Semplicemente Il Loro Miglior Disco Dagli Anni Settanta In Poi! Outlaws – Dixie Highway

outlaws dixie highway

 Outlaws – Dixie Highway – Steamhammer/SPVCD

Il nuovo millennio non si è rivelato molto ricco di novità discografiche per quanto riguarda i gruppi storici del filone southern rock, in parte anche per l’età avanzata dei loro componenti. Gli Allman si sono sciolti nel 2014 (e comunque il loro ultimo album con materiale nuovo risaliva al 2003), la Marshall Tucker Band si esibisce solo più dal vivo, i Lynyrd Skynyrd ogni tanto incidono ma sono ormai fermi dal 2012, gli Atlanta Rhythm Section sono spariti (e comunque non azzeccavano un disco dagli anni settanta), Charlie Daniels ha una bella età e poi è da tempo un artista country, mentre i Black Oak Arkansas hanno tentato il rientro lo scorso anno ma il loro Underdog Heroes era orrendo: gli unici ancora abbastanza attivi sono i Molly Hatchet, ma i loro lavori seppur non disprezzabili sfociano spesso in un hard rock di grana grossa.

Questa introduzione per dire che non è che io abbia sentito chissà quali vibrazioni quando ho saputo che gli Outlaws, band originaria di Tampa ed attiva dal 1975, erano in uscita con un nuovo disco, anche perché li ho sempre considerati un gruppo minore anche nel loro periodo di massima fama, con nessuno dei loro album nella Top Ten (l’esordio omonimo si fermò alla tredicesima posizione), qualche successo minore come singolo con There Goes Another Love Song e la cover di (Ghost) Riders In The Sky ed almeno un classico assoluto con Green Grass And High Tides, da sempre punto centrale dei loro concerti (e dal vivo sono ancora validissimi, basti ascoltare l’album del 2016 Legacy Live https://discoclub.myblog.it/2017/02/28/una-eredita-per-nulla-smarrita-molto-viva-outlaws-legacy-live/ ). Dixie Highway, questo il titolo del nuovo CD dei Fuorilegge (che arriva ad otto anni dal discreto It’s About Pride), mi ha però fatto ricredere sin dal primo ascolto lasciandomi addirittura a bocca aperta in più di un momento: i nostri non hanno mai perso l’abilità nel suonare, la loro musica si conferma perfetta per chi ama il rock-boogie chitarristico più ruspante, ma in Dixie Highway c’è anche una qualità compositiva che non credevo più possibile a questo punto della loro carriera, che unita a massicce dosi di feeling fanno sì che l’album si possa addirittura considerare il loro migliore dagli anni settanta in poi.

Non è un capolavoro assoluto, ma un disco ben scritto, cantato in maniera adeguata e suonato alla grande, e credo che i fan del gruppo e della musica southern in generale non possano chiedere di più. Gli unici due membri fondatori ancora nella band sono il chitarrista e cantante Henry Paul ed il drummer Monte Yoho, e completano il settetto gli altri chitarristi Steve Grisham e Dave Oliver, il bassista Randy Threet, il tastierista Dave Robbins e l’altro batterista Jaran Sorenson (c’è anche un quarto chitarrista ospite, Billy Crain, quindi è garantito un bel muro del suono). Southern Rock Will Never Die (ottimo titolo) fa partire il disco nel modo migliore, una rock song potente, solida e trascinante con un ritornello corale irresistibile (nel quale vengono elencate solo per nome alcune leggende scomparse come Steve Gaines, Ronnie Van Zant, Gregg e Duane Allman, Berry Oakley, Toy e Tommy Caldwell nonché The Flame, che era il soprannome dell’ex compagno di avventura Hughie Thomasson) ed una serie di assoli strepitosi: inizio eccellente. Heavenly Blues è una rock ballad vivace e solare, con un altro refrain perfetto ed una chitarra decisamente melodiosa, alla Dickey Betts, a differenza della title track che è puro rock’n’roll sotto steroidi, con le chitarre che guizzano da tute le parti ed un tono epico: tre canzoni e sono già pronto a mettere Dixie Highway tra i migliori album degli Outlaws.

La deliziosa Over Night From Athens è più sul versante country-rock, ma sempre in puro stile southern come era solita fare la Marshall Tucker Band, Endless Ride è una ballatona elettrica tesa come una lama e con una melodia decisamente evocativa e ricca di pathos, mentre Dark Horse Run inizia acustica e si sviluppa fluida e sinuosa, con il ritmo sempre sostenuto e l’ennesimo refrain corale che prende all’istante. Rattlesnake Road è un boogie roboante e diretto come un pugno nello stomaco, ancora con un gran lavoro delle chitarre e tanto sudore (ricorda gli ZZ Top quando sono in forma), Lonesome Boy From Dixie è puro southern rock anni settanta, con chitarre pulite e scintillanti ed un train sonoro coinvolgente. Lo strumentale allmaniano Showdown, puro guitar power, prelude al gran finale di Windy City’s Blue, rock song perfetta per gli spazi aperti e con una fantastica accelerazione elettrica circa a metà canzone, e di Macon Memories, brano più lento e nostalgico ma che non rinuncia alla grinta, finale ad hoc per un disco bellissimo e sorprendente che tiene ben alto il vessillo (invero un po’ sciupato) del southern rock.

Marco Verdi

Una Eredità Per Nulla Smarrita, Anzi Molto “Viva”! Outlaws – Legacy Live

outlaws legacy live

*NDB Leggendo un commento su loro Live dell’86 che vedete a fianco, e che a grandi linee condivido, mi sono accorto che non avevo ancora postato la recensione di questo doppio dal vivo degli Outlaws, uscito qualche tempo fa, e visto che il Southern rock è sempre bene accetto sul Blog e il Live è notevole, rimedio subito.

Outlaws – Legacy Live – 2 CD SPV/Steamhammer

Ultimamente c’è stata una vera proliferazione di pubblicazioni dedicate a dischi dal vivo degli Outlaws, spesso eccellenti, come il Los Angeles 1976, o comunque molto buone, vedi Live At The Bottom Line Live ’86, entrambi editi dalla Cleopatra http://discoclub.myblog.it/2016/09/14/meglio-il-live-uscito-lo-scorso-anno-anche-male-the-outlaws-live-at-the-bottom-line-new-york-86/ . Ora esce questo Legacy Live, registrato nel tour del 2015 dall’ultima formazione della band, quella che vede presenti dei membri originali solo il cantante e chitarrista Henry Paul e il batterista Monte Yoho. Con loro ci sono anche, nella line-up comunque a tre chitarre, Steve Grisham (Henry Paul Band, Brothers Of The Southland), già presente nel periodo 1983-1986 e Chris Anderson (anche con Dickey Betts, Lucinda Williams e Lynyrd Skynyrd) dal 1986 al 1989, entrambi alla solista, oltre al bassista Randy Threet e al tastierista Dave Robbins, tutti (ri)entrati nella band negli anni 2000. Non c’è più Hughie Thomasson, l’altro leader, scomparso nel 2007, mentre nel disco del 2012 It’s About Pride, l’ultimo in studio, alla chitarra c’era l’ottimo Billy Crain. E contrariamente alle mie aspettative (e a quelle di molti altri fan) anche questo doppio dal vivo è molto buono, la band della Florida è in gran forma e propone il proprio southern aggressivo e chitarristico con una grinta e una vivacità che latitano in altre formazioni storiche del rock sudista.

Niente di nuovo, e ci mancherebbe, ma i nostri non appaiono bolliti e neppure troppo sopra le righe, riuscendo a non fare troppo rimpiangere il periodo d’oro degli anni ’70, il 1975 per la precisione, l’anno di uscita del primo album, di cui nel tour si festeggiava il 40° Anniversario. 21 canzoni (compresa la breve intro iniziale) dove scorrono i grandi successi del gruppo, ma anche alcuni brani tratti da It’s About Pride: si parte subito bene con una gagliarda There Goes Another Love Song, che mette subito in evidenza anche gli elementi country presenti nel DNA del gruppo, sia con ottime armonie vocali, sia con il sound dove le chitarre sono regine, ma la melodia non è mai assente, senza esagerare con continue prove troppo muscolari (che non mancano comunque, non temete). Eccellente anche un altro classico come Hurry Sundown, dove i classici e continui rilanci del loro credo musicale sono in bella evidenza, con assoli di chitarra che si susseguono a ritmo serratissimo. Ma pure la recente Hidin’ Out In Tennessee non sfigura rispetto al vecchio repertorio, con le chitarre spesso impegnate ad armonizzare all’unisono nel classico sound à la Outlaws e poi scatenarsi in micidiali call and response; Freeborn Man era su Lady In Waiting, quando c’era ancora Billy Jones, ed è la consueta perfetta miscela di country e rock di gran classe, anche con cambi di tempo repentini e raffinati. Ma nell’alternanza tra nuovi e vecchi pezzi non ci sono discrepanze, buoni entrambi, come conferma la riffatissima Born To Be Bad del 2012 dove sembra di ascoltare degli ZZ Top più melodici, o Song In The Breeze dal 1° omonimo album.

Girl From Ohio ricorda un pezzo di country-rock degli Eagles, della Nitty Gritty o dei Poco, mentre nell’unisono splendido delle soliste in Holiday sembra di ascoltare i Wishbone Ash migliori. Poi, certo, ci sono i cavalli di battaglia: Gunsmoke, di nuovo da Hurry Sundown o la lunga e tirata Grey Ghost, la title-track del disco omonimo, dove si apprezza di nuovo il finissimo intrecciarsi delle varie chitarre soliste; si torna di nuovo al country velocissimo e corale di una South Carolina che mi ha ricordato di nuovo moltissimo i primi Eagles e nell’attimo successivo passiamo ad una ballata mid-tempo avvolgente come So Long e ancora a una Prisoner, tratta da Lady In Waiting, che ondeggia tra Pink Floyd ed Allman Brothers. Cold Harbor,elettroacustica e raccolta, quasi alla CSNY, è seguita da Trail Of Tears, dall’inedito Once an Outlaw, l’ultima prova postuma con Thomasson. Notevole pure la corale It’s About Pride, dove risalta anche il piano di Robbins, ma a ben vedere non c’è un brano debole in questo bellissimo doppio dal vivo, come conferma il gran finale, prima con la scatenata Waterhole, che rievoca certi strumentali splendidi dei dischi dei Poco, poi la deliziosa Knoxville Girl, sempre dal primo classico album e Green Grass And High Tides, che è la loro Free Bird, un vero festival delle chitarre elettriche, tredici minuti di pura goduria dove le soliste si rincorrono, si intrecciano e si scatenano in modo splendido. E non è finita, perché pure l’entusiasmante (Ghost) Riders In The Sky dimostra che gli attuali Outlaws, almeno dal vivo, non hanno nulla da invidiare alla loro versione più giovane dei tempi che furono. Grande disco!

Bruno Conti