Il Disco Dal Vivo Dell’Estate? Sì, Ed Anche Dell’Autunno, Dell’Inverno… Little Steven And The Disciples Of Soul – Soulfire Live!

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Little Steven And The Disciples Of Soul – Soulfire Live! – Wicked Cool/Universal 3CD

Uno dei dischi più belli dello scorso anno per il sottoscritto è stato sicuramente Soulfire https://discoclub.myblog.it/2017/05/26/per-una-volta-il-boss-e-lui-little-steven-soulfire/ , che vedeva il ritorno alla prova da solista per Little Steven, a ben diciotto anni dal non eccelso Born Again Savage, che a sua volta veniva dopo una decade da Revolution (che era proprio brutto). Con Soulfire Steven in un certo senso aveva chiuso un cerchio, in quanto aveva riformato i Disciples Of Soul, un gruppo formidabile in grado di garantire un suono potente e pieno di feeling, a base di rock’n’roll, soul ed errebi, gruppo con cui aveva esordito come solista nel lontano 1982 con l’ottimo Men Without Women, e che a tutt’oggi è di gran lunga la migliore tra le sue varie band (ci sarebbe anche una certa E Street Band, ma non è la “sua” band, bensì di qualcun altro…). Steven ha poi intrapreso un lungo tour mondiale per promuovere Soulfire, e questo triplo CD di cui mi accingo a parlare è lo splendido risultato: Soulfire Live! è un disco formidabile, inciso alla grande e suonato in maniera fantastica, un album nel quale il buon Van Zandt dimostra di essere un bandleader più che credibile, e nel quale veniamo accompagnati in un bellissimo viaggio nel soul, rhythm’n’blues e tanto rock’n’roll, musica potente ma anche incredibilmente romantica, merito di un gruppo che ha pochi eguali in quanto a tecnica, feeling ed energia.

Oltre a Steve, voce e chitarra, abbiamo Marc Ribler pure alla chitarra, la granitica sezione ritmica formata da Jack Daley, basso, e Rich Mercurio, batteria, Andy Burton all’organo, Lowell Levinger al pianoforte, Anthony Almonte alle percussioni, un coro femminile di tre voci (Jaquita May, Sara Devine e Tania Jones) e soprattutto il vero fiore all’occhiello della band, cioè una sezione fiati di cinque elementi (Eddie Manion è il leader, poi Stan Harrison, Clark Gayton, Ravi Best e Ron Tooley) che fornisce un vero e proprio “wall of sound” indispensabile nell’economia sonora di questo gioioso carrozzone. L’album era già uscito unicamente per il download a fine Aprile, ma solo con il contenuto dei primi due CD (il concerto vero e proprio, con brani presi da varie location), ma ora è stato aggiunto un dischetto bonus che, senza nulla togliere ai primi due che sono fantastici, è forse ancora più interessante. Steven nel corso della serata suona ad una ad una (cambiando l’ordine) tutte le canzoni di Soulfire, ma prende almeno un brano da ognuno dei suoi altri album, prediligendo sia Men Without Women che Voice Of America, con quattro scelte ciascuno, e lasciando le briciole agli altri tre, dai quali fa appena un pezzo a testa. Dopo un’introduzione semiseria da parte di Mike Stoller, leggendario songwriter che in coppia con Jerry Leiber ha scritto alcuni dei più famosi brani rock’n’roll di sempre, si parte ovviamente con Soulfire, più funkeggiante che mai, subito gran ritmo e potenza a mille: Steve forse non avrà una voce fantastica, ma è più che adeguata alla bisogna e, soprattutto, tiene per tutta la durata del concerto.

Lo splendido soul-rock I’m Coming Back, un brano degno della E Street Band, precede una formidabile Blues Is My Business (canzone di Etta James) di nove minuti, un’esplosione elettrica dove chitarre, piano e fiati si sfidano a duello con assoli a profusione, ed una calda atmosfera errebi che pervade il brano: grandissima musica. La scintillante Love On The Wrong Side Of Town è scritta assieme a Bruce Springsteen, e si sente, Until The Good Is Gone è presa dal primo solo album di Steve, e sono altri nove minuti di pura goduria, un pezzo che profuma di Stax Records, soul music piena d’anima (appunto) cantata benissimo da Steve (che gigioneggia non poco, qualcosa avrà pur imparato da Bruce) e suonata al solito con un feeling micidiale. Altri highlights del primo CD (non le nomino tutte se no devo fare una recensione a puntate) sono la festosa e danzereccia (nel senso buono) Angel Eyes, la sontuosa Some Things Just Don’t Change, soul song calda e vibrante di ispirazione Motown, la deliziosa e spectoriana Saint Valentine’s Day, tra le melodie più belle del concerto, l’irresistibile Standing In The Line Of Fire, che sembra uscita da un western musicato da Ennio Morricone, la potente Salvation, alla quale i Disciples Of Soul tolgono la patina hard rock dell’originale (era su Born Again Savage), la struggente e romantica The City Weeps Tonight, in cui Steve sembra quasi Willy DeVille.

Il secondo CD inizia con una monumentale Down And Out In New York City, tredici minuti di pura “blaxploitation” in cui i fiati si prendono il centro della scena, un brano quasi da colonna sonora alla Shaft, e si prosegue con la solida rock ballad Princess Of Little Italy, dal motivo epico. Abbiamo poi un trittico di canzoni “politiche” in stile dub-reggae (Solidarity, Leonard Peltier e soprattutto la coinvolgente I Am A Patriot, resa popolare da Jackson Browne) ed una cover in puro stile errebi di Groovin’ Is Easy degli Electric Flag. Altri momenti da segnalare sono il roboante rock’n’roll Ride The Night Away (purtroppo non c’è il DVD, ma penso che nessuno nella sala riesca a stare fermo), l’immancabile salsa-rock di Bitter Fruit, suo maggior successo come singolo, la sventagliata elettrica e ritmica di Forever e la stupenda e commovente I Don’t Want To Go Home, che diede il titolo al primo album di Southside Johnny. Ed eccoci al terzo dischetto, un CD composto al 99% da cover, molte di esse suonate una sola volta durante il tour, e più di una decisamente sorprendente. Si inizia con una splendida Even The Losers di Tom Petty in omaggio alla tragica ed inattesa scomparsa del biondo rocker, una versione tirata il giusto, cantata bene da Steve e con i fiati che le danno un sapore diverso (e poi il brano è già grande di suo). Can’t Be So Bad, dei Moby Grape, è suonata con Jerry Miller, autore del pezzo e chitarrista dello storico gruppo californiano, ed è un travolgente rock’n’roll all’ennesima potenza (con grande assolo da parte dell’ospite), così come You Shook Me All Night Long, proprio quella degli AC/DC, un brano che non ti aspetti da Steve e compagni ma che funziona eccome (ed è dedicata a Malcolm Young).

Working Class Hero è una delle canzoni più profonde di John Lennon, e questa versione elettrica, tesa e potente (l’originale era acustica) è una vera sorpresa, mentre con We Gotta Get Out Of This Place (Animals) i Discepoli Del Soul sono nel loro ambiente, ed infatti la rilettura è tra le più riuscite. Anche Can I Get A Witness, di Marvin Gaye, è perfetta per Steve e soci, ed il brano è impreziosito dalla presenza alla chitarra di Richie Sambora, che dimentica per un attimo i trascorsi con Bon Jovi e suona come si deve. It’s Not My Cross To Bear è un sentito omaggio a Gregg Allman ed alla Allman Brothers Band, una bella versione, calda e bluesata, anche se la voce di Steve non è certo quella di Gregg; la saltellante e festosa Freeze Frame, della J. Geils Band, vede salire sul palco proprio Peter Wolf, cantante originale del gruppo, per quattro minuti di puro divertimento, mentre The Time Of Your Life è l’unico pezzo scritto da Steve in questo CD (proviene dalla colonna sonora del film Nine Months), ed è una tenue ballata, romantica e stracciona alla maniera di Tom Waits, con una deliziosa fisarmonica sullo sfondo ed un motivo toccante. Finale con due pezzi che vedono i nostri raggiunti sul palco da Bruce Springsteen (non poteva mancare), per una Tenth Avenue Freeze-Out che è già perfetta quando a suonarla c’è solo un sassofonista (che sia Clarence o Jake Clemons), figuriamoci con un’intera sezione fiati come quella dei Discepoli, ed un’altra I Don’t Want To Go Home, leggermente più rock della precedente (ed un po’ mi sorprende l’assenza in questo CD da parte di Southside Johnny); chiusura con la natalizia Merry Christmas dei Ramones, in puro stile Phil Spector.

Little Steven con questo Soulfire Live! conferma il suo momento di grazia, e non ho alcuna difficoltà ad affermare che ci troviamo di fronte al disco live dell’anno: imperdibile.

Marco Verdi

Una Band Leggendaria Del Rock Californiano, Al Secondo Tentativo. Moby Grape – Ebbet’s Field 1974

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Moby Grape  – Ebbet’s Field 1974 – Keyhole

Di questi tempi un bel Live di un broadcast radiofonico non si nega a nessuno, figuriamoci ad una band che ai tempi è stata leggendaria e a tutt’oggi occasionalmente si esibisce con la formazione che registrò questo concerto del 1974. Stiamo parlando dei Moby Grape, grande gruppo californiano in attività soprattutto nella San Francisco del tempi aurei, tra fine anni ’60 e primi anni ’70, autori di alcuni splendidi album pubblicati dalla Columbia (soprattutto il primo) e poi ristampati una decina di anni fa dalla Sundazed in eccellenti, ma subito scomparse, a parte i due dischi di inediti tuttora in catalogo, edizioni rimasterizzate e potenziate che mettevano in evidenza il grande potenziale di una formazione che vedeva la presenza di ben cinque cantanti e compositori nel proprio organico. Skip Spence, una delle classiche “casualties” del rock, con una carriera afflitta da perenni problemi con droghe e acidi, fu presente solo fino al 1968 e con un breve ritorno di fiamma nel 1971, ma gli altri hanno fatto vari tentativi di ravvivare la loro storia: anche verso la fine del 1973, i due chitarristi Peter Lewis e Jerry Miller, con il bassista e leader Bob Mosley, e l’aggiunta del chitarrista Jeff Blackburn e del batterista Johnny Craviotto (in sostituzione del membro originale Don Stevenson, che per motivi misteriosi diventa Jerry, nelle raffazzonate note del CD) tentarono una ennesima reunion per una serie di concerti.

Sempre dalle suddette note, presenti nel libretto allegato e che in pratica sono un articolo della rivista ZigZag del giugno 1974, apprendiamo che all’inizio di quel tour le esibizioni della band non furono all’altezza della loro fama, ma quando si presentano al famoso Ebbet’s Field di Denver per un concerto destinato ad una trasmissione radiofonica paiono in ottima forma, come testimonia questo dischetto, la cui qualità sonora è buona senza essere memorabile, ma i cui contenuti sono assolutamente destinati a piacere agli estimatori del gruppo. I cavalli di battaglia ci sono tutti, lo stile è quello tipico del quintetto, un misto di rock, blues, folk-rock e qualche traccia di soul/jazz nonché di psichedelia leggera, sciorinato con ottimi intrecci vocali, uno dei loro punti di forza e intricati passaggi chitarristici. Ecco scorrere il vorticoso medley chitarristico dell’iniziale Changes/Falling con la voce “nera” di Mosley che si fa largo in un corposo sound tra rock e R&B, caratterizzato anche dalle armonie vocali sempre presenti, Ain’t No Secret è una potente rock song che evidenzia il sound d’assieme dei Grape, mentre Hey Grandma e Murder In My Heart (For The Judge) mettono in fila due dei loro brani migliori e più celebri, il primo un blues-rock westcoastiano incalzante di Lewis, il secondo, di Miller, uno dei loro pezzi più noti, una piccola “pepita” dello psych-rock della San Francisco di fine anni’ 60, sempre punteggiato dalle chitarre.

Gypsy Wedding era un brano leggermente funky estratto dall’unico album solista di Bob Mosley, con la potente voce del bassista in evidenza, seguito da una lunga rilettura di Miller’s Blues, un “lentone” che non aveva nulla da invidiare a quelli che Bloomfield, l’altro Miller, Steve e svariati altri musicisti proponevano come variazioni rock delle classiche 12 battute. Alcuni brani come Window To My Soul e Long Black Train, come pure la countryeggiante East Train (un pezzo presentato come di Hank Williams?) manco li ricordo, ma confermano la buona vena dei Moby Grape all’epoca, sempre con le chitarre in primo piano. Anche Silver Wings ha questo sound country-rock che imperava in quel periodo, mentre Get On Up ritorna al rock più vibrante, prima di arrivare al gran finale con la potente Can’t Be So Bad, il super classico Omaha e una Goin’ Down che fa sempre la sua porca figura, tra stilettate chitarristiche e voci in libertà.

Bruno Conti

Confermo Ancora Una Volta, Il Talento E La Classe Non Mancano! JW-Jones – High Temperature

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JW-Jones – High Temperature – Solid Blues Records             

JW-Jones, canadese di Ottawa, è praticamente abbonato  alle candidature ai Maple Leaf e Juno Awards, spesso li vince anche, ma è molto popolare pure oltre i confini canadesi, in quanto da qualche anno registra i suoi dischi in quel di Nashville, Tennesse. Nel 2014 per la produzione dell’ottimo Belmont Boulveard si era avvalso del lavoro di Tom Hambrdige, per questo nuovo High Temperature sul cadreghino del produttore siede il connazionale Colin Linden (Blackie And The Rodeo Kings, ma a lungo con Bruce Cockburn): i musicisti utilizzati sono in parte quelli della band di Jones, oppure pescati, come per l’album precedente http://discoclub.myblog.it/2014/12/13/proposito-bluesmen-classe-jw-jones-belmont-boulevard/ ,non solo dall’area blues specifica, ma anche in un ambito roots music, il batterista Bryan Owings (Emmylou Harris), il tastierista Kevin McKendree (a lungo con Delbert McClinton), lo stesso Linden alla seconda chitarra. Il risultato è un tipico disco di JW-Jones: molto raffinato e stiloso a tratti, con la Gibson del titolare che è in grado di tirare alcuni assoli di grande sostanza e grinta, ma anche lavorare in punta di fioretto, come ho detto in passato forse più Jimmie che Stevie Ray Vaughan, se vogliamo tracciare un parallelo con i fratelli texani.

Ci sono anche elementi di Clapton, o più ancora Robert Cray, profumi di jump e swing, ma anche sonorità più ruvide e tirate, per quanto la voce non memorabile, diciamo “adeguata”, non lo proietta tra i grandi del Blues. La distribuzione dei suoi dischi poi non è capillare, questo nuovo esce per la piccola etichetta canadese Solid Blues Records,  ma superate le difficoltà quello che andiamo ad esaminare è comunque un disco sopra la media dei prodotti blues in circolazione: ogni tanto scatta comunque quel quid che distingue l’artista che fa il compitino in modo compunto e le altre categorie, quella degli “esagerati” a tutti i costi, sopra le righe e fiammeggianti a tutti i costi, e quelli che si sono autoeletti portatori della tradizione, ma spesso sono solo noiosi e senza nerbo. Prendiamo la traccia iniziale, una Price You Pay decisamente energica, con la solista di JW-Jones che oscilla tra un timbro claptoniano e un tocco più raffinato alla Robben Ford, il blues è presente ma lo spirito del brano è decisamente rock, il nostro non ha una voce che infiamma, ma ci mette impegno e la chitarra disegna linee taglienti, mentre il resto della band, dal piano di McKendree ad una sezione ritmica in spolvero, regala una prestazione d’assieme di sicuro valore. Anche il secondo brano How Many Hearts ha questo spirito rock, grazie alla presenza della seconda voce di Jada Dreyer, cantante country canadese trapiantata anche lei a Nashville, qui grintosa e bluesata quanto basta per dare “stamina” ad un altro pezzo dal sicuro appeal. La title track High Temperature è uno shuffle più vicino alla tradizione delle 12 battute, ma la grinta non manca, il piano di McKendree è perfetto contrappunto alla solista di Jones, che si ritaglia brevi soli pungenti e di ottima tecnica.

Murder In My Heart For The Judge era un vecchio pezzo dei Moby Grape, su Wow/Grape Jam, ancora con gli elementi rock, quasi psych in questo caso, che vanno a braccetto con un blues comunque solido dove la chitarra viaggia fluida, spedita e sicura, sopra le evoluzioni della sezione ritmica, insomma si capisce che non siamo di fronte ad un Carneade qualsiasi. Who I Am è il classico slow blues con uso di organo dove di solito uno come Robert Cray eccelle, ma anche il nostro JW sa come costruire un insieme sonoro di grande presa, grazie alla sua solista dal feeling ineccepibile, e per l’occasione canta pure bene; Away Too Long ha un tocco quasi country (togliete il quasi), gradevole ed accattivante, con le armonie vocali di Liam Russell che sono perfette per il mood del brano. Same Mistakes è un altro solido blues-rock con una bella melodia facile da memorizzare, e organo e chitarra che si scambiano licks con grande fluidità e pure Leave Me Out ha quegli elementi piacevoli da ballata roots, con leggere velleità radiofoniche. che non guastano, e un sapido solo di slide che dà il tocco di classe.

Midnight Blues è una cover di un brano di Charlie Rich, uno che sapeva mescolare swing, rock, country e blues, come fa JW-Jones nella sua grintosa rilettura, prima di andare a ripescare un brano a firma Leon Russell, Out In The Woods, che diventa una sorta di tributo al recentemente scomparso pianista americano, un brano tratto da Carney, che fonde di nuovo rock, blues e R&B, in una versione veramente grintosa. Already Know è un’altra ballata morbida e melliflua che svela questo lato più da cantautore di JW-Jones, a cui forse manca la grinta ma non un gusto sopraffino; grinta che torna per Where Do You Think I Was, altro rock-blues di sicuro valore con chitarra in evidenza, come nella conclusiva Wham, il poderoso strumentale di Lonnie Mack, che è uno dei capisaldi del blues misto a R’n’R, e con la solista che viaggia che è un piacere. Insomma il talento non manca.

Bruno Conti

Segnali Di Vita Dal Passato. Lee Michaels – Heighty Hi The Best Of Lee Michaels

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Lee Michaels – Heighty Hi The Best Of Lee Michaels – Manifesto Records 

Il caso di Lee Michaels è diverso da quelli di molti artisti che periodicamente vengono “scoperti”, grazie alle ristampe di dischi di culto che magari ai tempi non avevano neppure avuto una circolazione adeguata o erano stati pubblicati a livello underground, o più spesso ancora si erano persi nei meandri dell’epoca d’oro del rock. Per questo signore la storia è diversa: nato a Los Angeles nel 1945, la sua carriera musicale inizia a metà anni ’60 quando si sposta poco più a nord, in quel di San Francisco e forma la sua prima band, i Sentinals, con Johny Barbata (futuro batterista di Turtles, Jefferson Airplane e Starship, nonché di CSN&Y), ma anche Joel Scott Hill poi con i Canned Heat, e Bob Mosley dei Moby Grape, a seguire arrivano i Family Tree con Bob Segarini, e nel 1967 firma un contratto come solista con la A&M. Ha fatto anche il sessionman come organista con Hendrix ed aveva come manager Matthew Katz, lo stesso di Jefferson Airplane, It’s A Beautiful Day e Moby Grape, quindi la possibilità di esibirsi in locali come l’Avalon Ballroom e il Fillmore West a fianco dei migliori musicisti californiani dell’epoca.

Il primo album, Carnival Of Life, uscirà per la A&M nel 1968, come pure i sei successivi, fino al doppio dal vivo del 1973, saranno per la stessa etichetta, entrando spesso nei Top 100 delle classifiche americane e producendo anche un singolo di successo come Do You Know What I Mean, giunto al 6° posto delle classifiche nel 1971 e un altro brano nei Top 40 come la cover di Can I Get A Witness di Marvin Gaye. Entrambi i brani si trovano in questa antologia della Manifesto che attraverso le sue venti canzoni ripercorre il periodo migliore di Michaels (che produrrà ancora tre album per la Columbia, salvo poi sparire completamente, aprendo un ristorante di successo a Marina Del Rey e un paio di timidi ritorni nel mondo della musica, tra il 1996 e il 2008, passati sotto silenzio). Anche a livello ristampe Lee Michaels non è stato trattato particolarmente bene: tre antologie pubblicate da Rhino e Shout, oltre ad una della One Way, che aveva ristampato anche i suoi singoli album, non in modo particolarmente brillante a livello sonoro e di contenuti, spariti in fretta https://www.youtube.com/watch?v=oCjgmM4ZUNs .

lee michaels complete a&m

Ora la Manifesto records oltre alla antologia di cui ci occupiamo ha pubblicato anche un sontuoso ( e costoso) box da 7 CD, The Complete A&M Album Collection, che raccoglie tutti gli album fino al 1973. Dicevo all’inizio che il caso di Michaels è diverso da quelli di altre ristampe, in quanto l’artista ai tempi vendeva parecchio, i suoi dischi avevano ottime critiche ed erano indubitabilmente piuttosto buoni tutti. Uno stile che oscillava tra il rock classico dei tempi e una vena che potremmo definire “Blue-eyed soul”, non diversa da quella di artisti come il Todd Rundgren del primo periodo, con la sua miscela di tastiere, piano e organo erano gli strumenti di Michaels, venati di rock anni ’70 (a tratti ricordando anche i primi Vanilla Fudge), pop melodico ma di ottima qualità, accenni psych e garage, e soprattutto molto soul bianco influenzato dalla Motown. I brani non sono in ordine cronologico, quindi si passa da uno stile all’altro dei diversi album, ma si apprezza comunque la qualità della musica: il rock-gospel, quasi alla Stephen Stills di Love The One You’re With, di Heighty Hi, con le sole tastiere e una batteria a tenere il tempo, oltre a dei coretti “neri”, il pop-rock gioioso di Do You Know What I Mean, con la bella voce di Michaels in evidenza, lo psych-rock di If I Lose You, con rare apparizioni di fiati e chitarre (si era agli inizi nel 1968) a fianco delle tastiere barocche di Lee.

La quasi classicheggiante The War (con echi dei Vanilla Fudge citati e continui florilegi di organo), la rara Goodbye, goodbye, una b-side d’epoca che evidenzia le influenze Motown. Hello, decisamente più rock e grintosa, Carnival Of Life, ricercata e acida, Uummm My Lady, una bella ballata pianistica, Keeps The Circle Turning, di nuovo quel gospel-rock che all’epoca funzionava, Thumbs, più complessa negli arrangiamenti, con chitarre acustiche ed elettriche a variare lo spettro sonoro, Can I Get A Witness, è il rock and soul che ci si potrebbe aspettare, mentre Hold On To Freedom  https://www.youtube.com/watch?v=PzgPhEclDh4 segnala la svolta più rock del disco del 1972 Space And First Takes,e Murder In My Heart (For The Judge) è una bella cover del pezzo dei Moby Grape, West Coast acida al punto giusto https://www.youtube.com/watch?v=059KzboKC_A . Sounding The Sleeping è rock con inserti classicheggianti, e Michaels non si fa mancare neppure una deviazione nel blues alla Al Kooper con Stormy Monday https://www.youtube.com/watch?v=rqWgSn45hIY  o nelle dolcezze di What Now America e No Part Of It, e di nuovo nello psych-rock della conclusiva Love https://www.youtube.com/watch?v=9FUk58acCT8 . Insomma non un genio ma un brillante musicista americano ingiustamente dimenticato dal tempo!

Bruno Conti

Dischi Dal Vivo, “Nuovi E Vecchi”, Più O Meno Ufficiali! Parte 2: Flying Burrito Brothers, Moby Grape, Blues Project, Frank Zappa & Captain Beefheart, Joni Mitchell, Doobie Brothers

flying burrito brothers seattle pop festival

Anche questo CD dal vivo è stato pubblicato dalla Keyhole, più o meno a ottobre dello scorso anno, e riguarda i Flying Burrito Bros al Seattle Pop Festival July 27th 1969 al Gold Creek Park di Woodinville, Washington in un Festival a cui parteciparono anche Chicago, Santana, Chuck Berry, Byrds, Led Zeppelin. La qualità sonora, in questo caso, non è fantastica, comunque non orrrida visto il periodo da cui proviene, ma il concerto è interessante, con questa scaletta:

1. Close Up The Honkytonks
2. Dark End Of The Street
3. Mental Revenge
4. Image Of Me
5. Christine’s Tune
6. Sin City
7. Out Of Control
8. Wake Up Little Susie
9. You Win Again
10. We’ve Got To Get Ourselves Together
11. She Thinks I Still Care
12. Dream Baby
13. Lucille
14. Take A Message To Mary
15. Train Song
16. South Cave Blues

moby grape live at stony brook

Nuovamente Keyhole e ancora più indietro nel tempo andiamo per questo CD dei Moby Grape Live At Stony Brook University, NY, October 22nd 1968. Qualità sonora variabile, mediamente non memorabile, il concerto però è notevole, grande versione di Can’t Be So Bad, questi i brani contenuti nel dischetto:

1. Mr. Blues
2. 8:05
3. Trucking Man
4. If You Can’t Learn From My Mistakes
5. Can’t Be So Bad
6. Sitting By the Window
7. Murder In My Heart For the Judge
8. Fall On You
9. After All
10. Hey Grandma
11. It’s a Beautiful Day Today
12. Miller’s Blues/Omaha

blues project live at the matrix

Sempre edito dalla Keyhole anche questo CD, un doppio dei Blues Project Live At The Matrix September 1966, quindi sempre più indietro nel tempo, 17 brani con la formazione originale guidata da Al Kooper all’organo, Danny Kalb alla chitarra solista, Steve Katz alla seconda chitarra e armonica, Andy Kulberg al basso e al flauto e Roy Blumenfeld alla batteria. Grande concerto, qualità sonora più o meno simile ai live ufficiali dell’epoca, ma la durata è di quasi due ore, c’è anche la versione originale di Ma Che Colpa Abbiamo Noi, Cheryl’s Going Home e due versioni di Flute Thing, oltre a I Can’t Keep From Crying Sometimes, Lousiana Blues, Wake Me Shake Me e tutti gli altri classici.

frank zappa captain beefheart providence

La registrazione di questo doppio CD viene dallo stesso tour da cui fu estratta la parte live del mitico Bong Fury. Siamo nell’aprile del 1975 Frank Zappa & Captain Beefheart insieme al Providence College, Rhode Island, broadcast radiofonico di buona qualità dove scorrono Camarillo Brillo, Stink Foot, The Torture Never Stop, Montana, e molte altre con e senza Don Van Vliet, oltre due ore di concerto, il doppio della durata di Bongo Fury, che non era neppure tutto dal vivo, quindi direi fondamentale per gli zappiani e chi non ce l’ha già come bootleg https://www.youtube.com/watch?v=HRd1h0gImM4. Etichetta ancora Keyhole.

joni mitchell newport folk festival

Continuiamo con i titoli della Keyhole, questo è uscito a fine gennaio del 2015: Joni Mitchell Newport Folk Festival 19th July 1969, la qualità sonora è molto buona, l’unica critica è che ci sono 8 brani, poco più di mezz’ora di musica, ma possiamo ascoltare:

1. Chelsea Morning
2. Cactus tree
3. Night in the City
4. For Free
5. Willy
6. The Fiddle and the Drum
7. Both Sides Now
8. Get Together

Bellissimo concerto, uno dei migliori degli anni del periodo folk https://www.youtube.com/watch?v=DXe95iTtci0

doobie brothers ultrasonic studios

Uscito circa un mese fa, indovinato, è della Keyhole, fa parte della serie di concerti registrati agli Ultrasonic Studios di cui si è parlato anche recentemente sul Blog (Little Feat, Bonnie Raitt, Lowell George, Ry Cooder), titolo dedicato aid Doobie Brothers Ultrasonic Studios, West Hampstead, NY, 31st May 1973, siamo nel periodo di maggiore splendore della band (e un live ufficiale della band in CD non esiste, considerando che il Farewell Tour, Rhino o giapponese circola solo prezzi assurdi, e comunque è relativo al periodo 1983, quando il gruppo era in fase calante, pur essendo un buon concerto). Sentite come suonavano in quell’anno https://www.youtube.com/watch?v=zPNOTTZdeM0 e in questo concerto trasmesso dalla radio WLIR FM 92.7 anche meglio, poco importa se ci saranno stati 18 spettatori (per dire) e la qualità sonora non è meravigliosa, sound un po’ crudo però una sequenza Long Train Running, Listen To The Music, China Grove e Rockin’ Down The Highway non è malaccio.

Domani proseguiamo e concludiamo con altri titoli Live.

Bruno Conti