Un Esaustivo Viaggio Attraverso La Carriera Solista Di Un Musicista Eccelso Ma Sottovalutato. Lindsey Buckingham – Solo Anthology

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Lindsey Buckingham – Solo Anthology The Best Of – Rhino/Warner CD – 3CD – 6LP

La grandezza di Lindsey Buckingham, cantautore e chitarrista californiano, si può misurare anche dal fatto che, le due volte in cui è stato licenziato dal gruppo che gli ha dato la fama, i Fleetwood Mac (nel 1987 e pochi mesi fa), la band per sostituirlo ha dovuto chiamare in entrambi i casi ben due nuovi elementi, di cui uno più bravo come cantante e l’altro come chitarrista (Rick Vito e Billy Burnette prima, l’ex Crowded House Neil Finn e l’ex Heartbreakers Mike Campbell oggi). I Fleetwood Mac, almeno nella loro formazione più famosa, sono sempre stati il classico caso in cui la somma delle parti era superiore ai singoli elementi, e se la carriera solista di Stevie Nicks ha sempre avuto una buona esposizione mediatica, quella di Buckingham è sempre stata vista come di nicchia. Eppure nei Mac la mente, la forza trainante, l’autore migliore (nonché chitarrista strepitoso, anche sotto questo punto di vista spesso sottovalutato e regolarmente assente nelle classifiche di categoria) era proprio Lindsey, basti pensare che un disco come Tusk senza di lui non sarebbe potuto nascere: ora Buckingham si prende una parziale rivincita nei confronti degli ex compagni, ed immette sul mercato questa interessante Solo Anthology, che già dal titolo fa capire di cosa si tratta, una carrellata molto ben fatta del meglio dei suoi album lontano dal suo gruppo storico (non moltissimi, appena sei in quattro decadi, più la recente collaborazione con Christine McVie https://discoclub.myblog.it/2017/07/08/mancava-un-pezzo-per-fare-i-fleetwood-mac-di-nuovo-e-si-sente-lindsey-buckingham-christine-mcvie/ ), con dentro anche diverse chicche.

Lindsey è sempre stato un musicista raffinato, un architetto di suoni tra pop e rock come ce ne sono pochi in giro, ed anche nell’ambito della sua produzione da solista (ed intendo proprio da solo, raramente si fa aiutare da sessionmen esterni, e tra i pochi coinvolti ci sono gli amici Mick Fleetwood e John McVie, nonché Mitchell Froom) le belle canzoni non sono mai mancate. Solo Anthology esce in versione tripla, con i primi due CD che riassumono il meglio dei lavori in studio (40 canzoni in tutto), mentre il terzo, 13 brani, offre una panoramica dai suoi tre album dal vivo. La scelta è stata fatta da Lindsey stesso, e quindi è molto personale: lo splendido Out Of The Cradle, miglior pop album del 1992 per chi scrive, è stato giustamente incluso quasi interamente (ben 9 pezzi su 13), mentre per gli altri la scelta è stata più equilibrata, con l’unica eccezione del suo debutto Law And Order del 1981, dal quale è stata presa una sola canzone (anche il disco con la McVie è presente, ma anche qui con la miseria di un brano, mentre ancora nulla dal “mitico” Buckingham-Nicks, ad oggi mai stampato in CD); ci sono anche tre rari pezzi presi da colonne sonore, nonché due inediti assoluti, anche se non sono canzoni incise di recente, ma nel 2012. Anche il terzo dischetto, quello live, è interessante, in quanto include per la prima volta in versione fisica due pezzi presi da One Man Show, album dal vivo del 2012 pubblicato solo come download. Poco interessante la versione singola, in quanto omette sia i brani live che, soprattutto, gli inediti.

Il primo album Law And Order come dicevo è rappresentato solo da un pezzo, la gradevole e decisamente fruibile Trouble, che deve molto al suono dei Mac, mentre da Go Insane del 1985 Lindsay ha scelto cinque brani, tra cui l’orecchiabile title track e la gioiosa I Want You, un po’ inficiate da sonorità anni ottanta, e la suggestiva D.W. Suite. Di Out Of The Cradle ho già detto, un album di notevole livello, sicuramente la cosa più bella del nostro da Tusk in poi: dovrei citarle tutte, ma mi limito alla deliziosa Don’t Look Down, introdotta da uno strepitoso arpeggio chitarristico, la raffinata e soffusa Surrender The Rain, la solare e splendida Countdown, dalla contagiosa melodia influenzata dai Beach Boys, la vibrante e nervosa Doing What I Can, molto Fleetwood Mac (l’avrei vista bene come singolo del gruppo), e due brani che sfiorano la perfezione pop come Soul Drifter o You Do Or You Don’t. Un salto fino al 2006 per Under The Skin, un disco contraddistinto da sonorità acustiche ma con un livello compositivo inferiore al solito, dal quale però Lindsay sceglie ben cinque pezzi, più tre nella parte dal vivo: troppi per il sottoscritto, però salverei senz’altro la guizzante Show You How, piena delle tipiche sonorità stratificate del nostro, la gradevole ballata Cast Away Dreams (sul CD live), e soprattutto la toccante e melodicamente impeccabile Down On Rodeo, la migliore per distacco tra quelle tratte da quel disco. Sei brani sono presi dal più che buono Gift Of Screws, come la squisita Did You Miss Me, fresca pop song da canticchiare al primo ascolto, la bellissima Treason, dotata di una melodia splendida (una delle più belle del triplo) e la superlativa Love Runs Deeper, altro straordinario pezzo di puro pop, dal ritornello fantastico e grande assolo chitarristico finale.

Da Seeds We Sow (2011) ce ne sono ben sette, tra cui l’avvolgente Rock Away Blind, ricca di fascino e con un lavoro chitarristico incredibile, la mossa Illumination, dal refrain immediato, e l’acustica Stars Are Crazy, una cascata di note pure e cristalline. Detto dell’inclusione della godibile Sleeping Around The Corner da Buckingham-McVie (ce n’erano anche di migliori in quel disco), troviamo anche tre pezzi presi da colonne sonore, due dei quali da National Lampoon’s Vacation (il divertente rock’n’roll Holiday Road, presente anche nel CD live, e l’incantevole Dancin’ Across The USA, tra doo-wop e pop anni sessanta) ed una da Back To The Future, Time Bomb Town, una buona canzone sospesa tra rock, pop e funky. Last but not least, i due brani inediti: Hunger, brano pop limpido e diretto tipico del nostro, niente di nuovo ma fatto benissimo, e l’acustica Ride This Road, delicata e sussurrata folk ballad, eseguita al solito magistralmente. Il CD dal vivo è concepito come se fosse un concerto unico, con una lunga prima parte acustica (con o senza band) ed un travolgente finale all’insegna del rock. Lindsey conferma tutta la sua abilità come chitarrista anche nei brani con la spina staccata, con versioni molto diverse di brani tratti dagli album solisti (Trouble, una Go Insane quasi irriconoscibile, una limpida versione del traditional All My Sorrows, che era su Out Of The Cradle), pezzi dei Mac più o meno famosi (Bleed To Love Her, Never Going Back Again, una frenetica Big Love) e perfino una selezione da Buckingham-Nicks, il discreto strumentale Stephanie. Il finale elettrico è semplicemente grandioso: dopo una sorta di riscaldamento con la già citata Holiday Road, abbiamo una Tusk trascinante come non mai, ed un uno-due da k.o. con una sontuosa I’m So Afraid di otto minuti e la famosissima e coinvolgente Go Your Own Way, ambedue contraddistinte da prestazioni chitarristiche al limite dell’umano.

Una splendida antologia quindi, con dentro tanta grande musica e prestazioni strumentali da prendere come esempio: sarebbe ora che Lindsey Buckingham ottenesse i riconoscimenti che merita, anche al di fuori del gruppo che di recente lo ha inopinatamente messo alla porta senza troppi complimenti.

Marco Verdi

Eccolo Qua, Puntuale Come Sempre, Per Fortuna Ogni Nove Anni Ritorna! Randy Newman – Dark Matter

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Randy Newman – Dark Matter – Nonesuch/Warner

Undici album di studio, compreso il nuovo, in circa cinquanta anni di carriera discografica, visto che il primo album omonimo risale al 1968 (ma già nel 1962 pubblicava un primo singolo), forse non sembrano molti: ma in mezzo ci sono stati anche due album dal vivo, i tre volumi della serie Songbook dove ha rivisitato parte del suo repertorio con nuove versioni incise per solo voce e piano, 3 antologie, un musical, Faust e una miriade di colonne sonore di film, si parla di almeno 24 film o serie televisive che hanno goduto delle delizie della penna di Randy Newman, perché di lui stiamo parlando, componente di una delle dinastie musicali più importanti proprio nell’ambito delle colonne sonore, con tre zii e quattro cugini impiegati a pieno regime dall’industria cinematografica per creare gli scores di una una infinita serie di film delle più disparate tipologie. Non a caso lo zio Alfred Newman ha vinto nove Oscar, l’altro zio Lionel un Oscar, e il terzo zio è stato “solo” nominato una volta, mentre tra i cugini solo nominations, con Randy che però due Oscar li ha vinti, per le canzoni di Monsters & Co Toy Story 3. Come ricordo nel titolo, casualmente, o forse no, gli ultimi tre album di Randy Newman sono stati tutti divisi da un arco temporale di nove anni: Bad Love uscito nel 1999, Harps And Angels uscito nel 2008, e ora questo Dark Matter nel 2017. Ancora una volta a produrre il disco ci sono Mitchell Froom e il veterano Lenny Waronker (ex presidente della Warner Bros Records e della Dreamworks), nonché, per l’occasione, anche l’ingegnere del suono David Boucher, mentre nel disco, come sempre, suona una pattuglia di eccellenti musicisti: oltre a Newman al piano e Mitchell Froom alle tastiere, Blake Mills alla chitarra, David Piltch al basso e Matt Chamberlain alla batteria, ma anche molti musicisti impiegati per le parti orchestrali e fiatistiche, e pure vocali, eleganti e complesse come di consueto: Ne consegue quindi un disco che è l’ennesimo gioiellino, raffinato e variegato, come d’uso nella discografia dell’occhialuto musicista di Los Angeles, uno dei più geniali, ironici, a volte sardonici, intelligenti e per certi versi, imprevedibili, artefici della musica popolare americana.

Nonostante questo curriculum strepitoso Randy Newman rimane fondamentalmente un artista di culto: solo Little Criminals, il suo disco del 1977 (e forse anche il migliore in assoluto, certo il più popolare, quello con Short People https://www.youtube.com/watch?v=8bfyS-S-IJs), è entrato nei Top 10 delle classifiche americane arrivando fino al nono posto, anche se la colonna sonora di Cars, che illustra il suo lato più ludico e divertente (insieme a molte altre realizzate per la Walt Disney/Pixar), è giunta nel 2006 fino al 6° posto delle charts. Ma questo ci interessa relativamente, quello che importa è che i suoi dischi siano belli e, salvo rare eccezioni, lo sono sempre stati e questo Dark Matter non fa eccezione. Il nostro amico plasma la “materia oscura” per renderla ancora una volta una opera di superbo artigianato, come vogliamo definirlo, pop cameristico, ricco di melodie, ma anche di sorprese, cinico ma con punte di sentimentalismo non bieco, piccoli racconti surreali (e manca quello sul “coso” di Trump, che si doveva chiamare What A Dick e così forse non sapremo mai se ce l’ha più grande di Putin, che invece nell’album la sua canzone ce l’ha, come pure i fratelli Kennedy e Sonny Boy Williamson); insomma, per fortuna, il “solito” Randy Newman. Si parte con The Great Debate, una sorta di mini-suite di oltre otto minuti, dai continui cambi di tempo e di atmosfera, con fiati in stile New Orelans, elementi blues, momenti sospesi tra “buie” esplosioni di archi quasi classicheggianti, improvvise scariche di neo-dixieland, gospel, intermezzi per voce e piano in cui dialoga con sé stesso sui grandi sistemi della religione, dei cambi climatici, dell’astrofisica, della politica, della scienza in generale, poi improvvise ripartenze gospel-soul degne del miglior Allen Toussaint o Dr. John, ma anche di Mister Newman, con i suoi musicisti sempre senza limiti di sorta nella loro calibrata e “scientifica” inventiva sonora.

Brothers è un dialogo immaginario tra i fratelli John e Robert Kennedy che parlano dell’invasione della Baia dei Porci, con il primo che poi confessa di un suo particolare amore per la musica di Celia Cruz (?!?), con la musica che si dipana su temi quasi da musical, tra archi e fiati sontuosi, mentre la voce partecipe e quasi affettuosa di Randy ci narra di queste vicende di Jack e Bobby, inventate ma assai verosimili, con un finale a tempo di rumba o salsa dedicato alla Cruz, che parte quando viene nominata, il tutto di una raffinatezza quasi impossibile da qualcuno che non sia Newman. E siamo solo al secondo brano. Poi tocca a Putin, una satira-canzone pare ispirata da una “rara” foto del leader russo a torso nudo, che rimugina sul suo potere e quello della sua nazione, mentre la canzone miscela temi popolari simil-russi al pop raffinato tipico di Newman, passando di nuovo per il musical, questa volta in puro stile Broadway, mentre Randy declama e le voci femminili, le Putin Girls (ricorda qualcosa?), gli rispondono in un classico call and response giocato sul “Putin if you put it Will you put it next to me?”. Questo dovrebbe essere il singolo dell’album ed in effetti è uno dei brani più “spensierati”. Lost Without You è una delle due canzoni che trattano il tema della famiglia, una ballata malinconica e crepuscolare, con solo la voce e il piano di Newman sottolineati da una sezione di archi.

Sonny Boy è la storia di Sonny Boy Williamson, il grande bluesman nero, anzi dei due “grandi bluesmen” neri, perché quando Rice Miller viaggia verso il Nord scopre che ne esiste già uno: ma mentre il primo, che è la voce narrante, viene ucciso in una rapina nel 1948, il secondo trova fama e fortuna arrivando fino in Inghilterra dove viene omaggiato da band come gli Yardbirds e gli Animals che incidono con lui, ma nella canzone di Newman, tra marcetta e blues canonico fiatistico, quello che va in Paradiso, pare il primo bluesman ad entrarvi, è il primo dei due, perché leggenda vuole che le sue ultime parole furono “Lord have mercy e il Signore ricordò. It’s A Jungle Out There è uno dei brani più vivaci e tipici del canone sonoro più disimpegnato del cantautore californiano, piacevole ma forse non memorabile, anche se il piano comunque viaggia alla grande; She Chose Me è un’altra ballata orchestrale in cui come è noto il nostro eccelle, per una volta niente cinismo, ma solo una romantica melodia ,sempre ricca di raffinata melancolia e dedicata alla “most beautiful girl that I’ve ever seen”. Anche On The Beach ha quell’aria retrò ed old fashioned, un po’ jazz e un po’ café-chantant, con cui Newman di solito riveste le sue vignette, questa volta la storia di un vecchio “surfer” ormai fuori di testa che non si è mai mosso dalla sua spiaggia e ricorda ancora i Beatles e un passato nebuloso, forse perduto, ma mai dimenticato del tutto. Chiude l’album l’ultima delle ballate romantiche e tangenti, surreali persino, almeno nel testo, Wandering Boy, un’altra delle composizioni senza tempo, solo per voce e pianoforte, che sono da sempre la cifra stilistica del grande cantautore di LA, che ancora una volta a 73 anni conferma di non avere perso il suo speciale “magic touch”. Prossimo appuntamento nel 2026!

Bruno Conti

Mancava Solo Un “Pezzo” Per Fare I Fleetwood Mac Di Nuovo, E Si Sente! Lindsey Buckingham Christine McVie

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Lindsey Buckingham Christine McVie – Lindsey Buckingham Christine McVie –East West/Warner

All’inizio uno potrebbe pensare ad un errore, Buckingham/McVie, ma non era Buckingham/Nicks? Se aggiungiamo che la sezione ritmica è formata da Mick Fleetwood alla batteria e John McVie al basso, non facevano prima a chiamare anche Stevie Nicks e fare un nuovo album dei Fleetwood Mac? Ma sarebbe stato troppo semplice e si sa che i musicisti sono strani, quelli di questo gruppo in particolare, si sono presi e lasciati in mille combinazioni nel corso degli anni, ma una certa amicizia e complicità è sempre rimasta, non credo che nei loro occhi brilli solo il simbolo del dollaro. Oltre a tutto il disco è abbastanza “democratico”: cinque pezzi di Buckingham, due della McVie (da sempre la meno prolifica) e tre firmati insieme. Produce Lindsey Buckingham con Mark Needham e Mitchell Froom, che suona anche le tastiere nell’album, oltre alla stessa Christine McVie. Capolavoro pop-rock quindi? Forse no, semplicemente un solido e piacevole album che ripercorre il classico sound californiano della band originale: quando la McVie è ritornata all’ovile dei FM nell’aprile del 2014, lei e Buckingham erano subito tornati in studio per vedere se la chimica funzionava ancora, e si erano trovati talmente bene che avevano deciso di registrare un album a nome della band, visto che anche McVie e Fleetwood erano della partita, ma poi ci sono stati dei problemi (strano, non lo avrei mai detto!) con la Nicks e quindi è diventato un progetto della coppia Buckingham/McVie, un disco di duetti.

Ovviamente parte del materiale, sotto altre forme, essendo Buckingham quello che è, ovvero un certosino creatore di confezioni pop-rock, in parte si era già sentito: per esempio il brano di apertura Sleeping Around The Corner, era già stato pubblicato, come bonus track, nell’edizione digitale del disco solo di Lindsey Seeds We Sow, e sicuramente altri frammenti e idee sedimentavano nella “diabolica” e fervida mente di Buckingham. Quindi partiamo proprio da questa canzone, tipica del musicista californiano (l’unico “autoctono” del gruppo): classico giro di chitarra del nostro, coretto gioioso, su un groove ritmico al solito complesso ma che si memorizza con facilità, particolari suoni, anche elettronici, ma mai “sgarbati”, aggiunti all’insieme, la voce che ora sussurra, ora ammicca, mentre la McVie per il momento lavora più di conserva, business as usual per il nostro amico. Feel About You, scritta in coppia, ha piccoli tocchi di marimba che aggiungono un sapore caraibico, un insistito giro di basso di John McVie e la deliziosa voce della di lui ex moglie, Christine, che intona un’altra delle tipiche melodie di Buckingham, che gorgheggia pure sullo sfondo, sempre nell’ambito pop raffinato siamo; In My World combina il rock di Tusk, con una ritmica più incalzante di Fleetwood, nel classico tempo à la Fleetwood Mac, unito ad una di quelle solari e sognanti frasi melodiche che sono tipiche del DNA del buon Lindsey, le potrebbe scrivere anche dormendo, ma si apprezzano sempre, anche se sentite mille volte.

La successiva Red Sun, una di quelle firmate in coppia, presenta l’ideale alternativa alle delizie del passato quando a fianco di Buckingham c’era la voce di Stevie Nicks, ma il risultato è quello, forse il miglior pop californiano dopo quello dei Beach Boys, con armonie deliziose e un assolo di chitarra di grande finezza; Love Is Here To Stay con i classici arpeggi della chitarra acustica, la voce sussurrata e poi il classico leggero crescendo armonico del suo pop barocco è ancora puro Buckingham non adulterato, quello che di solito si trova nei suoi dischi solisti. Too Far Gone, di nuovo attribuita alla coppia, ha un ritmo funky-rock con un synth ricorrente, rullate aggressive e tribali della batteria di Fleetwood, ma non entusiasma più di tanto, sembra un pezzo minore degli Eurythmics, anche se l’assolo di chitarra è asprigno il giusto. Lay Down For Free potrebbe essere un outtake di Rumours, il classico pop-rock dei Fleetwood Mac, con le voci dei due sovrapposte e unite per una canzone che al solito piace, ma senza entusiasmare; potrebbe essere meglio Game Of Pretend, una delle tipiche ballate pianistiche della McVie, ma sembra un po’ irrisolta e poi si perde in un ritornello tutto caramelloso e zuccherino ripetuto, che potrebbe provocare il diabete all’ascoltatore. On With Show di nuovo scritta dal solo Buckingham è un altro piacevole brano pop-rock cantato in coppia, con la prevalenza della voce di Lindsey nell’insieme. Insomma, in definitiva un buon album, come conferma l’ultima traccia scritta in solitaria dalla McVie, una sinuosa e sognante Carnival Begin (il migliore dei suoi contributi), graziata da un stridente solo della solista di Buckingham nel finale, ma se mi passate un penoso gioco di parole con il cognome di Christine da nubile, siamo lontani dall’essere “perfect”! A parte nella foto di copertina, dove sembrano dire “passavamo di qui per caso”!

Bruno Conti

Questi Signori Non Fanno Un Disco Brutto Neanche Per Sbaglio! Los Lobos – Gates Of Gold

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Los Lobos – Gates Of Gold – Savoy Jazz/Fontana/Proper CD

Nel mondo della musica rock in pochi possono vantarsi di non avere mai sbagliato un disco, neppure mostri sacri del calibro di Bob Dylan, Paul Simon, Neil Young e John Fogerty (che pure fa un album ogni morte di Papa, ma Eye Of The Zombie era una mezza ciofeca), ma quasi nessuno, forse nemmeno Van Morrison o Richard Thompson riescono a mantenere uno standard alto come i Los Lobos. Infatti, in più di trent’anni di carriera (mi riferisco all’esordio mainstream con l’EP And A Time To Dance del 1983, in realtà gli anni sono quasi quaranta) il quintetto proveniente da East L.A. (al nucleo storico formato da David Hidalgo, Cesar Rosas, Louis Perez e Conrad Lozano si è aggiunto l’ex Blasters Steve Berlin, l’unico non ispanico, a metà anni ottanta) quasi mai ha pubblicato un lavoro che scendesse sotto le fatidiche quattro stelle di giudizio: a parte i divertissements, come il tributo alle canzoni dei film di Walt Disney o il disco di canzoni per bambini inciso insieme a Lalo Guerrero, solo una volta a mio parere sono scesi di mezzo punto, e cioè col pur valido This Time del 1999 (ma quell’anno Rosas aveva tenuto le cartucce migliori per il suo ad oggi unico album solista, Soul Disguise).

La carriera dei Lupi si può dividere in due parti: la prima, con tutta una serie di grandi dischi che hanno contribuito a creare un genere che oggi chiamiamo per brevità Americana, culminata nel 1992 con la pubblicazione dello straordinario Kiko (un cinque stelle da qualunque parte lo si guardi), e tutti i lavori successivi fino ad oggi, nei quali la band ha cominciato ad affiancare alle composizioni negli abituali stili rock, folk, mexican, blues e R&B anche una marcata vena psichedelica e sperimentale, ed alimentando il tutto con esibizioni dal vivo che definire infuocate è persino riduttivo. Una serie di CD di altissimo spessore e con sempre tre-quattro canzoni ciascuno degne di entrare in qualsiasi best of: personalmente, a parte This Time che ho già citato, li giudico tutti (visto che siamo in ballo) da quattro stelle, con punte di merito (i + che si danno a scuola) per Good Morning Aztlan e The Town & The City. Gates Of Gold è il nuovissimo album dei Lupi, che giunge a cinque anni dal precedente Tin Can Trust, e dopo un paio di ascolti posso già metterlo insieme ai loro lavori post-Kiko più riusciti, un disco che in undici canzoni (niente versioni deluxe stavolta) riesce mirabilmente ad esplorare tutto il microcosmo musicale del combo di origine messicana, con l’aiuto di un suono scintillante (si occupano loro stessi della produzione): c’è di tutto in Gates Of Gold, ma i nostri sono diventati una macchina talmente ben oliata che riescono a rendere tutto amalgamato alla perfezione, e a far diventare interessanti anche gli episodi più ostici e meno “radiofonici”. Come al solito, suonano quasi tutto loro (con l’aggiunta di David Hidalgo Jr., figlio di cotanto padre, alla batteria, in pratica il rimpiazzo di Victor Spinetti), con l’aiuto di pochi collaboratori tra i quali spiccano la nota cantautrice Syd Straw alle armonie vocali in un brano ed il loro ex produttore Mitchell Froom che suona qualche tastiera qua e là.

Apre l’album Made To Break Your Heart, una rock song elettrica dal suono pieno e con una solida melodia, che ricorda alla lontana certe cose di Neil Young: la parte centrale, con un potente assolo chitarristico, fa salire di brutto la temperatura. When We Were Free è poco immediata, ma per chi conosce i Lupi direi che è quasi tipica del loro modo di concepire la musica a 360 gradi: percussioni in grande evidenza, la canzone ha un andamento particolare, una via di mezzo tra un errebi sghembo ed un funky ubriaco, con Hidalgo che canta in modo quasi “scazzato” e la parte finale, una mini-jam dove gli strumenti vanno ognuno per conto suo, ha momenti quasi cacofonici. Di sicuro non uscirà come singolo. Mis-Treater Boogie Blues è, per contro, un…indovinate…boogie blues molto diretto e trascinante, con il classico giro chitarristico già sentito mille volte ma sempre coinvolgente, che ci fa capire subito che anche Rosas è in gran forma https://www.youtube.com/watch?v=mFK83BXYOH8 ; There I Go è ancora ermetica e “strana”, e più che ai Lupi mi fa pensare agli esperimenti dei Latin Playboys (l’ex gruppo dopolavoristico formato da Hidalgo e Perez con Froom e Tchad Blake), con gli strumenti che apparentemente vagano senza meta ma alla fine ci si accorge che è tutto un caos programmato.

Too Small Heart è invece puro rock, potente e diretto, un suono quasi da garage band ed una grinta che dopo tutti questi anni resta immutata: dal vivo pezzi come questo possono fare scintille; finora il disco è stato asciutto, teso, elettrico, in certi momenti fruibile ed in altri meno, ma con Poquito Para Aqui inizia la fiesta, con una deliziosa cumbia dal ritmo irresistibile e con la fisarmonica (Josh Baca) in primo piano, un brano decisamente ballabile che vorrei vedere in classifica al posto di quelle porcherie spacciate per musica latina ma che in definitiva sono solo disco music cantata in spagnolo https://www.youtube.com/watch?v=kakHGqVvGmY . La title track fa emergere il lato solare dei Lupi, un brano cadenzato e godibile che rimanda al suono pre-Kiko (sembra un’outtake di The Neighborhood), La Tumba Sera El Final, unico traditional del CD, è la classica ballata messicana che non può mancare in un disco di Hidalgo e soci, ma che fa sempre un gran piacere ascoltare. Song Of The Sun è un’altra bella canzone sullo stile di By The Light Of The Moon: oggi I Lupi amano fare dischi in cui toccano tutti gli stili musicali del loro passato (remoto e prossimo), ma non nascondo che mi piacerebbe ascoltare ancora un album intero solo con brani in stile Americana, come questo https://www.youtube.com/watch?v=zIzds1ZyafI . Gates Of Gold si chiude con I Believed You So, un blues elettroacustico quasi canonico, ma che in mano ai nostri ha sempre quel quid in più, e con la splendida Magdalena, una sontuosa rock ballad, forse il brano più bello del CD, un pezzo che anche su Kiko avrebbe fatto la sua figura, con una parte strumentale superba.

Un altro grande disco: e pensare che ancora oggi in tanti credono che i Los Lobos siano solo quelli di La Bamba https://www.youtube.com/watch?v=fumljcFyvzY .

Marco Verdi

“Solo” Un Altro Disco di Richard Thompson – Still

richard thompon still

Richard Thompson – Still – Proper/Concord

Potremmo aggiungere che è “solo” il sedicesimo disco di studio di Richard Thompson (ma ovviamente non contiamo quelli fatti con Linda, la famiglia, collaboratori vari, i Fairport Convention, oltre ai dischi dal vivo, le antologie, i cofanetti, le raccolte di inediti, i DVD, e molto altro): dal 1967, quando è uscito il primo disco omonimo dei Fairport ad oggi, Thompson credo (anzi ne sono certo) non abbia mai fatto un disco, non dico brutto, ma scarso. Nella sua discografia ci sono varie punte di eccellenza e un ilvello medio-alto costante negli anni, fatto che per il sottoscritto lo mette nella Top 10 degli artisti viventi più importanti della storia del rock (del folk e di qualsiasi altra musica vi venga in mente). Forse sarò parziale, ma per me Richard Thompson vale i Beatles, Dylan, Hendrix, gli Stones, Van Morrison, Springsteen, Presley e gli inventori del R&R e del soul nel pantheon dei grandi, e pur avendolo detto in altre occasioni, non essendo Paganini, lo ripeto! Il titolo, per Thompson, con l’ironia che lo contraddistingue, lascia intendere che si potrebbe interpretare anche come ” Ancora! Ma non era sparito da secoli?”, con quel piccolo tocco di vanità e amor proprio che non guasta, perché il punto interrogativo non c’è. Quindi “ancora”!

E il disco, ma non poteva essere diversamente, è ancora una volta molto bello: preceduto da grandi attese, quando si era saputo che l’album sarebbe stato prodotto da Jeff Tweedy, registrato negli studi di Chicago dei Wilco, molti pensavano che avrebbe potuto segnare un cambiamento nei suoni e nell’andamento sonoro della musica di Thompson, essere il suo Yankee Hotel Foxtrot, una strada però che era già stata percorsa nei dischi prodotti da Mitchell Froom, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, alcuni peraltro molto riusciti (penso a Rumor and Sigh o al doppio You?Me?Us?, ma brutti non ne ha fatti, per cui…), con suoni più carichi e complessi, ricchi di tastiere, forse meno immediati, ma con le canzoni sempre al centro del progetto. E comunque anche, per la serie dei corsi e ricorsi, First Light Sunnyvista avevano avuto questo approccio sonoro più elaborato. Il nostro vive da moltissimi anni negli Stati Uniti e quindi questo tipo di suono americano è già stato usato nel passato, anche quello più recente, con l’eccellente Electric  http://discoclub.myblog.it/2013/02/22/semplicemente-richard-thompson-electric/  che percorreva, in parte, addirittura i sentieri del genere “americana”, grazie alla produzione di un altro chitarrista, in quel caso Buddy Miller. Poi ci sono stati il DVD dal vivo, il disco acustico e quello con la famiglia, assai diversi stilisticamente tra loro. Ora è la volta di Still, dove Tweedy ha privilegiato il suono di Thompson quando suona dal vivo, il classico trio, chitarra-basso e batteria, con le canzoni che sono il veicolo sonoro e la chitarra di Richard libera di improvvisare quando l’estro lo richiede, cioè abbastanza spesso. Probabilmente era difficile cercare di migliorare la quasi perfezione del sound, quindi, come ammette lo stesso musicista inglese, il contributo di Tweedy potrebbe risultare quasi impercettibile alle orecchie dell’ascoltatore, ma si affretta ad aggiungere, comunque indispensabile https://www.youtube.com/watch?v=o-b2ACVhSzU . Tradotto in soldoni, è il solito bel disco di Richard Thompson. E’ non è poco, Jeff Tweedy e Jim Elkington aggiungono le loro chitarre (Tweedy anche marxophone, mellotron e guitarorgan !!, quindi forse il complimento di Thompson è meritato), Liam Cunningham, la brava cantautrice emergente Sima Cunningham e Siobhan Kennedy aggiungono le loro voci, ma il protagonista assoluto è ancora una volta il nostro amico: con la sua voce inconfondibile, la chitarra unica e quando serve un tocco di fisarmonica, uno di mandolino e di ukulele e il gioco è fatto.

Dodici canzoni nella versione standard ( più altre cinque nella versione doppia Deluxe, che include il Variations EP e che vi consiglio): She Never Could Resist A Winding Road è un classico brano à la Thompson, quindi bellissimo, una ballata folk di purezza cristallina, con gli arpeggi delle chitarre di Thompson che iniziano a costruire le solite delizie da gourmet della sei corde, piccoli tocchi di tastiere sullo sfondo e le armonie vocali della Kennedy, tutto nel tipico e classico canone thompsoniano, rafforzato da un testo che racconta di un personaggio ricorrente nelle sue canzoni, un’altra faccia della donna di Beeswing, “piedi freddi” e cuore caldo, indecisa ma sempre “migliore” delle sue controparti maschili, descritta con la consueta partecipazione e simpatia. Beatnik Walking, con due chitarre acustiche a inseguirsi dai canali dello stereo è un delicata delizia folk per i nostri padiglioni auditivi e il lavoro cesellato della sezione ritmica di Prodaniuk e Jerome ha una “presenza” da incontro sonoro ravvicinato. Patty Don’t You Put Me Down, la storia di una relazione finita, è anche l’occasione per le consuete metafore politiche e sociali di Richard, sarcastico e quasi cattivo nei suoi giudizi, ma è anche un brano rock dove la chitarra di Thompson traccia quelle traiettorie soliste che sono solo sue, con un paio di assolo che valgono il prezzo del biglietto (o del disco). Eccellente anche Broken Doll, dove delle tastiere quasi spettrali aggiungono un tocco di drammaticità ad un brano dall’andatura più sospesa e meno immediata, con l’elettrica di Thompson che qui lavora sui toni e la coloritura. All Buttoned Up è un’altra variazione nel vasto repertorio del nostro, andatura nervosa e rimbalzante, si potrebbe usare funky se non fosse lui, (anche se una una volta parlò di funky folk), forse si applica a questo brano, con la chitarra a disegnare le solite “impossibili” evoluzioni solistiche, tra mandolini, tastiere e altre chitarre che occhieggiano sullo sfondo. Josephine è una delicata ballata acustica di stampo folk, memore del suo passato e presente amore per la grande tradizione della canzone popolare inglese, che incarna perfettamente.

Long John Silver, la storia di un moderno pirata dei giorni nostri è l’occasione per un altro tuffo nel rock inconfondibile alla Thompson, chitarra tagliente e sempre imprevedibile e ritmi vivaci, poi virati nei tempi quasi marziali di una Pony In The Stable che ci riporta ai gloriosi giorni del folk-rock dei primi Fairport Convention. A seguire una ballata sontuosa ed avvolgente, come la struggente Where’s Your Heart, altra dimostrazione della inesauribile vena compositiva di questo signore che non finisce di stupire per la sua capacità di scrivere ad ogni album nuove piccole perle da aggiungere al suo songbook, ottimo nuovamente il lavoro di Siobhan Kennedy, alle armonie vocali. Poi è di nuovo tempo di rock con le evoluzioni frenetiche di No Peace, No End, pezzo dove Thompson estrae dalla sua solista altre incredibili mirabilie da ascoltare in religioso silenzio, mentre Dungeon Eyes rallenta ad un mid-tempo più ragionevole, non per questo meno intenso e godibile delle altre canzoni presenti in Still. Che si conclude con un brano, Guitar Heroes, che si potrebbe definire “The Rock’n’Roll According to Richard Thompson”, una cavalcata di quasi otto minuti dove Thompson ripropone gli stili di alcuni grandi chitarristi che hanno influenzato la sua storia di giovane ascoltatore di musica: e quindi ecco perfette citazioni di Melodie Au Crepuscule di “Django” Reinhardt, Caravan, nella versione di Les Paul, Brenda Lee di Chuck Berry, il chicken pickin’ di James Burton in Susie-Q e gli Shadows di Apache, prima di concludere con uno sferzante assolo di quelli che sono solo suoi.

Bruno Conti