dozzina di brani che permettono al musicista, californiano d’adozione, di tuffarsi ancora una volta nelle sue cavalcate chitarristiche.

I nomi di riferimento sono i soliti, vi andate a rileggere le vecchie recensioni e li trovate, comunque per i neofiti, a parte il vate Jimi Hendrix,  il Bonamassa più hard, Blindside Blues Band, Indigenous e Chris Duarte tra i contemporanei, Frank Marino, Ted Nugent, i Mountain tra i vecchi, senza tralasciare Grand Funk e Deep Purple, in questa versione con organo (ma potete aggiungere nomi a piacer vostro), Cream, Bad Company, Free, chi più ne ha più ne metta.

Dalle prime note dell’iniziale Pure Greed all’ultimo secondo di In The Shadows sappiamo cosa aspettarci, chitarre, chitarre e ancora chitarre, con qualche tocco di organo in questa nuova puntata. Il riff è hard, la batteria, tale Jeff Tortora, picchia duro, gli assolo sono all’ordine del giorno e con il classico sound del power rock trio, note lunghe e tirate e pedalare, ogni tanto un wah-wah per gradire, come in Grifter, tra Sabbath, Purple e l’Hendrix meno fine.

Quando i tempi si fanno meno frenetici e più dark, tipo in Life In Odd Times, si affacciano anche elementi psichedelici. Non manca il lungo hard slow blues, con i dieci minuti di Déjà Vu che permettono di apprezzare la buona tecnica chitarristica di Stoney Curtis o il funky-rock vagamente hendrixiano (di nuovo, sì) Drivin’ All Night. Mentre la title-track Halo Of Dark Matter inserisce anche elementi “misteriosi” che spingono verso un rock più progressivo e ricercato, per quanto sempre bello duro, da lì non si scappa. Un po’ di southern boogie à la ZZ Top in Ice Cold Beer con una slide ficcante ed insinuante, a conferma di un certo eclettismo del buon Stoney che poi torna al blues-rock classico della tirata Hard Livin’ o di I Can’t Live This Way, grana grossa ma buone esecuzioni per gli amanti del genere. Una viratina elettro-acustica con la più orecchiabile 7 Wonders Of My World e si conclude quietamente con una bella ballata come In The Shadows, un oasi di tranquillità e melodia, nei vorticosi ritmi ascoltati fin qui. In conclusione e tutto sommato, un buon album di hard rock classico con tutti i requisiti per piacere anche a chi non è un patito del genere.

Bruno Conti

Clienti Abituali! Chris Duarte Group – My Soul Alone

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Chris Duarte Group – My Soul Alone – Blues Bureau/Shrapnel

Chris Duarte procede, con solerte ed inesorabile cadenza (non c’è nessun connotato negativo, solo una constatazione), a pubblicare nuovi album, sempre per la Blues Bureau/Shrapnel di Mike Varney, che si occupa della produzione, come di consueto. Negli ultimi 6 anni ne sono usciti 7 (comprese delle uscite di materiale d’archivio): siamo lontanissimi dalle medie proibitive di Bonamassa, ma per un signore che a febbraio ha compiuto 50 anni (la stessa età della sua Stratocaster), una invidiabile media. Come detto più volte, Duarte è un texano Stevie Ray Vaughaniano e di conseguenza anche un hendrixiano, il suo rock-blues è, diciamo, energico, molto energico, ma ha un suo fedele seguito, magari anche di quelli che dicono che “Hendrix e Stevie Ray Vaughan hanno stufato” ma poi ascoltano i loro epigoni, che poi sono della stessa parrocchia di coloro i quali non ascoltano più Springsteen, “perché non è più come una volta”, salvo poi acquistare i dischi di quelli che lo imitano, spesso malamente.

Questo non è per dire che Chris Duarte sia uno scarso, tutt’altro, ma l’originalità non è più il suo forte, se mai lo è stata, ma per chi segue quella nicchia che è il power guitartrio in ambito rock-blues e non solo, rimane una certezza. My Soul Alone consta di dodici nuove composizioni, tutte firmate dal titolare, che si avvale della classifica formazione triangolare, con Steve Evans al basso e Aaron Haggerty alla batteria. Il disco mi sembra segnali un ritorno a sonorità blues, lontane dalle derive più hard di 396 con i giapponesi Bluestone, gia presenti in Blues In The Afterburner del 2011, il rock è sempre presente ma il disco è più vicino al sound classico degli inizi, quelli più influenzati da Stevie Ray Vaughan, il classico stile texano che attinge anche a ZZTop e altri gruppi della stato della stella solitaria (qui trovate i precedenti (chris+duarte)

La tecnica chitarristica non l’ha certa dimenticata, e tra i discepoli di SRV Duarte è sicuramente uno dei migliori in assoluto, con uno stile molto fluido, scorrevole, caratterizzato da un solismo molto variegato, al solito niente di nuovo, ma suonato con passione e competenza: già dallo shuffle iniziale di Show Me That You Want It, se chiudi gli occhi e non ascolti la voce, ti sembra di ascoltare un disco di Vaughan, impressione ribadita dalla più tirata Yes it’s you ma anche dalle trame più raffinate, tra jazz e psichedelia, di Take Me Now e sublimate nell’ottimo slow blues A Dollar Down And Feeling Low dove la chitarra si arrampica nell’Olimpo dei grandi con classe notevole per poi tornare allo stile tipicamente cadenzato di I Bucket It Up e alle coordinate claptoniane prima maniera, di un brano come Outta My Way dove il suono si incattivisce e Haggerty fa il Ginger Baker della situazione.

Leave My Soul Alone che dà il titolo alla raccolta è un altro slow, questa volta di chiara matrice hendrixiana (Voodoo Chile è lì, appena dietro l’angolo). Sweet Litte Girl più leggera e scanzonata, quasi R&R, avrebbe fatto la gioia dell’altro fratello della famiglia Vaughan, Jimmie. Lazy Afternoon, 11:11 di slow blues alla Ronnie Earl o alla Robillard farà la gioia di chi compra dischi come My Soul Alone anche e soprattutto per questo tipo di brani, e nel CD ce ne sono parecchi. Can’t Shut Me, chitarra e batteria in libertà, ricche di effetti è nuovamente un omaggio all’arte di Jimi mentre Blue Jean Outlaw è un altro lentone di atmosfera, quello peraltro che ti dovresti aspettare, direi per contratto, nei dischi di rock-blues, niente di più niente di meno, suonato come Dio comanda e poi reiterato nelle trame più complesse dello strumentale Carelessness dove compare anche un violino suonato da Mads Tolling che gli dona un’aura quasi jazz-rock alla Flock o alla Mahavishnu per un finale inconsueto. Un disco all’altezza della fama di Chris Duarte, tra i suoi migliori in assoluto.

Bruno Conti

“Esagerati” Ma Bravi! Un Mini Supergruppo. Pinnick Gales Pridgen

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Pinnick Gales Pridgen – Pinnick Gales Pridgen – Magna Carta

Cosa succede se mettiamo insieme dUg (scritto così, sono strani i musicisti!) Pinnick, ex(?) bassista e cantante dei King’s X, gruppo di progressive metal (così è descritto nel sito della Magna Carta, mi adeguo), Eric Gales, chitarrista proveniente da una famiglia di hendrixiani, che recentemente ha pubblicato un ottimo CD+DVD Live, recensito da chi scrive (tra-mancini-ci-si-intende-eric-gales-live.html), per la Blues Bureau/Shrapnel di Mike Varney (che produce anche questo disco) e Thomas Pridgen, ex (lui sì) batterista dei Mars Volta? Il tutto pubblicato da una etichetta specializzata in rock progressivo.  Ovviamente un disco di power-blues-rock-prog-metal-trio. Se non amate le “esagerazioni” potete leggere altro, qui siamo nell’ambito delle sessions che sfociano in supergruppo (sui generis, perché nessuno è famosissimo) alla Chickenfoot o alla Black Country Communion, visto che coinvolgono anche degli ex metallari, per quanto di alto livello tecnico, più o meno pentiti e trascinati nel giro del power trio hard da uno che a merenda mangia Nutella e Jimi Hendrix, non necessariamente nell’ordine.

Una delle altre particolarità è che si tratta di un terzetto dove convivono due neri e uno diciamo “abbronzato” (come direbbe qualcuno di nostra conoscenza), una formazione a cavallo tra Band Of Gypsys e Living Colour e dove nel repertorio, oltre ai loro brani, troviamo Sunshine Of Your Love dei Cream e un brano, For Jasmine, adattato da un tema di Beethoven (sostituite Jasmine con un altro nome femminile e il trucco è svelato). Chitarra, basso e chitarra quasi sempre in overdrive, su una base di blues, diciamo molto energico, prendete ad esempio il tour de force del disco, la lunga, oltre dieci minuti, Been So High (The Only Place To Go Is Down) e sarete sommersi da un torrente di note, che parte con improvvise e ripetute scale alla Page, mentre Pinnick pompa sul suo basso manco fosse Jack Bruce reincarnato e Pridgen, strano caso di batterista ambidestro, pesta di gusto sul suo kit, inutile dire che quando il trio trova un giusto groove lento e minaccioso, ci si trova immersi nel classico hard-rock-blues dei gruppi storici degli anni ’70, i nomi, oltre a quelli fatti, li potete inserire a piacere voi, tenete conto che questi tre a livello tecnico non hanno nulla di invidiare ai loro predecessori, detto con una parola sola: “suonano”!

Eric Gales, come ricordato altre volte, deve avere il pedale del wah-wah inserito direttamente nel tacco della scarpa, ma se il genere piace, è comunque un bel sentire: addirittura nella funky The Greatest Love, scritta da Varney con Gales, il produttore riesce a sovra incidere tre diverse soliste tutte suonate da Eric, anche se il risultato non mi entusiasma, ricorda un Lenny Kravitz iper vitaminizzato. A questo punto se chitarra ha da essere, meglio l’orgia wah-wah di Lascivious anche se, chissà perché, Sunshine Of Your Love, anche in questo stile super heavy ha qualcosa in più degli altri brani. Hang On Big Brother ha qualche deriva psych-prog unita al solito stile decisamente picchiato mentre Black Jeans, ha dei tocchi tra dark e doom, tipo quel gruppo di Birmingham, ce l’ho sulla punta della lingua, Black…black, qualcosa e pure Frightening viene da quelle parti. Se amate il genere, bravi sono bravi, forse anche troppo, alla lunga mi “stancano”.

Bruno Conti

Un Chitarrista “Esagerato”! Stoney Curtis Band – Live

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Stoney Curtis Band – Live – Blues Bureau Int./Shrapnel CD+DVD (Limited Edition)

Nella recensione del precedente CD, Cosmic Conn3ction, della Stoney Curtis Band non ero stato molto tenero, al di là del tributo alla sua consistente perizia tecnica, con la grana eccessivamente grossa di molti episodi che non mi avevano particolarmente convinto (uno-strano-caso-di-omonimia-stoney-curtis-band-cosmic-conn3c.html), ma nella dimensione dal vivo di questo nuovo CD+DVD la componente Blues (molto rock) è più presente, accanto alle solite derive psichedeliche, hendrixiane, alla passione per Stevie Ray Vaughan e per certo Hard-rock nella formula del power trio che è una costante di molti artisti della Shrapnel di Mike Varney e in particolare della etichetta Blues Bureau, dove tra i colleghi di Curtis troviamo gente come Chris Duarte, gli Indigenous, il trio Hidalgo, Nanji e Dickinson, la Blindside Blues Band e tra le vecchie glorie, Leslie West e Rick Derringer, tutta gente che ha sempre saputo coniugare hard rock e blues, ma potrei citare anche gente come Frank Marino o Ted Nugent che negli anni ’70 era molto considerata.

Last Train To Chicago, il primo brano, che appariva nel disco d’esordio della band di Stoney Curtis, ha quel drive ritmico molto tirato e un solismo esagerato, quasi frenetico, dove potrebbe servire una nota, il nostro amico ce ne infila una cinquantina, il pedale del wah-wah è in azione spesso e volentieri, ma la musica è viva e vibrante, già sentita mille volte ma eseguita con passione. Anche Evil Woman in origine appariva sul primo album del gruppo, quell’Acid Blues Experience registrato negli studi di Alan Mirikitani, conosciuto anche come B.B. Chung King e factotum dei Buddaheads, altra band che si cimenta spesso in questo hard blues dalle tinte forti e il cui leader è un altro chitarrista dalla tecnica sopraffina. Stoney Curtis per certi versi si può accostare pure a Bugs Henderson, un altro personaggio che nella dimensione Live (ma pure in studio) ti sommerge sotto una montagna di assoli, uno in fila all’altro senza pause e requie per l’ascoltatore, che se però è un appassionato del genere può solo apprezzare, come nella violentissima American Lady. When The Sweet Turns To Sour è uno slow blues torrenziale, tra i migliori brani di Cosmic Connection, molto ispirato dallo stile di SRV e per conseguenza di Hendrix, la chitarra viaggia ma si gusta anche la costruzione del brano, con i continui picchi qualitativi sottolineati dalla ottima sezione ritmica, Aaron Haggerty alla batteria e Steve Evans al basso. Perché mi dicono qualcosa? Ohibò, ma sono gli stessi dell’ultimo disco di Eric Gales, evidentemente, per risparmiare, in queste registrazioni live destinate a essere pubblicate come combo CD+DVD usano sempre loro. Il risultato è che il suono di molti dei musicisti della scuderia Blues Bureau inevitabilmente finisce per assomigliarsi, ma il genere quello è, più che la varietà contano la bravura e l’energia.

Behind The Sun è il brano che più si avvicina al Jimi Hendrix psichedelico e spaziale, una cavalcata di quasi dieci minuti, ricca di effetti e dalle atmosfere sognanti, mentre That’s Right, dai ritmi veloci e picchiati, è più immediata nelle sue tematiche boogie rock. Un altro slow blues notevole come Blues Without You ci permette di apprezzare ancora una volta la propensione per i lunghi assoli tipica della musica di Stoney Curtis. Rivisitazione delle dodici battute classiche che prosegue in Eli’s Blues, altro esempio del suo stile potente e privo magari di finezza ma non di tecnica, che non sono la stessa cosa. The Letter, forse per smentirmi, è un brano quasi dolce, con una bella costruzione melodica, cantato molto bene e senza smentire le sue propensioni per un rock-blues più tirato mostra una sfaccettatura inconsueta del personaggio. Che poi nella conclusiva Soul Flower innesta ancora il pedale wah-wah a manetta e si sfoga senza pietà. Di Curtis continuo a preferire Tony, ma devo ammettere che questo disco dal vivo, per chi ama il suo Blues molto, ma molto, Rock e pure hard, un suo perché ce l’ha. Basta saperlo!

Bruno Conti