Il Babbo Era Un’Altra Cosa, Ma Anche Lui Se La Cava. Mud Morganfield – They Call Me Mud

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Mud Morganfield  – They Call Me Mud – Severn Records

Quando si leggono le biografie dei musicisti, soprattutto quelle dei bluesmen, uno spesso non può fare a meno di farsi quattro risate: prendiamo i due figli di Muddy Waters (ce ne sarebbe anche un terzo, ex stella del basket al liceo, che ora ha lanciato pure lui una carriera nella musica, con i fratelli), entrambi sono nati verso la metà degli anni ’50, hanno avuto pochissimi contatti con il padre e, casualmente, hanno iniziato ad occuparsi di musica dopo la morte di Morganfield, avvenuta nel 1983. Quello che è curioso, leggendo queste biografie, soprattutto di  chi si muove nell’ambito del blues, è il fatto che nel caso di Big Bill Morganfield https://discoclub.myblog.it/2017/02/13/degno-figlio-di-tanto-padre-per-quanto-possibile-questa-volta-si-big-bill-morganfield-bloodstains-on-the-wall/  ci sono voluti circa 15 anni prima di pubblicare un album, nel 1997, mentre nel caso del figlio maggiore Mud Morganfield, l’album di esordio, autogestito, esce nel 2008: quindi non si può fare a meno di chiederci, ma cosa diavolo ha fatto in quei  trent’anni? Perché le biografie di solito non elaborano molto. Comunque accantoniamo questi quesiti e veniamo al quarto album (terzo per la Severn Records, l’etichetta di Chicago), anche se alcune discografie ne riportano sei, di Larry Williams a.k.a. Mud Morganfield: come nel caso dei dischi di Big Bill Morganfield, per questo They Call Me Mud ci troviamo di fronte ad un più che onesto album di blues elettrico di Chicago.

Per intenderci, anche se prendiamo i due figli e li sommiamo non otteniamo comunque un “vero” Muddy Waters. La voce, il timbro vocale, a tratti, è molto simile, ma la classe è ben altra cosa, comunque chi va alla ricerca di dischi comunque incentrati sulle 12 battute classiche troverà delle discrete sensazioni  nell’album: la produzione è affidata, insieme a Mud, al chitarrista Rick Kreher, marginalmente legato a Waters in quanto ha suonato nell’ultima band del grande bluesman (era presente anche nel  concerto al Checkerboard Lounge, il live con gli Stones del 1981), poi ha avuto una onesta carriera suonando con Studebaker John, presente anche lui in questo disco, insieme ad altri buoni musicisti locali, tra cui si segnalano Billy Flynn alla chitarra, Sumito Aryio Aryhoshi al piano e una piccola sezione fiati, presente nella metà dei brani, oltre agli ospiti Billy Branch all’armonica e Mike Wheeler alla chitarra, nonché la figlia di Mud Lashunda Williams che duetta con il babbo in un  brano. Inutile dire che i pezzi migliori sono le due cover estratte dal repertorio di Waters, per quanto le canzoni firmate da Mud Morganfield, che suona pure il basso in 3 brani, sono di passabile fattura.

Nella musica di Morganfield Jr. c’è anche una abbondante presenza di elementi soul e r&b, grazie alla presenza dei fiati segnalata poc’anzi, come evidenziano l’iniziale They Call Me Mud, cantata con piglio autorevole e brillantezza vocale dal nostro amico che ha imparato la lezione di famiglia con impegno, come viene ribadito nel funky blues della fluida 48 Days, con chitarre, piano, armonica e tastiere ben amalgamate nel sound d’assieme, ma anche nella deliziosa soul ballad Cheatin’ Is Cheatin, cantata con timbro mellifluo e piacevole. Meno memorabile Who’s Foolin’ Who, un funky blues più generico; viceversa più incisiva la cover di Howling Wolf di babbo Muddy, con una bella slide tangenziale e l’armonica a tirare le fila del sound, puro Chicago Blues, buon risultato ripetuto anche in Can’t Get No Grinding, sempre a firma Waters, con la guizzante armonica di Studebaker John e il piano di di Aryhoshi in evidenza, oltre alle chitarre di Flynn e Kreher. Detto del  duetto con la figlia Lashunda in Who Loves You, abbastanza zuccheroso e stucchevole, non dispiacciono la grintosa Oh Yeah, che ricorda molto l’augusto  genitore e il blues fiatistico di Rough Around The Edge e la piacevole Mud’s Groove, uno strumentale con Billy Branch all’armonica.

Bruno Conti

Una Sorta Di “Mini” Supergruppo (Con Ospiti), Questo Sì Che E’ Blues! Mannish Boys – Double Dynamite

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Mannish Boys – Double Dynamite – 2CD Delta Groove –

Questo potrebbe essere considerato una sorta di “mini” Supergruppo del Blues: con gente in formazione come Finis Tasby, Frank Goldwasser, Kirk Fletcher, il boss della Delta Groove Randy Chortkoff all’armonica, una solida sezione ritmica e sei album alle spalle, i Mannish Boys si sono costruiti una reputazione come una delle migliori formazioni in circolazione. Ma in questo nuovo doppio album Double Dynamite si sono decisamente superati! Secondo me, oltre che per la lunghissima lista di ospiti che si alternano nei 26 brani, è l’arrivo di Sugaray Rayford che ha contribuito in modo non equivoco al successo di questo album. Una “personcina” imponente fin dall’aspetto fisico, come si può rilevare dalla copertina del CD, questo signore canta nove brani in totale nell’album ma stampa la sua presenza come una voce di quelle che si sentono raramente, potente, gagliarda, espressiva, sia alle prese con il soul che con il Blues e anche col funky, con un carisma che risalta anche dall’ascolto del disco in studio, ma dal vivo deve essere ancor più evidente. Senza sminuire il lavoro di tutti i musicisti all’opera in questo album che si candida per essere uno dei migliori dell’anno nell’album nell’ambito Blues-Soul-R&B.

Diviso in due dischi intitolati rispettivamente Atomic Blues e Rhythm & Blues Explosion il doppio parte subito alla grande con una versione di Death Letter di Son House, cantata appunto da Rayford (era presente anche nel suo unico disco solista del 2010 Blind Alley, dove suonano fior di musicisti, tra gli altri Tim Bogert, Gary Mallaber e Phil Parlapiano, se lo trovate non lasciatevelo scappare): Frank Goldwasser con una minacciosa slide si divide il proscenio con l’omone. E da lì è un tripudio (esageriamo!), Finis Tasby, anche se nella suddetta copertina sembra il nonno degli altri, ma ha “solo” 72 anni, è ancora un signor cantante e lo dimostra in una Mean Old World  illuminata anche dai primi ospiti, Rod Piazza all’armonica e Elvin Bishop pure lui alla slide. E il Blues pulsa anche nell’eccellente Bricks In My Pillow con Sugaray ancora ottimo vocalist, il pianino di Rob Rio e la solista di Goldwasser facilitano. Da Jackie Payne, altro vocalist di grande talento della scuderia Delta Groove mi aspettavo uno sfracello nella versione di She’s 19 Years Old/Streamline Woman, e quasi ce la fa ad avvicinarsi al grande Muddy Waters, il titolare dei brani, ma quasi, ancora Goldwasser e Piazza sugli scudi.

Torna Tasby per una saltellante Never Leave Me At Home con l’armonica di Chortkoff al proscenio per la prima volta. Mud Morganfield è il figlio maggiore di McKinley (detto anche Muddy) e proprio recentemente ha pubblicato il suo debutto per la Severn (non c’è paragone con Big Bill, l’altro figlio): non sempre “i figli di” si rivelano all’altezza dei genitori ma spesso il problema sta nel manico, la voce c’è e se i musicisti sono all’altezza, tutto funziona alla grande come in questa versione umorale di Elevate Me Mama con Bob Corritore e Rob Rio ad attizzare il vocalist ed i Mannish Boys. Non ve la faccio lunga perché i brani sono tanti ma la Bad Detective cantata da James Harman, ottimo anche all’armonica, è notevole, come pure lo spazio dedicato sempre al “soffio” di Jason Ricci in Everybody Needs Somebody che non è quella di Solomon Burke ma il brano di Litte Walter. Tasby, Chortkoff e soprattutto il bravo Rayford (sentire come canta The Hard Way, uno slow blues di Otis Spann), si dividono gli altri spazi vocali prima di lasciare la scena nuovamente a Morganfield  per il finale di Mannish Boy che avrebbe fatto felice l’augusto babbo!

Ed è solo il primo CD, il secondo se possibile è anche meglio: tra soul e R&B, come da titolo, e con una sezione di fiati a potenziare la già impressionante batteria di musicisti. Anche in questo caso partenza sparata con una tiratissima Born Under A Bad Sign, canta Finis Tasby, la solista pungente è quella di Bishop nuovamente, i fiati sono sincopati come si conviene e l’organo Hammond di Mike Finnigan si fa sentire. L’istrionico Rayford canta la trascinante That Dood It con Kirk Fletcher alla solista, poi parte la festa del soul con una You’ve Got The Power che illustra il lato romantico di James Brown, cantata in coppia da Sugaray e Cynthia Manley, non conoscevo, bella voce. Il bassista Bobby Tsukamoto alza il fattore funky in Drowning On Dry Land con Nathan James alla solista, Fred Kaplan al piano, di nuovo Mike Finnigan all’organo e Rayford in overdrive . Finnigan ci regala una rara perfomance vocale e pianistica nella cover di puro R&B (non soul) di Mr. Charles Blues (ovviamente il Charles in questione è Ray). Ricorderei anche una versione strumentale di Cold Sweat con Tsukamoto ancora in gran spolvero e apparizioni varie di Jackie Payne, nuovamente, Kid Ramos, Junior Watson, Jason Ricci e gli altri Mannish Boys. Questo sì che è Blues!

Bruno Conti