“Nuovi” Dischi Live Dal Passato 4. Mike Bloomfield – Late At Night: McCabe’s January 1, 1977

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Mike Bloomfield – Late At Night: McCabe’s January 1, 1977 – RockBeat CD

A parte lo splendido cofanetto retrospettivo del 2014 From His Head To His Heart To His Hands, negli ultimi anni sono usciti numerosi concerti postumi del grande Mike Bloomfield, quasi tutti di ottima qualità anche se molti di essi dalla legalità dubbia, l’ultimo dei quali è questo Late At Night: McCabe’s January 1, 1977, pubblicato circa tre mesi fa. Se il nome del luogo vi suona familiare, è perché nel 2017 era uscito Live At McCabe’s Guitar Shop, January 1, 1977, che prendeva in esame un concerto pomeridiano che il grande chitarrista di Chicago aveva tenuto nel famoso negozio di strumenti musicali di Santa Monica (un sobborgo di Los Angeles), mentre quello di cui mi accingo a parlare documenta lo show serale (una volta era pratica comune per gli artisti suonare due spettacoli al giorno). C’è da dire che i due set non sono sovrapponibili, in quanto Bloomfield aveva suonato due scalette completamente diverse, e lo show pomeridiano era perlopiù elettrico, mentre questo Late At Night ha una prima parte acustica.

mike bloomfield i'm with you always

C’è però una magagna, e neanche tanto piccola: i musicofili più attenti, o i fans di Mike, avranno già sentito puzza di bruciato, e ciò è dovuto al fatto che questo spettacolo serale era già uscito ufficialmente alcuni anni fa con il titolo di I’m With You Always, stesse canzoni ma poste in ordine diverso, e la RockBeat (etichetta che spesso si muove ai confini della legalità, un po’ come la label preferita da Bruno, la Cleopatra) non ha fatto altro che ripubblicarlo cambiando il titolo, ma guardandosi bene da specificarlo nelle note del CD (*NDB Edizioni in CD della Demon o della americana Benchmark, ancora disponibile, per chi vuole l’originale). Per me non è un problema, dato che non possiedo I’m With You Always, ma per chi ce l’ha questo Late At Night è un acquisto perfettamente inutile, anche se sul retro di copertina viene annunciato in pompa magna che i nastri sono stati restaurati digitalmente (ho qualche dubbio, anche se il suono è comunque ottimo). Dal punto di vista artistico, il CD è comunque di quelli da non perdere (se non avete già I’m With You Always, ripeto), in quanto siamo di fronte ad uno dei migliori chitarristi di sempre, uno che suonava davvero con l’anima, e lo ha sempre fatto in tutte le sue configurazioni (The Paul Butterfield Blues Band, The Electric Flag, nelle collaborazioni con Al Kooper, Barry Goldberg ed altri, da solista e come sessionman), fino alla tragica scomparsa per overdose nel 1981 a soli 38 anni.

E tutto ciò viene confermato da questo breve concerto (tre quarti d’ora circa), nel quale Mike dimostra di non essere solo un grande della chitarra elettrica, ma anche abilissimo con l’acustica: la prima parte infatti vede Bloomfield da solo sul palco che fa vedere la sua maestria anche con la spina staccata, sette brani di stampo più folk che blues, con il pubblico che ascolta rapito ed in religioso silenzio. Basta sentire il brano d’apertura per rendersene conto: Hymn Tune (tradizionale come tutte le canzoni di questa parte “unplugged”, tranne una) è uno strumentale dal delizioso sapore folk, in cui Mike si mette sullo stesso piano di grandissimi della chitarra acustica come John Fahey e Leo Kottke, pura poesia musicale. La famosa Frankie And Johnny, un brano che hanno fatto in mille, è resa in maniera vivace anche se in “splendid isolation”, e Mike mostra di non essere male neanche come cantante (ma sentite le sue dita), I’m With You Always è un altro splendido pezzo tra folk e blues, sembra Mississippi John Hurt, mentre Some Of These Days ha il sentore di una canzone presa da un vecchio padellone degli anni trenta, con il nostro che sembra avere sei mani.

La parte acustica si chiude con l’antica Stagger Lee, rilettura pura, cristallina e dal feeling formidabile, il country-blues Darktown Strutter’s Ball e la divertente I’m Glad I’m Jewish, un brano autoironico scritto da Mike e accolto con risate e applausi. Nella seconda parte dello show Bloomfield viene raggiunto dal grande Mark Naftalin al pianoforte, da Buell Neidlinger (Frank Zappa, Gil Evans e Tony Bennett) al basso e Buddy Helm (Tim Buckley) alla batteria: quattro pezzi in totale, che iniziano con un medley tra Jockey Blues e Old Folks Boogie, solo Mike e Mark, chitarra elettrica in tiro e Naftalin che spolvera la tastiera del piano con classe sopraffina. La sezione rimica si unisce ai due a partire dalla nota Eyesight To The Blind (di Sonny Boy Williamson ma resa popolare dagli Who che l’avevano inclusa in Tommy), versione strepitosa, grandissimo blues con chitarra e piano ancora protagonisti indiscussi, una goduria. Il finale è appannaggio della gradevole Don’t You Lie To Me, blues di gran classe e dal mood quasi jazzato, con i quattro che suonano in scioltezza, e di una solida resa di A-Flat Boogaloo, puro Chicago blues elettrico ancora con un sontuoso Naftalin.

Nonostante la “furbata” della RockBeat di cui vi dicevo prima, Late At Night è un live imperdibile: ma controllate comunque di non possederlo già con un altro titolo.

Marco Verdi

La “Strana” Coppia Ci Riprova…E Fa Centro! Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land

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Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land – Anti CD

Ho sempre ritenuto Ben Harper potenzialmente un ottimo artista, ma che non aveva mai espresso pienamente le sue qualità, a cominciare dalla mancata conferma di quanto di buono aveva lasciato intravedere con il suo esordio del 1994 Welcome To The Cruel World. Certo, Ben ha all’attivo diversi dischi di buon livello (i miei preferiti sono Lifeline, l’ottimo There Will Be A Light, inciso con i Blind Boys Of Alabama, e Live From Mars, inciso dal vivo), ma mi ha sempre dato la sensazione di non essere in grado di fare l’ultimo passo, il salto giusto che lo avrebbe fatto passare nella categoria degli artisti di cui fidarsi a scatola chiusa. Il talento c’è sempre stato, ma non è mai stato supportato dalla continuità nelle prestazioni, ed ultimamente si notava nei suoi dischi anche una certa stanchezza compositiva. Anche Get Up!, l’album inciso insieme al grande bluesman Charlie Musselwhite nel 2013, risentiva di questi problemi: un buon disco, ma non un grande disco, con il suono giusto ma non sempre con canzoni all’altezza. Oggi i due ci riprovano, e devo dire che, nella sua estrema sintesi (dura solo 35 minuti), No Mercy In This Land è un album nettamente più riuscito del suo predecessore, e concorre addirittura per essere eletto come uno dei più belli in assoluto di Harper.

Il suono è ancora migliore che in Get Up!, la produzione, nelle mani di Ben stesso insieme ai musicisti che lo accompagnano (Jason Mozersky alla chitarra, Jesse Ingalls al basso, piano ed organo, e Jimmy Paxson alla batteria), è perfetta, ma quello che marca la netta differenza è la qualità delle canzoni (tutte originali). No Mercy In This Land è un disco serio e fatto con cognizione di causa, decisamente blues, molto di più di qualunque cosa Ben avesse fatto finora: Harper ha sempre avuto il blues nel sangue, ma nemmeno Get Up! era così spostato verso la musica del diavolo, e se ci mettiamo il netto miglioramento della qualità dei brani capirete il perché del mio giudizio. Ho lasciato volutamente per ultima la figura di Musselwhite, che non interviene né in veste di songwriter né in quella di cantante (tranne che in un caso), e si “limita” a suonare l’armonica, ma sbagliate se pensate ad un ruolo marginale: infatti la sua presenza è di grande ispirazione per Harper, e poi stiamo parlando di uno dei re assoluti dell’armonica blues, uno che è capace di trasformare una canzone solo soffiando nel suo strumento, diventando una colonna portante nell’economia sonora di qualsiasi disco lo veda protagonista. Dieci canzoni all’insegna del blues più profondo, con Ben e Charlie che si divertono con i rispettivi strumenti (Harper è anche un valido chitarrista), a partire dall’iniziale When I Go, che in avvio sembra una messa cantata, ma poi entra la chitarra di Harper, con l’armonica di Musselwhite che dona poche ma significative pennellate ed una sezione ritmica decisamente pressante, per un bluesaccio cadenzato e ad alto tasso di intensità.

Bad Habits è puro blues Chicago-style, nella tradizione dei grandi: ritmo saltellante, bella voce e chitarra ancora meglio, con la ciliegina di Charlie che riffa alla grande col suo strumento. Love And Trust, dedicata a Mavis Staples, è un blues acustico ruspante e diretto, con Charlie indispensabile nell’economia del suono ed un tocco soul che non guasta; The Bottle Wins Again è uno splendido e sanguigno boogie dal riff di armonica insistito ed un’ottima prestazione da parte della band, con Ben ovviamente in testa, ed è tra le più coinvolgenti del CD, mentre Found The One è un vivace pezzo dal ritmo spezzettato ed un grandissimo Musselwhite. When Love Is Not Enough alza momentaneamente il piede dal blues per offrirci uno slow dal sapore soul, davvero intenso (ed è in brani come questo che si nota la crescita di Harper come autore); Trust You To Dig My Grave è un folk-blues acustico d’altri tempi, alla Mississippi John Hurt, mentre la title track è un blues purissimo ridotto all’osso, con le due voci (qui infatti canta anche Charlie) che si intendono alla grande ed anche l’intreccio tra chitarre ed armonica è perfetto. Chiudono un disco eccellente la tonica e trascinante Movin’ On, altro boogie ad alta temperatura, e Nothing At All, evocativa ballata soul che profuma di bei tempi andati.

Finalmente un gran bel disco da parte di Ben Harper, anche se c’è da dire che senza la presenza di Charlie Musselwhite il risultato non sarebbe stato lo stesso.

Marco Verdi

Chiamatelo Pure “Mississippi John Oates”! John Oates – Arkansas

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John Oates With The Good Road Band – Arkansas – PS/Thirty Tigers CD

Non avrei mai pensato che nella mia umile carriera di critico e recensore avrei un giorno parlato di un album di John Oates, che insieme a Daryl Hall andava a formare Hall & Oates, un duo tra i più di successo di tutti i tempi, che negli anni settanta ed ottanta ha venduto vagonate di dischi all’insegna di un “Philly Sound” decisamente annacquato, una miscela all’acqua di rose di soul, errebi e pop molto commerciale e lontano anni luce dai gusti del sottoscritto. Ma gli americani hanno sempre in serbo delle sorprese, e così come un attore conosciuto per i suoi ruoli comici anche al limite dell’idiota al primo ruolo drammatico sfodera una prestazione da Oscar (il riferimento è al Jim Carrey di The Truman Show, secondo me uno dei più bei film di sempre, ma la storia di Hollywood è piena di esempi in tal senso), allo stesso modo un artista che ha passato la vita a fare musica per vendere a palate, arriva ad un certo punto in cui decide di pubblicare album di ben altro spessore artistico. Oates ha iniziato a fare dischi da solista solo nel nuovo millennio (il suo sodalizio con Hall parrebbe giunto al capolinea), avvicinandosi sempre di più al suono Americana, influenzato dalle canzoni che fanno parte del songbook dei suoi avi, ma è con il nuovissimo Arkansas che ha fatto bingo, trovando un disco che mi ha lasciato a bocca aperta, quasi un capolavoro che assolutamente non pensavo fosse nelle sue corde.

Arkansas è un chiaro omaggio di Oates prima di tutto al suono di Mississippi John Hurt, una leggenda del folk-blues acustico che da sempre è uno dei suoi preferiti (anche se negli anni settanta non si sarebbe detto), fino al punto di aver voluto acquistare ad un’asta la chitarra che Hurt usò durante il Festival di Newport del 1964 (anche se l’acquisto è avvenuto a disco terminato, e quindi non ha fatto in tempo ad usarla). Ma John allarga il raggio, e con questo lavoro omaggia canzoni che hanno anche più di un secolo sulle spalle, alcune molto note altre decisamente oscure, e completa il tutto con due pezzi nuovi di zecca ma scritti nello stesso mood. Come ciliegina, John (che suona la chitarra acustica e canta con una voce arrochita e non molto familiare, anche perché quello del duo che cantava era Hall) si è fatto accompagnare da un gruppo formidabile, The Good Road Band, un combo di fuoriclasse del calibro di Sam Bush (mandolino), Guthrie Trapp (chitarra elettrica), Russ Pahl (steel), Steve Mackey (basso), Josh Day (batteria), Nathaniel Smith (cello), che si occupano anche di saltuari backing vocals quando si tratta di dare un tono gospel ai brani. Un grande disco dunque, una miscela vincente di folk, country, rock, blues ed old time music, suonata con una classe sopraffina e con l’attitudine da veri pickers: 34 minuti scarsi di musica, ma tutta ad altissimo livello.

Splendido l’inizio: Anytime, un brano del quasi dimenticato Emmett Miller (un musicista da circo degli anni venti), è un pickin’ country decisamente d’altri tempi, suonato con uno stile alla Bill Monroe e con deliziosi interventi di mandolino e chitarra elettrica, e con la voce roca di John che si integra alla perfezione. Arkansas è il primo dei due pezzi scritti dal nostro, una folk ballad elettrificata decisamente vibrante e con accenni gospel: il songwriting è moderno ma l’accompagnamento no, anche se c’è una bella slide che porta il suono ai confini del rock. Splendida My Creole Belle, un brano attribuito a Mississippi John Hurt (una volta si usava prendere dei brani dalla tradizione, cambiare qualche parola e spacciarli per autografi), uno scintillante folk-blues con il solito cocktail vincente di strumenti a corda ed un coinvolgente botta e risposta voce-coro; Pallet Soft And Low, un traditional, è parecchio bluesata, sa di polvere e fango e sembra provenire dal delta del Mississippi, con uno splendido lavoro all’elettrica di Trapp, per sei minuti tutti da godere (è la più lunga). Non poteva mancare Jimmie Rodgers: Miss The Mississippi And You, pur non essendo stata scritta da lui, è uno dei brani simbolo del “singing brakeman”, e John ne offre una rilettura molto old-fashioned, lenta e decisamente raffinata, tutta suonata in punta di dita; il famoso traditional Stack O Lee, ripreso negli anni da un sacco di gente, ha qui un trattamento regale, tra country e folk, con il solito pickin’ d’alta classe ed una sezione ritmica discreta ma spedita.

That’ll Never Happen No More è un’oscura canzone dell’ancora più oscuro Blind Blake, riproposta da Oates e compagni con un delizioso sapore dixieland pur in assenza di strumenti a fiato, mentre Dig Back Deep è il secondo pezzo originale, uno splendido e trascinante brano elettrico tra boogie e gospel, intriso a fondo di atmosfere sudiste. Il CD si chiude con Lord Send Me, altra bellissima canzone tradizionale che mischia alla grande folk, gospel e bluegrass, suonata anch’essa in maniera strepitosa, e con Spike Driver Blues, altro pezzo del repertorio di John Hurt, pura e limpida come l’acqua di montagna, solo John e due chitarre acustiche. Un disco splendido e sorprendente, tra i più belli di questi primi due mesi dell’anno, che probabilmente ritroveremo nelle liste di Dicembre.

Marco Verdi

Un Viaggio Affascinante Lungo Le “Strade Per La Libertà”! Rhiannon Giddens – Freedom Highway

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Rhiannon Giddens – Freedom Highway – Nonesuch/Warner

Rhiannon è una divinità della mitologia gallese, o per i più prosaici una bellissima canzone scritta da Stevie Nicks per l’omonimo album dei Fleetwood Mac: ma è anche il nome di battesimo di una delle più interessanti voci espresse dalla musica americana roots, vogliamo dire folk-blues-gospel-bluegrass-soul, e lasciamo fuori qualcosa. Rhiannon Giddens, è la leader e fondatrice dei Carolina Chocolate Drops, band di old time e Americana music, al momento in pausa di riflessione, ma in teoria ancora attivi, non per nulla gli attuali altri tre componenti del gruppo appaiono tutti  in alcuni brani di questo Freedom Highway: Malcolm Parson, al cello, Hubby Jenkins al mandolino e banjo, e Rowan Corbett alle armonie vocali e percussioni (“ossa” per la precisione). Ma la Giddens, già da qualche anno ha intrapreso anche una carriera solista parallela, che fino ad ora ha fruttato un bellissimo album, Tomorrow Is My Turn, prodotto da T-Bone Burnett, e nominato per il Grammy categoria Folk nel 2015, oltre a due EP, e varie partecipazioni, tra cui le più significative, quella a Another Day, Another Time: Celebrating the Music of Inside Llewyn Davis, Look Again to the Wind: Johnny Cash’s Bitter Tears Revisited, e forse la più sostanziosa, insieme a Elvis Costello, Marcus Mumford, Taylor Goldsmith e Jim James a Lost on the River: The New Basement Tapes, l’album con i testi inediti di Dylan.

Nel frattempo ha lavorato alla preparazione di questo Freedom Highway, che a differenza del precedente, dove appariva un solo brano a firma della Giddens, contiene ben 9 brani della stessa, da sola o con altri autori, principalmente con il co-produttore dell’album, Dirk Powell, che suona anche una infinità di strumenti nell’album. Ci sono anche tre cover nel CD, e le vediamo tra un attimo, ma lasciatemi dire subito che l’album è molto bello, non si sente assolutamente la mancanza di Burnett, anzi. Ispirato dalle narrazioni degli schiavi nell’America del 1800, ma anche degli Afro-americani del secolo scorso, dalle marce per i diritti sociali degli anni ’60, nonché da quello che succede oggi nelle strade di Baltimore e Ferguson, il disco ha quindi un tema unitario di fondo a livello di testi, ma musicalmente è molto ricco e corposo e vario nelle sue inflessioni e influenze molto diversificate: che vanno dal folk-gospel cadenzato dell’iniziale At The Purchaser’s Option, uno dei brani dove si sente di più il suo banjo, affiancato comunque da due mandolini, un cello, ma anche da una sezione ritmica che scandisce il tempo, mentre la voce chiara, limpida e ridondante di Rhiannon Giddens, intona con timbro dolente tutte le nefandezze che venivano compiute ai danni gli schiavi di colore dai loro proprietari bianchi, nelle piantagioni dell’ottocento; a seguire il puro country-blues di The Angel Laid Him Away un brano di Mississippi John Hurt che viene riproposto nella classica formula del bluesman nero, solo una voce e una chitarra acustica.

Torna il banjo pizzicato ad aprire Julia, caratterizzata da una rara, anzi direi unica, apparizione del violino, suonato da Powell, mentre il ritmo è scandito anche dal basso, per un brano che si avvicina molto ad  un’altra delle grandi passioni della Giddens, il folk celtico, rivisitato in questo reel molto rigoroso che ricorda il suono dei primissimi Steeleye Span. La successiva Birmingham Sunday è una delle canzoni più belle di questo album: scritta dal grande Richard Farina nell’epoca delle marce civili e delle canzoni di protesta, si avvale di un arrangiamento splendido, un pianoforte apre la melodia, entra subito un organo Hammond suonato da Eric Adcock, l’elettrica di Powell, percussioni varie e un coro maestoso che caratterizza questa sontuosa gospel soul ballad, costruita su un crescendo lento ma inarrestabile, con Rhiannon che ci regala una delle interpretazioni vocali più intense del disco. Molto bella anche Better Get It Right The First Time, scritta dalla Giddens e da Powell, con l’aiuto del nipote di Rhiannon, Justin Harrington, che nella parte centrale del brano intona un rap, per una volta usato in modo proficuo, accentua anziché distrarre o volere essere protagonista in modo inutile, anche il resto dell’arrangiamento è incalzante, con l’uso di una ampia sezione fiati, la chitarra di Powell che fa il Pop Staples della situazione e un call and response di grande efficacia con le altre voci utilizzate. We Could Fly potrebbe essere quasi una canzone della Joan Baez anni ’60, la voce sempre potente e limpida, sorretta solo da una chitarra acustica e da una elettrica appena accennata, con Lalenja Harrington (altra nipote?) voce di supporto, mentre Hey Bébé si avvale di un banjo pizzicato, una tromba con la sordina, Alphonso Horne, una batteria spazzolata, per un tuffo nelle strade di New Orleans, e una incursione nel dixieland (e comunque l’album è stato registrato ai Breaux Bride Studios situati a due passi, in Louisiana), la voce è più “birichina” e disincantata.

Molto intensa anche Come Love Come la storia di una giovane schiava che perde entrambi i genitori, ma trova un uomo che starà al suo fianco nella ritrovata libertà, con una musica incentrata attorno all’elettrica “acida” di Powell, un doppio banjo pizzicato, la sezione ritmica quasi marziale, per uno splendido ed intenso blues dove si apprezzano anche le armonie vocali di Rowan Corbett, quindi un brano dove appaiono gli attuali Carolina Chocolate Drops al completo, visto che c’è anche il cello di Parson. Altro brano con chiare influenze New Orleans è l’eccellente The Love We Almost Had, scritta con Bhi Bhiman, ottimo cantautore di St. Louis (ma dalle chiare ascendenze dello Shri Lanka, da cui provengono i due genitori) http://discoclub.myblog.it/2012/09/09/un-musicista-dallo-sri-lanka-questo-mancava-bhi-bhiman-bhima/ , con cui la Giddens aveva già collaborato in passato e di cui di nuovo tra un attimo, interessante comunque l’interagire tra il mellifluo soprano di Rhiannon, la tromba di Horne e il piano di Powell. Baby Boy prevede la presenza del cello con archetto e delle armonie vocali della vecchia compagna di avventure nei CCD Leyla McCalla, che duetta con il banjo e la voce della Giddens, che si intreccia anche con quella di Lalenja Harrington, per un brano che ricorda una ninna nanna molto “buia” e pessimista, per quanto affascinante nella sua crudezza. Following The North Star, solo con il banjo e le “ossa” di Corbett, è un breve strumentale che ci introduce ad un altro dei pezzi forti dell’album, una versione magistrale del classico degli Staples Singers Freedom Highway, ‘un’altra canzone di protesta che è però sorretta anche da un impianto gospel soul incalzante, con la voce duettante di Bhi Bhiman, anche alla chitarra elettrica, la voce solista alla Mavis Staples di Rhiannon Giddens, hammond e wurlitzer che se la battono con i fiati, soprattutto la tromba scatenata, per circondare le voci “esultanti” dei due protagonisti. E visto che i salmi finiscono in gloria così pure è il caso per questo ottimo Freedom Highway. Esce venerdì 24 febbraio, fatevi un appunto.

Bruno Conti

Una Delle “Signore” Del Blues Bianco. Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White

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Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White — Stony Plain/Ird                          

Rory Block è certamente una delle “signore” del Blues bianco, ma è anche una delle più rigorose e fervide portatrici della tradizione delle 12 battute, tra coloro che più si battono per preservarne la memoria tra gli ascoltatori e gli appassionati. Ormai non più giovanissima (come Springsteen è del 1949), ma dalla foto di copertina i suoi 67 anni li porta veramente bene, ciò non di meno è sulle scene dal 1965 circa, quando poco più che quindicenne decise che quella sarebbe stata la sua musica: prima frequentando i locali dove si esibivano gli ultimi giganti del folk blues acustico, gente come Mississippi John Hurt, Reverend Gary Davis, Son House, Skip James, Mississippi Fred McDowell,  a cui ha dedicato i suoi album della cosiddetta “Mentor Series”, incentrata su questi grandi e che ora si arricchisce di un nuovo capitolo, sempre pubblicato dalla Stony Plain, ma in precedenza la Block aveva inciso The Lady And Mr. Johnson, dedicato a Robert Johnson. Come al solito questo Keepin’ Outta Trouble è registrato in solitaria da Rory Block, voce e chitarra acustica (e qualche percussione sparsa), caratteristica che è il grande pregio di tutta la serie, rigorosa e filologica, ma in parte ne è anche il “piccolo” difetto, se uno non è un grande fan del Country Blues, alla fine potrebbe trovare i vari volumi ripetitivi e un filo noiosi.

Potrebbe, ma non è detto, perché comunque la nostra amica è in possesso di una bella voce (temprata da oltre 50 anni di dischi, il primo uscito nel lontano 1967) e a fianco dei vari brani pescati dal repertorio di questi grandi bluesmen, inserisce sempre qualche canzone scritta da lei e ispirata dalle storie di questi musicisti. Nel caso di Bukka White, forse uno dei meno conosciuti tra quelli citati finora, sono le prime due tracce, una sorta di preludio alle canzoni originali: Keepin’ Outta Trouble e Bukka’s Day sono delle piccole biografie in musica, su cui poi si innestano Parchman Farm Blues e Fixin’ To Die, quest’ultima riscoperta da Bob Dylan nel suo primo album (sia pure come sempre riadattata a modo suo) e poi ripresa, sotto varie forme, dai Led Zeppelin, da Plant come solista, dagli Avett Brothers in una collaborazione con G Love, e da altri. Tra i brani celebri mancano Shake ‘Em On Down, che nell’interpretazione di Eddie Taylor diventerà Ride ‘Em On Down, e appare anche nel nuovo degli Stones, come pure Po’ Boy, che con il titolo Poor Boy  e similari, è stata incisa in decine di versioni, prima e dopo quella di White. Rory Block si conferma chitarrista sopraffina, anche nell’uso della slide acustica, come nell’iniziale Keepin’ Outta Trouble, oltre che vocalist superba, una voce temprata dal tempo, ma sempre limpida e fresca come quella di una ragazzina, ottima narratrice di storie, in grado di arrangiare i suoi brani in solitaria, con un tocco di modernità, anche grazie al multitracking di sé stessa. Voce che tocca anche falsetti deliziosi, quasi di stampo gospel o soul, come nella successiva Bukka’s Day.

Dopo i due brani composti per l’occasione dalla nostra amica si passa a Aberdeen Mississippi Blues il primo dei classici di Bukka White (che forse molti non sanno, era cugino di B.B. King), dedicato alla sua città natale, un classico country blues rurale incalzante e ricco di variazioni chitarristiche, a seguire Fixin’ To Die Blues, il brano che più di tutti rimane legato al mito di Booker White, un complesso, elegante ed intenso brano, classico Delta blues, con le percussioni, suonate dalla stessa Block che fanno le veci del washboard, mentre Rory la canta con grande forza ed intensità, sempre con eccellente uso della slide acustica (che nell’originale del 1940 era quella presa in prestito da Big Bill Broonzy). Ottima versione anche del talkin’ blues Panama Limited, mentre Parchman Farm Blues narra della detenzione di Bukka nel famoso (e famigerato) penitenziario dello Stato del Mississippi, dove il nostro passò circa due anni e mezzo, prima di essere rilasciato, proprio nel 1940, in occasione delle sue registrazioni a Chicago di quell’anno. La versione della Block è una delle più vivide ed intense del disco, sempre con lo splendido dualismo tra voce e slide acustica, come pure per la successiva tambureggiante Spooky Rhythm. New Frisco Train è tra le prime registrazioni del bluesman nero, viene dalle incisioni per la RCA Victor del 1930, quindi molto prima di Robert Johnson, e la versione della musicista di NY è sempre rigorosa, ma comunque ricca di variazioni e vitale. Anche le ultime due tracce, Gonna Be Some Walkin’ Done e soprattutto Back To Memphis, confermano il valore e la bravura di questa paladina del country blues che si è presa, come dice lei stessa nelle note, l’impegno di diffondere l’eredità di questa musica che è in parte cantare, in parte “parlare”, ma anche testimoniare e danzare. E forse, a dispetto di quanto detto da chi scrive, meriterebbe un giudizio ancora più favorevole, per quanto  limitato agli “adepti”. Tanto di cappello!

Bruno Conti         

Molto Più Che Un “Altro” Disco Di Jerry Garcia! Hart Valley Drifters – Folk Time

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Hart Valley Drifters – Folk Time – ATO CD

Sappiamo benissimo che le radici di Jerry Garcia sono da ricercare nella tradizione folk, blues e bluegrass, influenze palesate saltuariamente con i Grateful Dead ed in maniera più netta prima negli anni settanta con gli Old & In The Way e con i New Riders Of The Purple Sage, e poi negli anni ottanta ed i primi novanta con gli splendidi dischi acustici in duo con David Grisman, ma anche con i live della Jerry Garcia Acoustic Band. Si pensava che queste influenze fossero tutte da ricercare nel disco inciso nel 1964 e pubblicato solo nel 1999 con i Mother McCree’s Uptown Jug Champions, band giovanile nella quale militavano anche i futuri compagni nei Dead Bob Weir e Ron “Pigpen” McKernan, un combo votato al recupero di brani della tradizione folk e blues, che ebbe un’importanza fondamentale nella formazione musicale del nostro. Si sapeva altresì che quella non era la prima esperienza di Jerry, dato che due anni prima era stato brevemente il leader di un quintetto denominato Hart Valley Drifters, dei quali però non si conosceva nulla, e neppure tra i più avidi fans dei Dead erano mai circolati nastri o bootleg riconducibili al fantomatico gruppo. Nel 2008, però, tale Brian Miksis (un tecnico del suono cinematografico conosciuto perlopiù in ambienti indipendenti) si imbatté in un nastro che riproduceva una session del 1962 degli HVD (registrata in mono presso la stazione radio KZSU  della Stanford University), con diciassette brani mai ascoltati prima: un ritrovamento eccezionale, del quale adesso abbiamo finalmente la possibilità di godere anche noi, grazie a questo splendido dischetto intitolato Folk Time e pubblicato dalla ATO Records sotto l’egida della Jerry Garcia Estate, un prodotto ufficiale quindi (e con le liner notes scritte proprio da Miksis).

Ma non è solo la scoperta in sé ad essere straordinaria (dopotutto, siamo di fronte alle prime incisioni in assoluto di uno dei musicisti più importanti del secolo scorso), ma anche la qualità del contenuto: Jerry, ad appena vent’anni, era già uno strumentista eccellente (qui canta, suona la chitarra acustica ed il banjo), ed il fatto di vederlo direttamente alle prese con il materiale che formerà il suo background musicale non ha prezzo. In più, troviamo tra i suoi compagni di viaggio due personaggi che in futuro incrocerà di nuovo, come Robert Hunter (qui al basso), che sarà il suo paroliere per tutta la carriera, ed il secondo chitarrista David Nelson, che fonderà nei seventies i già citati New Riders Of The Purple Sage (gli altri due membri del gruppo, il banjoista e violinista Ken Frankel ed il dobroista Norm Van Maastricht, pur continuando a suonare anche in seguito, hanno fatto perdere velocemente le proprie tracce). Folk Time è quindi una vera miniera d’oro per i fans di Garcia, ma anche per gli amanti del folk più puro, quarantadue minuti di musica sublime ed eseguita con una forza ed un feeling che sembra impossibile trovare in musicisti ventenni: i brani ( traditionals o cover di classici del folk, country o blues) sono tutti abbastanza brevi e diretti, niente a che vedere con le lunghe jam che Jerry affronterà in seguito con i Dead, ma proprio per questo ancora più godibili. E ho tenuto per ultima la cosa forse più impressionante di tutte: la qualità dell’incisione, davvero incredibile per pulizia, purezza e brillantezza, quasi fossero registrazioni di qualche mese fa, merito sicuramente del produttore e curatore del progetto Marc Allan (mentre le sessions originali erano state prodotte da Ted Claire), che ha dato a queste canzoni un suono veramente splendido, roba da non credere.

Dopo una breve e scherzosa auto-presentazione dei membri della band, si parte con una stupenda versione del traditional Roving Gambler, dominato dal banjo ma anche con tutti gli altri strumenti in grande spolvero, e Garcia vocalmente già maturo: gran ritmo, pur senza batteria, e performance cristallina. E, ripeto, incisione spettacolare, sembra incredibile che queste registrazioni siano rimaste sconosciute per decenni. Ground Speed è un breve e ficcante bluegrass (scritto da Earl Scruggs), un minuto e mezzo di musica suonata a velocità vorticosa, mentre Pig In A Pen, che rimane in territori bluegrass, offre una melodia corale classica, ed è eseguita anch’essa con forza straordinaria. Ed il livello rimane questo per tutta la durata del CD, con punte di eccellenza assoluta per il bellissimo folk-gospel Standing In The Need Of A Prayer, lo strumentale Flint Hill Special, con Jerry strepitoso al banjo e Nelson che non è da meno alla chitarra, il noto traditional Nine Pound Hammer, in una rilettura decisamente vigorosa, o ancora Handsome Molly, proposta in modo puro e delizioso. C’è spazio anche per un omaggio a Ralph Stanley, con la breve ma intensa Clinch Mountain Backstep, e per il fratello Carter, con una formidabile Think Of What You’ve Done, ancora con Garcia grandissimo al banjo; All The Good Times Have Past And Gone è un’altra folk song purissima, dal motivo scintillante ed eseguita alla grande, così come la saltellante Billy Grimes, The Rover, dal sapore irish, o la malinconica Sugar Baby, con il violino di Frankel sugli scudi. Il CD si chiude con la nota Sitting On Top Of The World (l’hanno fatta anche i Dead), in una versione folk-blues strepitosa, alla Mississippi John Hurt, davvero da brividi lungo la schiena, che rivela (ma non ce n’era bisogno) che Garcia era già un musicista straordinario.

Tecnicamente Folk Time non è una ristampa, essendo composto interamente da brani inediti, e quindi non ho nessuna remora a definirlo, anche per la sua importanza storica, il disco folk dell’anno.

Marco Verdi

*NDB Ora attendiamo qualche bella jam di Jerry all’asilo!

Miliardario, Filantropo E Pure Bravo Come Musicista! JD & The Straight Shot – Ballyhoo!

jd and the straight shot ballyhoo

JD & The Straight Shot – Ballyhoo! – JD & The Straight Shot CD

Nel mondo della musica può capitare di imbattersi in artisti che hanno anche uno spiccato senso degli affari e non hanno bisogno di manager per gestirli: il caso più eclatante è forse quello di Gene Simmons, bassista e membro fondatore dei Kiss e da sempre responsabile in prima persona della gestione della loro immagine, capace di trasformare una rock’n’roll band in una vera miniera d’oro (e facendo molti più soldi con il merchandising che con le vendite dei dischi). Più rari sono i casi di musicisti che si guadagnano da vivere facendo altro: per esempio Kevin Deal, oltre ad un’ottima ma poco remunerativa carriera come artista di country e Americana, porta avanti l’attività di famiglia che consiste in un’impresa di costruzioni in pietra specializzata nella realizzazione di chiese. Ma un musicista, e pure bravo, che fosse un magnate delle telecomunicazioni non l’avevo ancora visto: è questo il caso di James Dolan, un newyorkese di sessanta anni (quindi non esattamente di primissimo pelo) che è a capo dell’emittente via cavo Cablevision Systems Corporation (la quinta per importanza negli Stati Uniti), oltre ad essere presidente della nota squadra di basket dei New York Knicks, per non parlare del fatto che è anche chairman del Madison Square Garden! Un businessman con le palle quindi (che è anche impegnato in varie iniziative benefiche, il famoso concerto 12-12-12 per le vittime dell’uragano Sandy lo ha organizzato lui) ma anche un genuino appassionato di musica che nel 2005 ha formato una vera e propria band di roots-rock e Americana, JD & The Straight Shot (nascondendo quindi il suo nome dietro le iniziali, è pure umile l’amico… qualche difetto no?), con la quale ha pubblicato cinque album (compreso l’ultimo di cui parlerò tra poco) ed un EP, e trovando pure il tempo di girare gli States esibendosi come opener di gente come Allman Brothers Band, Eagles, Bruce Springsteen e ZZ Top: anche noi in Italia abbiamo un magnate delle telecomunicazioni e presidente di una nota squadra (di calcio), il cui amore per la musica si limita però alle serenate con Apicella e le tournée non le fa cantando ma sparandole grosse da un palco e in TV (in quello comunque nel nostro paese è in ottima compagnia).

Ebbene, oltre ad essere un uomo ricco e di successo, Dolan è pure musicalmente dotato, e lo dimostra ampiamente con l’ultima fatica della sua band, intitolata Ballyhoo!, per la quale si è pure preso lo sfizio di registrare completamente con strumenti acustici (cosa annunciata fin dalla copertina), a differenza dei dischi precedenti che erano elettrici: la cosa però ha una sua logica, in quanto James ha detto che lui ed i ragazzi (Marc Copely, chitarre, Byron House, basso, la bravissima Erin Slaver, voce e violino ed Aidan Dolan, figlio di James, anch’egli alle chitarre) sono soliti provare le canzoni senza la spina attaccata e solo in seguito danno loro un arrangiamento rock, mentre con Ballyhoo! si sono semplicemente fermati al primo step. A monte di tutto, devo dire che sono stupito dalla qualità del disco: Dolan intanto è un musicista capace, ottimo songwriter (ma collaborano anche gli altri) e cantante in possesso di una bella voce profonda e vissuta, e le canzoni sono intrise fino al collo della più pura tradizione americana, con rimandi al suono delle ballate folk dei tempi della Grande Depressione (caratteristica accentuata dal fatto che il disco è acustico), mescolando il tutto con uno stile degno di una esperta southern band; un gruppo che sa il fatto suo dunque, che riesce a stare in piedi con le sue gambe e va ben aldilà del capriccio di un miliardario che si vuole divertire: la produzione di Chuck Ainlay, uno che ha prodotto tutti gli album solisti di Mark Knopfler (tranne l’ultimo, Tracker) oltre a Miranda Lambert e Jewel, è la classica ciliegina su una torta già molto gustosa. Blues, rock acustico, old-time music, folk ed un pizzico di country: incredibile per uno che nella vita fa tutt’altro.

Il CD inizia subito benissimo con Empty, un blues rurale con tanto di slide acustica, la voce sudista del leader ed un motivo che sembra la versione unplugged di un classico pezzo dei Lynyrd Skynyrd (con in più l’ottimo violino della Slaver, vera e propria arma “segreata” del disco). Better Find A Church è quasi un brano a cappella, nel senso che le voci (James ed Erin) sono accompagnate prima solo dal basso, poi entrano due chitarre ma restano piuttosto nelle retrovie, e la ritmica è fatta dallo schioccare delle dita e dal battito di mani, con una melodia, tra modernità e tradizione, pura come l’acqua di montagna: splendida. Under That Hood è ancora un folk-blues molto intenso, un brano che risente della lezione di Mississippi John Hurt, con un gran gioco di voci ed una solidità impressionante per uno che, a conti fatti, è musicista per hobby. Bella anche Perdition, ancora con la struttura tipica delle band sudiste: la scelta di lavorare in acustico è comunque vincente, in quanto la purezza di queste canzoni viene preservata; Glide ha un arpeggio chitarristico tipico di una bluegrass band (e pure i cori), un pezzo dal sapore tradizionale al 100%, che mostra di che pasta sono fatti i ragazzi. Nature’s Way, guidata da un riff di violino, ha una melodia più legata ai giorni nostri, ma rimane comunque una signora canzone, Don’t Waste My Time è languida e resa malinconica ancora dal bell’uso del fiddle, mentre Dolan intona un motivo che sembra provenire da un’altra epoca: grande pathos, favorito anche dal crescendo sonoro nella seconda parte. La title track, cantata con voce molto bassa, è una ballata di spessore ed intensità, nonostante i due strumenti in croce (ma anche le voci fanno la loro figura), con uno splendido break strumentale molto Irish guidato come sempre dal violino; Hard To Find è invece una pura e semplice, ma solida, country ballad, che rimanda al suono anni settanta del movimento Outlaw.   L’album si chiude con la spedita Here He Comes, altro scintillante folk tune d’altri tempi, e con la spoglia ma struggente I’ll See You Again: un disco sorprendente, da parte di un personaggio che in America definirebbero larger than life, e di una band che sembra un manipolo di professionisti del folk revival https://www.youtube.com/watch?v=DdBydkyUZrM .

Marco Verdi

*NDB Senza dimenticare, a proposito di “ricchi dilettanti”, il caso di Paul Allen, co-fondatore delle Microsoft e pure lui multimiliardario, a cui il disco glielo aveva addirittura pubblicato la Sony Legacy, con la partecipazione di nomi illustri, come vi avevo raccontato in questo Post di tre anni fa http://discoclub.myblog.it/2013/09/05/dal-rock-alla-microsoft-e-ritorno-con-calma-paul-allen-and-t/

Tra Folk E Blues: Solo Chitarra E Batteria! Thad Beckman e Danny Montgomery – When The Sun Goes Down

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Thad Beckman & Danny Montgomery – When The Sun Goes Down – Distinguishing Mark Records

Thad Beckman è un interessante cantautore e chitarrista, da parecchi anni sulle scene, ha già pubblicato quattro album come solista, con uno stile che oscilla tra il classico folk d’autore e il blues. Beckman è anche, da qualche anno, il chitarrista che accompagna abitualmente Tom Russell http://www.youtube.com/watch?v=uAaVM8PUQfU  in tour e qualcosa deve avere appreso dal grande storyteller texano d’adozione o così si percepisce dai suoi album solisti http://www.youtube.com/watch?v=2SntFfAy-MU .

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Ma questo When The Sun Goes Down è uno strano esperimento: niente di stravolgente ma sicuramente un CD particolare. Si tratta di un disco registrato in coppia con il batterista Danny Montgomery, un album per sola chitarra acustica e batteria non è certamente molto usuale e l’esperimento, se tale voleva essere, è sicuramente riuscito. Il genere prevalente è il blues acustico, ma tra gli undici brani Beckman ci infila ben sei sue composizioni e quindi il mood spesso è quello del classico disco da folk singer. E ne ho anche uno in mente, forse non per il genere, ma sicuramente per il tipo di voce, ovvero Gordon Lightfoot. Come mi è venuto in mente? Non lo so. Sono quei tipici casi in cui ascolti qualcuno e ti sembra di cogliere delle analogie, ma per quanto ti sforzi non riesci a focalizzare di cosa si tratta, poi, tac, scatta una rotella nel suo cervello e dici, ma questo assomiglia moltissimo come voce a Lightfoot e son soddisfazioni (!), tra i piaceri di ascoltare la musica c’è anche il fatto di cogliere queste somiglianze, spesso del tutto inconsce e non percepite dallo stesso autore.

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Non credo che Beckman si sia svegliato una mattina e abbia detto, oggi mi va di cantare come Gordon, è semplicemente un fatto intrinseco, la voce è simile. Ma non il genere, come detto, anche se nell’iniziale Dust Bowl Madonna, qualche frammento del cantato piano, tranquillo, ma ricercato del cantautore canadese emerge. Per il resto del disco siamo su territori decisamente più vicini al blues, anche se la title-track, la notevole When The Sun Goes Down, ricorda per certi versi anche le canzoni meno tipicamente country di Willie Nelson, un altro che sa come suonare una chitarra acustica con grande perizia, ma ancora, e nuovamente, il Lightfoot citato poc’anzi. Ci sono un paio di brani strumentali, Blues On “E” e The Assassination Of L.K, dove si apprezza l’ottimo picking di Thad Beckman, e il “divertissement” finale di Jingle, Jangle, Jingle più una bella cover, accelerata e quasi irriconoscibile, di Buckets Of Rain di Dylan, che diventa un divertente country-blues.

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Nel resto del disco, ogni tanto, i due si divertono anche ad improvvisare ai rispettivi strumenti come in I Got The Blues About You dove Beckman lascia spazio a qualche rullata in libertà di Danny Montgomery. C’è anche qualche canzone che ha quel sapore leggermente bluesy-pop come certe cose di George Harrison negli ultimi album e singoli dei Beatles, tipo For You Blue, ma come avrebbe potuto suonarla Mississippi John Hurt, una specie di incrocio tra le due cose, qui estrinsecato nella piacevole Well Bottom Blues http://www.youtube.com/watch?v=lhIhnABq1lk . Per il resto non mancano un paio di classici delle 12 battute come Walking Blues e Blues Before Sunrise, che possono ricordare gli Hot Tuna degli inizi, niente basso di Casady ma una batteria discreta ed agile a segnare il tempo. Piacevole e ben suonato, con parecchi virtuosismi chitaristici, una simpatica curiosità da parte di un musicista degno di essere conosciuto. Non solo per specialisti del Blues!

Bruno Conti