La “Nonna” Del Southern Soul! Candi Staton – Life Happens

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Candi Staton – Life Happens – Beracah Records

La sua carta d’identità recita anni 74 (ma dalla cover del CD si vede che sono portati benissimo), anche se prima di leggere questa recensione, molti, tanti (purtroppo) non sapranno chi è Candi Staton, complice una carriera che ha portato questa meravigliosa cantante ad abbandonare la “soul music” per oltre un ventennio (dopo i successi degli anni ’70), per una serie di problemi personali (tra perdite personali, divorzi e dipendenza dall’alcol), trovando infine rifugio tra le mura della Chiesa, cosa che l’ha portata ad incidere per anni solo brani “gospel”. L’album della rinascita, lo splendido His Hands (06) venne alla luce sotto la produzione di Mark Nevers dei Lambchop, e conteneva undici perle che spaziavano fra soul e rhythm & blues, alcune cover d’autore, come Cry To Me di Bert “Russell” Berns, lanciata dal grande Solomon Burke, tutte cantate con “anima” genuina dalla Staton. Disco bissato dal successivo Who’s Hurting Now? (09), nell’interregno è stata pubblicata una compilation di gospel-soul come Evidence The Complete Fame Records Masters (11), con materiale d’archivio. Ora eccola di nuovo sul mio lettore con questo Life Happens, ad inondarci i padiglioni auricolari con la sua musica che spazia dal country rock al southern soul, con sfumature di toni blues e funky, facendosi produrre dal grande Rick Hall  titolare della Fame Records, ricomponendo un binomio di grande successo negli anni ’70.

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Per questo lavoro (il ventisettesimo della sua carriera, fidatevi, ho contato e ricontato) oltre a musicisti di area, Candi si è avvalsa, tra gli altri, di Toby Baker e Larry Byron alle chitarre, Mose Davis alle tastiere, Mike Burton al sassofono, Steve Herman al corno, e di suo figlio Marcus Williams (ha suonato anche con Isaac Hayes e Peabo Bryson) alla batteria, registrando il tutto negli storici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama https://www.youtube.com/watch?v=QvpfqzZjpOI .

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Life Happens è una miscellanea di generi che dal brano d’apertura, Three Minutes To A Relapse condiviso con Jason Isbell e John Paul White dei Civil Wars, spazia tra il rhythm and blues di brani come Go Baby Go, Close To You e Where Were You When You Knew?, le atmosfere soul di Have You Seen The Children? e Beware, She’s After Your Man, passa per il funky affumicato alla Etta James di Never Even Had The Chance e Even The Bad Times Are Good, ma è indubbio che siano le ballate dove Candi dà il meglio di sé, nelle languide My Heart’s On Empty, I Ain’t Easy To Love https://www.youtube.com/watch?v=9J-7KChSle8 e You Treat Me Like A Secret, Commitment, per finire con le struggenti armonie di una Better World Coming, e i leggeri rintocchi di pianoforte e chitarra, che dialogano brillantemente con la Staton e varie voci di supporto in una celestiale For Eternity.

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La cantante di Hanceville, Alabama, con quattro decenni di carriera alle spalle, è stata sicuramente artefice di un percorso artistico che per un certo periodo l’ha vista anche protagonista della “disco”, attraversando il deserto per la redenzione con il “gospel”, e trovando la meritata serenità con la triade iniziala con His Hands, fino a giungere a questo Life Happens, dove ogni canzone è la storia della sua vita, con tutti i suoi alti e bassi, gioie e dolori (amori, disperazione, redenzione e speranza). Per chi scrive è bello sapere che Candi Staton non è andata via, canta ancora per noi, perché di dischi cosi, personalmente ne vorrei almeno uno al mese. Altamente consigliato.

Tino Montanari

Grande Chitarrista, Grande Cantante, Altri Nove Ottimi Musicisti (E Qualche Amico): Che Disco! Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind

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Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind – Sony Masterworks

Sarà un caso che il disco esca per il ramo Masterworks della Sony, quello dedicato alla musica classica? Ovviamente no, in quanto l’album è già un piccolo “classico” nel suo genere. Già ma quale genere? Direi rock, blues, soul (tra Stax e Motown, con una spruzzata Muscle Shoals), funky e jazz, quindi di tutto un po’. Come facevano Delaney & Bonnie & Friends (con Eric Clapton) più di 40 anni fa. Ma la musica non risente del tempo che passa, anzi, come il buon vino, migliora. La fusione dei gruppi di Derek Trucks e della moglie Susan Tedeschi, che all’inizio poteva sembrare un azzardo, si è rivelata una mossa azzeccata: al di là del fatto che sicuramente non deve essere facile mantenere e portare in giro una band di 11 elementi, i risultati, prima con Revelator nel 2011, poi con l’eccellente doppio dal vivo Everybody’s Talkin’, che esplorava il lato più improvvisativo del gruppo e ora con questo eccellente Made Up Mind, confermano che la Tedeschi Trucks è una delle migliori entità musicali attualmente in circolazione sull’orbe terracqueo.

Come dice il titolo, un grande chitarrista, Derek Trucks, soprattutto alla slide, degno erede di Duane Allman e che rivaleggia con Ry Cooder per la maestria all’attrezzo, ma ottimo chitarrista anche complessivamente, nel lato ritimico e solista, e anche come compositore. Una grande cantante, Susan Tedeschi, in possesso di una voce bellissima, roca e sensuale, dolce e potente al tempo stesso, degna erede di voci come quella di Bonnie Raitt, di cui in questo disco, leggo da qualche parte, si sarebbe affrancata dalle, diciamo, affinità elettive, manco si parlasse di madonna o kylie minogue, non di una delle più grandi cantanti e chitarriste bianche nell’ambito blues e rock e quindi si tratta di un complimento, non certo di una critica. Senza dimenticare gente come Bonnie Bramlett, tanto per non fare altri nomi, vera diva, con il marito Delaney, nell’arte di fondere soul, R&B e rock. Mi pare invece che le similitudini tra gli stili delle due Bonnie e Susan Tedeschi siano ancora più evidenziate in questo nuovo album, che è un disco di canzoni ancora più rifinite, ma al contempo fresche e frizzanti, rispetto ai predecessori.

Non dimentichiamo che la band ha anche una sezione fiati di tre elementi, piccola ma compatta, Maurice Brown alla tromba, Kebbi Williams al sax e Saunders Sermons al trombone, che si applica con profitto anche alle armonie vocali, doppia batteria, J.J. Johnson e Tyler Greenville, come nella band di zio Butch Trucks, quattro diversi bassisti, ma solo in l’occasione di questo CD, e alternati nei vari brani, dal vivo, per il tour, hanno annunciato, il nuovo addetto allo strumento,sarà Eric Krasno, presente nel disco come chitarrista aggiunto e autore, uno dei “friends”. Chi manca? Kofi Burbridge, il tastierista, anche ottimo flautista e i due vocalist aggiunti, Mike Mattison (già cantante della Derek Trucks Band e leader degli Scrapomatic, qui forse un po’ sacrificato) e Mark Rivers. Tutti costoro, se serve, si danno da fare anche alle percussioni e, soprattutto, ci regalano undici canzoni, una più bella dell’altra.

A partire dal boogie rock blues dell’iniziale title-track dove Derek Trucks si divide tra slide e wah-wah, la moglie innesta un ottimo ritmo alla seconda chitarra e canta all grande, mentre il pianino di Burbridge e i fiati aggiungono pepe alle operazioni, ottima partenza. Do I Look Worried, scritta con John Leventhal, uno dei tanti ospiti, è un mid tempo sincopato ed emozionale, perfetto esempio di quel blues-rock got soul che è uno dei manifesti del disco, un paio di soli brevi ed incisivi di Derek, contrappuntati alla perfezione dai fiati e dalla voce partecipe di Susan. idle Wind è scritta con Gary Louris dei Jayhawks, un brano elettroacustico, dall’arrangiamento complesso, quasi jazzato, con il flauto di Kofi Burbridge a farsi largo tra gli altri fiati, la doppia batteria molto felpata e le armonie vocali soffuse, un perfetto esempio di jazz & soul revue, esplicato dall’assolo quasi modale di Trucks (la chitarra sembra quasi un sitar).

Sonya Kitchell (bravissima cantautrice) e il già citato Eric Krasno scrivono il super funky di Misunderstood, che con il suo clavinet e fiati, voci, chitarre wah-wah nel finale, organo e percussioni in libertà, sembra un brano dei tempi d’oro di Sly & Family Stone. Part Of me, scritta con Doyle Bramhall II e Mike Mattison, è anche meglio, pura Motown della più bella acqua, fino al falsetto fantastico di Sermons, che accoppiato con l’ottimo contralto di Susan, rievoca le armonie dorate di Tempations e Jackson 5, una piccola magia fin dalle chitarrine ritmiche e dalle sinuose linee della solista di Derek Trucks qui ispiratissimo, che trasporta parti del brano in zona Muscle Shoals, ovvero Stax, un matrimonio in Paradiso, in una parola, anzi due: una meraviglia!

Torna Louris come autore per una poderosa Whiskey Legs e qui le cose si fanno serie, la Tedeschi imbraccia la sua Gibson e risponde colpo su colpo alle bordate del marito Derek, in un brano di impianto rock-blues, dove anche l’organo si ritaglia i suoi spazi e che dal vivo probabilmente diventerà territorio di battaglia per gagliarde jam nella migliori tradizioni del genere, e del gruppo. La prima delle ballate del disco, It’s So Heavy, scritta da Trucks, ancora con Kitchell e Krasno, è un’altra meraviglia sonora, toccante ed emozionante, deep soul e melodia intrecciati, con i due solisti, Derek e Susan, in stato di grazia, lui alla chitarra e lei alla voce, a dimostrazione che la buona musica, quella genuina, è ancora viva e vegeta. All That I Need, con i suoi ritmi latini, vagamente santaneggianti, è nuovamente una collaborazione con Bramhall, brano forse (ma forse) minore, benché arrangiato sempre con precisione chirurgica, fiati, armonie vocali, tastiere, il tutto piazzato con cura nel tessuto sonoro del brano e le due “stelle” del gruppo che ricamano sull’insieme. Sweet And Low, l’altra ballata, è quasi più bella di It’s So heavy, malinconica e accorata, con la voce vellutata di Susan Tedeschi ancora una volta in spolvero, ma non c’è un brano dove non canti più che bene, quasi fosse un suo disco solista, accompagnata da una band da sogno e con una manciata (abbondante) di canzoni, tra i quattro e i cinque minuti, che rasentano la perfezione.

The Storm, scritta dai due con Leventhal, è l’unico pezzo che supera i sei minuti, e qui la coppia indulge nel proprio lato rock-blues e improvvisativo, dopo una lunga introduzione cantata da Susan, la parte strumentale imbocca anche percorsi jazz e jam, con le due soliste spesso all’unisono e Derek Trucks che fa i numeri di fino con la sua chitarra, sul solito tappeto di organo, fiati e una ritmica consistente, confermandosi uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, come testimonia anche la sua militanza negli Allman Brothers. Qui c’è trippa per gli amanti della chitarra, dura 6 minuti e 35 ma dal vivo probabilmente si espanderà fino a quindici o venti. Finale minimale, acustico, solo la National steel di Derek, una seconda chitarra e la voce carezzevole e tenera di Susan per una dolce Calling Out To You. Per concludere, e anche questo non guasta, il disco è co-prodotto da Jim Scott (e non da Doyle Bramhall II, a parte un brano, come avevo erroneamente scritto nella anticipazione): è proprio quello di Wilco, Jayhawks, Court Yard Hounds, Crowded House e dei due dischi precedenti della band. Il sound è caldo, delineato, umano, respira con l’ascoltatore

Uno dei migliori dischi del 2013, fino ad ora, ma non ce ne saranno molti altri così belli.

Bruno Conti

La Classe Non E’ Acqua! Boz Scaggs – Memphis

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Boz Scaggs – Memphis – 429 Records/Universal  05-03-2013

Questo signore non è un “pistola” qualunque (inteso come termine colloquiale milanese e non alla Los Lobos o Willy DeVille, per quanto qualche aggancio c’è, ma ci arriviamo fra un attimo)! Sulla scena da quasi 50 anni, il suo primo album, omonimo, uscito solo in Svezia è del 1965, la sua carriera ha attraversato vari fasi: rientrato negli States, nell’area di San Francisco, è stato il primo cantante della Steve Miller (Blues) Band, apparendo nei primi due album del ’68, poi ha firmato un contratto con la Atlantic, che ha pubblicato il suo primo album solista, prodotto dal giovanissimo Jann Wenner (il fondatore ed editore di Rolling Stone, la rivista), dove suonava uno stuolo incredibile di musicisti, tutti quelli dei Muscle Shoals Studios, luogo dove fu inciso il disco, Eddie Hinton, David Hood, Barry Beckett, Jimmy Johnson, Roger Hawkins e uno strepitoso Duane Allman, che tra l’altre, appare in una fantastica Loan Me A Dime, brano in cui, secondo me, rilascia quello che è il più prodigioso assolo di studio della sua breve carriera (e per questo gliene sarò sempre grato). Il disco, bellissimo, e tuttora nella lista dei 500 più belli di tutti i tempi, sempre secondo Rolling Stone (sia pure al 496° posto) è stato remixato nel 1977 da Tom Perry per mettere più in evidenza la chitarra di Allman, ma non a scapito di Boz Scaggs, che fa un figurone nel suo periodo blues. Nel 1971 firma per la Columbia, dove inaugura il suo periodo morbido ma ritmato, in una parola (facciamo tre) “blue-eyed soul”: con Moments, Boz Scaggs & Band, entrambi prodotti da Glyn Johns, In My Time, il ritorno a Muscle Shoals, prodotto da Roy Halee (quello di Simon & Garfunkel).

Insomma la Columbia ci credeva. E nel 1974 cominciamo ad arrivare i frutti: Slow Dancer, prodotto e con molti brani firmati da Johnny Bristol, ex grande soulman alla Motown, entra nei Top 100 delle classifiche USA e, fin dal titolo, rappresenta alla perfezione lo stile di Scaggs, un soul raffinato e leggermente danzereccio, ma di gran classe, che farà poi la fortuna due anni dopo, nel 1976, di Silk Degrees, funky vellutato rivestito di rock o viceversa, che venderà più di 5 milioni di copie, anche grazie a Lido Shuffle e soprattutto Lowdown, percorso da un riff di basso memorabile di David Hungate. Nel disco, tra i futuri Toto, oltre ad Hungate, suonano anche il tastierista David Paich e Jeff Porcaro, alla batteria, oltre a Les Dudek, Fred Tackett, Tom Scott, Chuck Findlay e altri veterani della scena californiana metà anni ’70, che poi sarebbe degenerata negli anni a venire, in un suono bieco e commerciale. Questo disco è commerciale, ma c’è ancora gran classe, che poi andrà scemando lentamente, insieme al successo, nei successivi Down Two Then Left e Middle Man, che nonostante la presenza di Santana, Lukather e molti altri musicisti, nelle note se ne contano una trentina, sommerge la voce sempre valida di Scaggs sotto una miriade di tastiere (soprattutto Synth), voci e fiati, con risultati inversamente proporzionali al numero dei presenti. Poi, dopo un best, la Columbia lo mette in naftalina fino al 1988, quando riappare con Other Roads, un disco con un sound orribile, tipico anni ’80, con drum machines e tastiere elettroniche a profusione, sempre nonostante i musicisti usati, ma era il periodo. Nel 1994 firma per la Virgin e riappare con Some Change, un bel disco, dove la sua bellissima voce e una manciata di buone canzoni, scritte per la maggior parte dallo stesso Boz, una a testa anche con Marcus Miller e Robben Ford, lo riportano a quel soul bianco di cui è sempre stato un maestro.

Nel 1996 fa un mezzo unplugged per il mercato giapponese, Fade Into Light, dove re-interpreta i suoi classici in versioni che pemettono di gustare vieppiù la sua voce e con Come On Home sempre su Virgin del 1997, a fianco del R&B e del Rock, reintroduce anche il blues primo amore. Dig è un altro buon disco del 2001, sempre in quel filone, mentre in But Beatiful del 2003, poi doppiato con Speak Low del 2008, si dà al jazz raffinato e agli standards, ben suonati e ben cantati, ma secondo chi scrive, un po’ pallosi, senza quella scintilla, quel quid che ogni tanto lo ha distinto negli anni. E che si trova invece, nell’ottimo doppio dal vivo, Greatest Hits Live, pubblicato nel 2004 per la Mailboat di Jimmy Buffett, dove con la classe innata che lo contraddistingue, tra blues, rock e classici, ci ricorda perché è considerato uno dei “tesori nascosti” della musica americana. Mi sono dilungato un attimo, ma ne valeva la pena: veniamo ora a questo Memphis, già dal titolo una promessa di prelibatezze. Registrato ai Royal Studios, Memphis, Tennessee, quelli di Al Green e Willie Mitchell, prodotto da uno Steve Jordan (John Mayer Trio, Ex-Pensive Winos di Keith Richards, Robert Cray, Buddy Guy, Clapton, quelli che meritano) in stato di grazia, sia dietro alla consolle che alla batteria, con Ray Parker Jr., Willie Weeks, Lester Snell, il sommo Spooner Oldham alle tastiere, una batteria di voci femminili di cui non so i nomi, perché non ho ancora in mano il disco e l’accoppiata formidabile Keb’ Mo’  alla slide e Charlie Musselwhite all’armonica in un blues “fumante” come ai vecchi tempi, Dry Spell, dove anche il lavoro di Jordan ai tamburi è da applausi.

In tutto il disco Boz Scaggs canta con una voce che è un terzo John Hiatt, un terzo Willy DeVille e un terzo lui reincarnato in qualche grande soulman del passato (per capire con chi abbiamo a che fare se non lo avete mai sentito). Gone Baby Gone è melliflua, raffinata e melismatica come John Hiatt che canta Al Green con il divino organo di Oldham a ricreare il sound dorato della Hi Records e tutti i musicisti misurati ed evidenziati dalla produzione di Jordan. Per evitare gli equivoci So Good To Be Here è proprio quella di Al Green, con l’arrangiamento di archi e fiati di Snell ad aggiungere quel tocco di classe in più ad un brano che è l’epitome del soul perfetto, con la chitarrina di Parker maliziosa. Willy DeVille, stranamente poco conosciuto ed amato in America, dopo quello di Peter Wolf, riceve ora l’omaggio di Scaggs in una rivisitazione deliziosa di Mixed Up, Shook Up Girl, che cita, nell’arrangiamento ondeggiante e complesso a livello ritmico anche quei Drifters che erano uno dei punti di riferimento del grande Willy, i coretti sullo sfondo sono da sballo e lui, Boz, canta alla grande. In Rainy Night In Georgia sfodera un vocione alla Tony Joe White che è perfetto per la canzone, qui in una versione raccolta e felpata, quasi acustica. Love On A Two Way Street è una ballata soul scritta da Sylvia Robinson quella che ha scritto Pillow Talk per Al Green, ma anche Rapper’s Delight, il brano fu un successo per i Moments nel 1970 ed è una piccola meraviglia, con quelle voci femminili che si intrecciano sotto la voce magica di Scaggs e il piano di Spooner Oldham.

Pearl Of The Quarter sarà mica degli Steely Dan? Certo che sì, nel festival della raffinatezza poteva mancare uno dei migliori rappresentanti? E poi Scaggs, con Michael McDonald canta anche nei Dukes Of September, il gruppo in cui, pure con Donald Fagen, gira il mondo per spargere il verbo del soul e della buona musica in generale, inutile dire, versione sontuosa nel magnifico lavoro ritmico di Jordan. Altro omaggio ai Mink De Ville, in questo caso, con una canzone Cadillac Walk, che risveglia i vecchi ricordi di uno che è stato anche il cantante della Steve Miller band e di rock e blues se ne intende, altro arrangiamento sospeso tra grinta e sofisticatezza, con la chitarra dello stesso Scaggs e le percussioni di Jordan in vena di magie.

Che vengono reiterate in una versione super di Corrina, Corrina, folk blues acustico di matrice sopraffina, con un assolo di chitarra acustica che non so di chi sia, ma dalla classe potrebbe essere sempre Keb’ Mo’ e nel soul d’annata di Can I Change My Mind, un grande successo di Tyrone Davis che gli amanti del genere forse ricordano, ma che per tutti gli altri sarà una piacevole sorpresa, con quell’intermezzo parlato della voce femminile che è da antologia del genere, l’organo ssscivola che è un piacere. Oltre alla Dry Spell ricordata all’inizio c’è poi un altro blues da manuale come You Got Me Cryin’ e per concludere una ballata pianistica Sunny Gone, scritta dallo stesso Boz Scaggs e che porta a compimento l’album con un’aura di malinconica bellezza. Come si diceva nel titolo “la classe non è acqua”. Gran bel disco!

Bruno Conti

Ma Che Voce Ha!?! Il “Ritorno” Di Joss Stone – The Soul Sessions Volume 2

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Joss Stone – The Soul Sessions Vol.2 – Stone’d/S-Curve/ Warner Bros 24-07-12 Europa 31-07-2012 USA – Special Edition 15 brani

Il “ritorno” è relativo, visto che Joss Stone non se ne era mai “andata”, pubblicando due album lo scorso anno, uno a nome suo, LP1, e l’altro con i SuperHeavy. Più che altro si tratta di un ritorno alle origini, a quel The Soul Sessions che nove anni fa, nel 2003, quando di anni ne compiva 16 anni, l’aveva segnalata come una delle voci più formidabili in circolazione. Joss Stone (Jocelyn Eve Stoker per la sua mamma) ha sempre avuto un contralto naturale fantastico e una sana propensione per la musica soul, genere adattissimo a quel tipo di voce, ma dopo quel primo album che conteneva una serie di cover di brani diciamo “oscuri” del repertorio black, si è affidata sempre di più, album dopo album, al lavoro e alla collaborazione con gli artisti dell’R&B e dell’Hip Hop contemporaneo che hanno snaturato il suo stile genuino (sono sempre pareri personali, poi ognuno è libero di pensarla come vuole). Anche il disco dello scorso anno, prodotto da Dave Stewart, non mi aveva entusiasmato più di tanto, al di là dei due o tre brani canonici che abbellivano comunque i suoi LP.

Per questo secondo capitolo delle Soul Sessions, la Stone si è nuovamente affidata al team della S-Curve Records (in joint venture con la sua etichetta Stone’d) e in particolare a Steve Greenberg che aveva coordinato quell’album. E i risultati si vedono o meglio si sentono, eccome se si sentono, ci sono tre o quattro brani dove canta in modo incredibile, con un feeling e una partecipazione straordinari, e la voce, senza andare sopra le righe o fare forzature innaturali, è in grado di mandare dei brividi nella schiena dell’ascoltatore, che sono sinonimi di musica di gran classe. Chi vi scrive, come forse saprete, tra le tante musiche che ascolta, ha una particolare predilezione per la musica nera e nello specifico per il soul e una passione per le belle voci femminili.

Direi che in questo album la ricerca, penso del team di produzione, si è rivolta verso brani che sono proprio da specialisti della black music, canzoni che ai tempi sono state magari anche dei successi ma che più nessuno ricorda e quindi per l’occasione, vi snocciolo una bella track-by-track anche per inquadrare i brani di cui parliamo. Per aggiungere autenticità all’album ci sono anche alcune partecipazioni i cui nomi faranno aumentare la salivazione degli appassionati, gente come Ernie Isley degli Isley Brothers alla chitarra, il grande Delbert McClinton (anche se non sono riuscito ad individuare in quale brano appare o forse sì) e il tastierista Clayton Ivey della Muscle Shoals Rhythm Section, tutta gente che è sinonimo di qualità. Sarà anche karaoke di alta classe, come ha detto qualcuno, o musica retrò, ma preferisco questo “retro” a molta musica che viene spacciata per avanguardia sonora, per lo meno c’è un’anima (soul)! 

Per essere preciso e tassonomico mi sono anche fatto delle ricerche ed ho preso degli appunti che ora vado a sfogliare:

1° brano) I Got The… qualcuno aggiunge un soul al titolo, ma non c’è, brano di Labi Siffre, nonostante il nome che può ingannare, un vocalist maschile inglese di origine africana, attivo soprattutto negli anni ’70, grande voce. La versione di Joss Stone, a dispetto du un suono moderno, soprattutto nella sezione ritmica, si colloca a cavallo tra certi brani del Philly Sound più classico e le minisinfonie soul di Isaac Hayes per l’uso di archi, tastiere e voci femminili di supporto, buon inizio anche se non memorabile, diciamo radiofonico. L’aveva campionata anche Eminem per My Name Is.

2° brano) (For God’s Sake) Give More Power To The People, cantata a pieni polmoni e con grinta dalla Stone, è un vecchio brano dei Chi-lites, ma qui è reso con un groove segnato da un basso funkyssimo (non si potrebbe dire ma è la verita) che ricorda le cose migliori dei Rufus di Chaka Khan degli anni d’oro. C’è anche una armonica malandrina che potrebbe essere quella di Delbert McClinton.

3° brano) While You’re Out Looking For Sugar è un vecchio brano del 1969 delle Honey Cone, un formidabile trio vocale femminile anche se poco conosciute se non dagli appassionati del genere. Un brano, mosso e ritmato, con un organo insinuante e la voce a piena polmoni della Stone che invade le casse dell’impianto con effetti dirompenti.

4° brano) Sideway Shuffle, e qui diamo uno schiaffo morale ai tipi di Wikipedia che così scrivono, non è un brano di Tim Renwick (peraltro grande chitarrista inglese) che ha una S in più nel titolo, ma una canzone firmata dalla grande Linda Lewis, altra formidabile vocalist di colore inglese che ha vissuto il suo periodo di fulgore negli anni ’70 (ma tuttora in attività), quando oltre a pubblicare i suoi dischi la si trovava come background vocalist negli album di Cat Stevens, Rod Stewart, David Bowie e tantissimi altri, e in anni più recenti anche con i Jamiroquai. La Lewis, che ha una estensione vocale di cinque ottave, secondo alcuni è stata la prima ad utilizzare quella nota acuta, quasi un fischio inaudibile se non ai cani (scherzo), che è stata una caratteristica anche di Minnie Riperton e Mariah Carey. 

5° brano) I don’t want to be with nobody but you è una ballata lenta soul con fiati, scritta da Eddie Floyd di Staxiana memoria, e qui Joss Stone è nel suo campo, e canta, cazzo se canta! Senza esagerare ma con la giusta misura, a venticinque anni è nel pieno del suo sviluppo come cantante, sia come tecnica che come bravura di interprete. Varrebbe la pena solo per questo brano, se il resto non fosse comunque buono, per consigliarvi questo CD. Senti che roba!

6° brano) Teardrops è più moderna, si tratta di un brano degli anni ’80 scritto da Womack & Womack, l’avevano fatta anche Elton John e Kd Lang nell’album di duetti del 1993, ma non c’è paragone con questa versione, soul music di classe cristallina con quell’organo e gli archi che si insinuano nelle pieghe della canzone. Che è anche orecchiabile come è giusto che siano le grandi canzoni pop(olari) e cantata ancora in modo perfetto, senza esagerazioni inutili, con un finale da grande interprete.

7° brano) Stoned Out Of My Mind è un altro super funky (ditemi chi è il bassista? James Alexander) scritto da Barbara Acklin ancora per i Chi-Lites, di cui appaiono due brani nel CD, versione da manuale.

8° brano) The Love We Had (Stays On My Mind), scritta da Terry Callier per i Dells è un’altra slow ballad fantastica, mi sarebbe piaciuto ascoltarla cantata da Aretha o da Dionne Warwick, armonie vocali femminili da sballo e un’altra interpretazione magnifica di Joss Stone, “accontentiamoci”!

9° brano) The High Road, introdotta dalla chitarra spaziale di Ernie potrebbe essere uno di quei brani magici degli Isley Brothers futuribili del periodo Epic dei primi anni ’70, ma in effetti è un brano contemporaneo firmato da James Mercer (Shins) e Brian Burton (aka Danger Mouse) per il loro progetto come Broken Bells. Dovrebbe essere uno dei singoli dell’album come era stato per la cover del brano dei White Stripes, Fell In Love With A Boy, nelle precedenti Soul Sessions.

10° brano) Pillow Talk è un vecchio successo del 1973 di Sylvia (Robinson) che poi sarebbe stata la fondatrice a fine anni ’70 della Sugar Hill Records. La canzone in origine era stato scritta per Al Green, e il brano, in quella versione, oltre a tutto, anticipava, con i suoi gemiti e lamenti e un groove molto scandito, di un paio d’anni, la Donna Summer di Love To Love you Baby e la disco. Con le sue percussioni, il wah wah, un organo magico, la giusta dose di riverbero e gli urletti mirati, questa versione della Stone è una piccola lezione su come fare del funky di classe senza scadere nello scontato. La base ritmica del brano è stata usata anche da Kate Bush per Running Up That Hill, per la serie non si butta via niente.

11° brano) Then You Can Tell Me Goodbye è un brano scritto in origine da John D. Loudermilk per Don Cherry nel 1962, poi è diventato un brano doo-wop nella versione dei Casinos, molti anni dopo il boom di questo genere e infine, in versione country, un successo per Eddy Arnold. Questa versione di Joss Stone la fa diventare una dolcissima ballata con l’accompagnamento di una chitarra acustica pizzicata e una sezione archi, nonché le immancabili voci femminili di supporto e come tutti i brani lenti è manna dal cielo per la voce di Joss  Stone, forse un filo di melassa di troppo ma comunque molto buona.

Varrebbe già la pena per questi 11 brani, ma nella versione Special del disco ce ne sono altri quattro ancora più oscuri e goduriosi: una First Taste Of Hurt scritta da tale Wilson Turbinton, che sarebbe il mitico Willie Tee dei grandi Wild Magnolias, una delle formazioni cardine del suono di New Orleans, One Love In My Lifetime era un brano del repertorio della Diana Ross degli anni ’70 e in generale in questo album di Joss Stone ci sono quei momenti “panterati” tipici dell’ex cantante delle Supremes. Nothing Take The Place of You è addirittura da “archeologi” del soul, un brano firmato da Toussaint McCall, altro genio minore della musica soul della Louisiana, mentre la conclusiva (1-2-3-4-5-6-7) Count The Days è stato un brano minore di Inez & Charlie Foxx che sono passati alla storia del pop per quella Mockingbird che quasi tutti conoscono però nella versione di James Taylor e Carly Simon.

Questa volta mi sono cimentato un poco nell’arte delle citazioni e dei richiami che è uno dei piaceri nascosti del parlare della musica pop e soul ma l’argomento trattato lo consentiva. Se poi vi viene voglia di andare alla ricerca anche delle versioni originali, non sarebbe una cattiva idea. Ripetiamolo, sarà musica retrò come poche, ma fatta un gran bene, insieme a quello di Rumer uno dei migliori dischi di cover dell’anno, casualmente belle voci entrambe! Adesso aspettiamo il terzo capitolo fra una decina d’anni.

Bruno Conti

Novità Di Maggio Parte I. Europe, Albion Band, Don Williams, Father John Misty, Sweet Billy Pilgrim, Mystery Jets, Eccetera.

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Mi distraggo un attimo per dedicarmi a recensioni specifiche e a uscite prossime venture e subito escono novità a valanga, per cui smaltiamo gli arretrati e nei prossimi giorni passiamo alle uscite della settimana entrante. Detto che in questi giorni sono usciti dischi di cui mi ero già occupato, come quello di Carole King dei demos, le 4 ristampe Edsel di Jesse Winchester, il nuovo Norah Jones e stanno per essere pubblicate le ristampe Deluxe degli Small Faces, partiamo con le uscite della settimana appena trascorsa e 3 titoli della serie “A volte ritornano”.

Nuovo album per gli Europe, si chiama Bag Of Bones esce per la Ear Music (non è neanche male, anche se mi aspetto sempre che parta di colpo Final Countdown, ma non succede), ed è prodotto da Kevin Shirley, esatto proprio quello di Joe Bonamassa. Che ovviamente appare come ospite nella title-track alla slide guitar. E se lo volete sapere, ebbene sì, il 22 maggio uscirà un nuovo album del buon Joe (finalmente, ma quando dorme? Titoli che sto soppesando per il prossimo Post) Driving Towards The Daylight: lo sto ascoltando in streaming promo in questi giorni per recensione sul Busca e sul Blog, appena pronto vi delucido (a un primo frettoloso ascolto, mi pare buono).

Don Williams è uno dei cantanti country più prestigiosi ancora in attività. 73 anni a fine maggio, è uno dei preferiti di Eric Clapton che spesso lo cita come fonte di ispirazione per brani come Wonderful Tonight, Lay Down Sally, Tulsa Time. Il disco già disponibile in Inghilterra su etichetta Welk, verrà pubblicato dalla Sugar Hill negli States a metà giugno, si chiama And So It Goes, prodotto da Garth Fundis contiene un duetto con Alison Krauss e vede la partecipazione anche di Vince Gill e Keith Urban.

Marilyn Manson si è fatto una propria etichetta (oltre ad altre cose), la Hell Records ma in Europa esce per la “gloriosa ” Cooking Vinyl, non avrei mai detto visto il rooster di artisti. Il disco si chiama Born Villain e contiene anche una cover di You’re So Vain (con Johnny Depp), il famoso brano di Carly Simon.

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Father John Misty è la nuova sigla dietro la quale si nasconde J(Joshua) Tillman, già solista ed ex componente dei Fleet Foxes. Questo Fear Fun uscito in questi giorni per la V2/Universal nel Regno Unito e disponibile a giorni anche in Italia è una piccola delizia. Se vi sono piaciuti i dischi del suo ex gruppo ma anche quello di Jonathan Wilson, qui c’è trippa per gatti: pure sonorità Californiane da leccarsi le orecchie con retrogusti Beatlesiani, lato Lennon per un disco che potrebbe essere una delle sorprese piacevoli del periodo. Sono tutti dischi che avendo il tempo materiale mi piacerebbe recensire con tempestività ma almeno ve li segnalo.

Anche il nuovo album di Sweet Billy Pilgrim Crown And Treaty su etichetta Luxor Purchase (?!?) ha avuto 5 stellette su Mojo, 4 su Q, 4 sul Daily Telegraph e in generale giudizi luusinghieri su tutta la stampa inglese. E li merita tutti. Già il precedente album Twice Born Men era stato candidato per il Mercury Prize ma questo lo supera. Anche in questo caso da quello che ho sentito non posso che confermare: pop di grande qualità per la band di Tim Elsenburg, con echi di Beach Boys, Bon Iver, Prefab Sprout, Scott Walker, Tom Waits, Steely Dan e chi più ne ha più ne metta. Molto bella la lunga e conclusiva Blue Sky Falls ma anche il resto dell’album è molto buono, indicato anche per chi ama Drake (Nick ovviamente), John Martyn, Blue Nile. Sto cercando di ingolosirvi.

I Mystery Jets sono un gruppo inglese, di Londra per la precisione, che con questo Radlands (notare il gioco di parole), passano dal synth-pop-rock del precedente Serotonin al sound “americana” del nuovo album, sempre su etichetta Rough Trade, registrato in uno studio nell’area di Austin, Texas ci sono influenze anche del sound dei primi Eagles e del rock classico di Stones e Steve Miller Band. Non male.

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Torna la Albion Band con una nuova formazione e per la prima volta Ashley Hutchings non è il leader del gruppo, ha passato lo scettro del comando (ma si è tenuto il ruolo di primo/o secondo bassista) a Blair Dunlop, chitarrista e cantante, che poi è suo figlio. Anche tutti gli altri componenti sono nuovi e si segnalano Katriona Gilmore, violino e voce, Gavin Davenport, l’altro cantante e chitarrista (anche all’english concertina), la chitarra solista di Benjamin Trott e una solida sezione ritmica. Il disco si chiama The Vice Of People, la confezione del CD è in digipack, l’etichetta è la Powered Flight e da quello che sto sentendo in questo momento unisce il classico sound folk tradizionale della formazione con abbondanti iniezioni rock, come sempre ottime le armonie vocali. Direi che per i prossimi 30 anni siamo a posto, tra vecchi classici rivisitati e nuovi brani il gruppo si conferma uno dei nomi imprescindibili del folk-rock britannico classico, anche, e soprattutto, in questi tempi di “new folk”.

Un paio di ristampe del gruppo Ace. La prima si chiama Da Doo Ron Ron ed è il secondo volume dedicato al songbook della classica coppia di autori Ellie Greenwich e Jeff Barry, questa la lista dei brani:

1. All Grown Up – The Exciters
2. Baby I Love You – The Ronettes
3. Chapel Of Love – The Dixie Cups
4. I Got To Go Back (And Watch That Little Girl Dance) – The Mccoys
5. Wait Til’ My Bobby Gets Home – Darlene Love
6. Da Doo Ron Ron (When He Walked Me Home) – The Crystals
7. Don’t Ever Leave Me – Connie Francis
8. Every Boy And Every Girl – The Chiffons
9. Give Us Your Blessing – Ray Peterson
10. Why Don’t They Let Us Fall In Love – Sonny & Cher
11. I Know It’s All Right – Sam Hawkins
12. I Wanna Love Him So Bad – The Jelly Beans
13. I Wonder – The Butterflys
14. I’ll Still Love You – Jeff Barry
15. Look Of Love – Lesley Gore
16. Not Too Young To Get Married – Bob B Soxx & The Blue Jeans
17. Sweet Laurie, Fair Laurie – The Tokens
18. She Hangs Out – The Monkees
19. That Boy John – The Raindrops
20. That’s All I Ever Want From You Baby – Manfred Mann With Paul Jones
21. The Train From Kansas City – The Shangri-Las
22. Goodnight, Goodnight (What’s So Good About It) – Ellie Greenwich
23. This Is It – Jay & The Americans
24. When The Boy’s Happy (The Girl’s Happy Too) – The Four Pennies

Nel 2008 era uscito il primo volume Do-Wah Diddy, se vi era sfuggito.

Per la Kent, sempre del gruppo Ace, prosegue la serie di volumi dedicati ai famosi Fame Studios di Muscle Shoals dove si è creata la più sopraffina soul music di tutti i tempi (o quasi, non solo comunque): dopo i due tripli fantastici e imperdibili Fame Studios Story 1961-1973 e Take Me To the River: A southern Soul Story, nonché il recente Nobody Wins-Stax Southern Soul 1968-1975 si continua a pescare negli archivi con questo nuovo Hall Of Fame – Rare And Unissued Gems From The Fame Vaults. Questa volta anche i super appassionati avranno pane per i loro denti, a parte tre brani, comunque mai su CD, tutto il resto del materiale è inedito e anche il sottoscritto che ama profondamente il genere molti nomi li sente per la prima volta, al di là dei “classici” Clarence Carter, Otis Clay e George Jackson. Di uno addirittura si ignora perfino l’interprete, c’è solo un bel “unknown”! Tutta roba di prima scelta nell’ambito soul, comunque dovrebbe essere il primo di una serie quindi cominciate a piangere e preparate il portafoglio, nel frattempo questa è la lista:

1. You’re So Fine – James Barnett
2. I Worship The Ground You Walk On – Jimmy Hughes
3. I Do – June Conquest
4. Blind Can’t See – Richard Earl & The Corvettes
5. Tell It Like It Is – Big Ben Atkins
6. Almost Persuaded – Jackie
7. When It Comes To Dancing – Joe Simon
8. It Ain’t No Harm – George Byrd & The Dominoes
9. Keep On Talking – Prince Phillip
10. I Need Someone (Demo) – The Entertainers
11. Hand Shakin’ – Ben & Spence
12. Meet Me Tonight – James Gilreath
13. Tell Daddy (Demo) – Clarence Carter
14. You Really Know How To Hurt A Guy – Ralph “Soul” Jackson
15. Steal Away ’67 (Part 1) – Jimmy Hughes
16. I’m Qualified – Otis Clay
17. In The Heat Of Love – Marjorie Ingram
18. Love Changes A Man – Unknown
19. Too Weak To Fight (Demo) – Clarence Carter
20. Your Helping Hand (Demo)- Otis Clay
21. Two Big Legs And A Short Red Dress – O.B. Mcclinton
22. Baby Come Back – Bobby Moore & The Rhythm Aces
23. Let’s Do It Over – Travis Wammack
24. For You (Home Demo) – George Jackson

Per oggi è tutto, torno all’ascolto di Bonamassa, ci sentiamo domani.

Bruno Conti

E Fanno Nove! Drive-by Truckers – Go-Go Boots

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Drive-By Truckers – Go-Go Boots – Ato Records/Pias

Martedì prossimo, il 15 febbraio esce il nuovo e nono album in studio dei Drive-by Truckers. Si chiama Go-Go Boots ed è stato registrato nel corso delle stesse sessioni che avevano dato vita al precedente The Big To-Do (adesso hanno preso la mania di infilare questo trattino anche nei titoli degli album oltre che nel loro nome) ma come è stato scritto da altri e come noterete ascoltandolo è “abbastanza” differente dal suo predecessore. Ma, contrariamente a quanto hanno scritto alcuni si tratta di un “signor disco”. Sicuramente con un suono più “morbido” rispetto agli altri album della loro discografia ma sempre un bellissimo disco di rock, o preferite di country got soul? D’altronde tre di loro provengono proprio da Muscle Shoals nella zona del nord Alabama che è il luogo fondativo di questo stile. E sono i tre “autori”,  quelli che scrivono le canzoni, Patterson Hood (figlio di quel David che era proprio il bassista della Muscle Shoals Rhythm Section), Mike Cooley e Shonna Tucker.

Proprio quest’ultima sarebbe la fonte di ispirazione di questo nuovo disco con il suo amore totale ed incondizionato per la musica soul (con ampie spruzzate di country) e che ha coagulato questo processo di nascita di un disco “diverso” dagli altri, volutamente più vicino ad un suono che risale alle radici del movimento “country got soul” e a uno dei suoi originatori che viene omaggiato con ben due brani, quell’Eddie Hinton, compianto Otis Redding “bianco” e tra i musicisti ed autori più influenti nello sviluppo di questo tipo di sound (che poi si è anche contaminato con il southern rock). E non per nulla la sede dei Drive-by Truckers è a Athens, Georgia.

Ma veniamo a questi due brani di Hinton che sono stati la molla che ha dato l’impulso a questo nuovo album (registrato nelle stesse sessions del precedente, come detto, ma volutamente con un progetto sonoro differente, ed unitario, rispetto a quello di The Big To-Do): i due brani in questione sono Where’s Eddie, cantato da Shonna Tucker (che non trovo affatto scolastica e misera come è stato scritto, tutt’altro, semplicemente una voce differente che si è aggiunta al già notevole appeal della band), una dolce ballata country-soul con chitarre e tastiere che si amalgano alla perfezione (forse troppo corta, se vogliamo trovare un difetto) e la stupenda (e qui non si può definirla in altro modo) Everybody Needs Love una delle più belle canzoni di Hinton, deep soul della più bell’acqua, cantata con grande trasporto da Patterson Hood e percorsa dal suono di un dobro, dall’organo del nuovo arrivato Jay Gonzalez e un breve intervento dell’elettrica. Questi due brani costituiscono il punto di partenza di questo disco (ed erano stati pubblicati in precedenza in un vinile come tributo a Hinton lo scorso anno) e da lì si dipana un album che secondo me (magari sbaglio ma preferisco esprimere il mio parere) ha molti punti di contatto con un altro album classico degli anni ’70, quell’On The Beach di Neil Young che molti ricordano tra i più belli della sua carriera. Si percepisce la stessa atmosfera rilassata, laid-back in molti brani, quel contrasto/fusione tra il country e soul e blues che erano la caratteristica di quel disco, con tastiere in evidenza, ritmica secca e marcata (soprattutto il basso), la voce sottile di Young (e quella di Hood ha molti punti in comune), tocchi di pedal steel e le chitarre presenti ma più trattenute rispetto al solito. Questo vale soprattutto per alcuni brani di Patterson Hood: canzoni come Assholes (dedicata all’industria discografica, e vai!), l’iniziale bellissima I Do Believe, la bluesata Go-Go Boots con una slide da brividi in contrasto con il piano elettrico che fa molto On The Beach e Young in generale e il ritmo metronomico volutamente ripetitivo con basso e batteria che viaggiano all’unisono per permettere alle chitarre (là del canadese, qui di Hood e Cooley) le loro divagazioni.

Ma anche il brano di Shonna Tucker Dancin’ Ricky si appoggia su questi ritmi scanditi e gode di un bel tappeto chitarristico, con la steel di John Neff che si alterna a quelle degli altri solisti e all’organo di Gonzalez per creare un brano delizioso che ben si adatta alla vocalità della bassista. Mike Cooley è l’anima più country del gruppo (quando non strapazza la sua chitarra) e in questo disco brani come Cartoon Gold (con banjo al seguito) potrebbero provenire dalla penna del Willie Nelson più ispirato o di altri “Outlaws” che furono. Ray’s Automatic Weapon è una delle country&soul murder ballads che popolano questo disco, cantata da Hood e caratterizzata ancora una volta da una slide “pericolosa” e dal piano di Gonzalez è un’altra piccola perla di equilibri sonori. The weakest man è un’altra galoppante country-song guidata dalla voce sonnacchiosa di Cooley (non l’avrei vista male nel repertorio di Johnny Cash).

Used To Be A Cop era uno dei due brani contenuti nel 10 pollici in vinile pubblicato per il Giorno del Ringraziamento, una ennesima storia di violenza e frustrazione dalla penna di Patterson Hood che si dipana su un arrangiamento complesso e frastagliato, sempre molto bella, con le chitarre che ruggiscono brevemente nel finale in perfetto stile southern.Dopo i 7 minuti del brano precedente The Fireplace Poker che è la stessa storia della title-track, ma vista da un altro punto di vista, si allunga fino a otto per raccontare la sua storia e forse, anche se comunque non mi dispiace, avrebbe giovato una maggiore concisione. The Thanksgiving Filter, era l’altro lato del 10 pollici, un ulteriore brano di Hood (che rimane l’autore principale) contrassegnato dalla lap steel di John Neff che guida le operazioni e da continue aperture melodiche che squarciano l’atmosfera claustrofobica del brano, peraltro molto evocativo.

Pulaski è l’ultimo contributo di Mike Cooley, una ulteriore variazione sulla sue tematiche country, una storia contro i “poteri” in quel di Hollywood. Lo si dice spesso ma evidentemente ci sarà un motivo, “last but not least” rimane la conclusiva Mercy Buckets una gagliarda cavalcata chitarristica che farà la gioia di chi ama i Drive-by Truckers più sanguigni e ruspanti e che conclude in gloria questo, mi ripeto, ottimo, ulteriore capitolo della saga “sudista” di uno dei migliori gruppi del rock americano attuale.

Bruno Conti

Giovani Talenti Crescono 1 – Dylan LeBlanc – Paupers Field

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Dylan LeBlanc – Paupers Field – Rough Trade

Ammetto che sono stato incuriosito dal nome (e dal cognome). O la mamma era un fan della serie televisiva 90210 Beverly Hills (che iniziava proprio nel 1990, anno di nascita di LeBlanc e aveva tra i suoi personaggi un Dylan) oppure il padre amava Bob Dylan. Propenderei per la seconda ipotesi visto che anche nel caso di questo giovan(issimo) musicista trattasi di Figlio di… Anche lui è un figlio dei Muscle Shoals, come Patterson Hood leader dei Drive-by-Truckers è figlio del grande bassista David Hood, Dylan LeBlanc è il figlio di James LeBlanc, cantante e chitarrista, autore di parecchi successi country per altri artisti, nativo di Shreveport, Louisiana.

Con un nome e un cognome così impegnativi il nostro amico ha avuto anche una recensione molto positiva, da 4 stellette, nella rubrica dei debutti della rivista Uncut ed è questo il motivo che mi ha incuriosito. Talento vero o ennesima sòla? Visto che dall’età di 7 anni nei Fame Studios di Rick Hall lo crescevano a pane, chitarra e musica, i risultati poi si sono visti!

Può un ragazzo di 20 anni appena compiuti registrare un album che tratta degli argomenti della vita con la abilità e la competenza che vengono dall’esperienza? Evidentemente sì, visto che l’ha fatto.

Mi sembra che il riferimento maggiore possa essere il Ryan Adams dell’album di debutto Heartbreaker (che però aveva avuto una lunga militanza nei Whiskeytown), perchè, ebbene sì, di country, country rock, perfino country got soul stiamo parlando, e della più bell’acqua.

L’attacco di Low con la pedal steel di Wayne Bridge (un Burrito Brother di seconda generazione) subito in grande evidenza ti catapulta nei primi anni ’70, quelli di Gram Parsons e del country-rock degli albori, ma la vena malinconica del brano potrebbe far pensare anche al Neil Young più intimista o al Townes Van Zandt meno acustico degli inizi, mica riferimenti da poco ma la qualità e la stoffa ci sono, la voce sembra essere quella di “uno vissuto”, le sue biografie già narrano di sesso, droga e Rock’n’roll ma ci vuole poco a costruirle per un buon Ufficio Stampa.

La musica è comunque buona, If Time Was For Wasting, con la solita pedal steel che “piange” le sue note, affiancata da banjo e mandolino e una sezione ritmica più pimpante sembra più movimentata.Lui è pure belloccio, potrebbe avere le ragazzine ai suoi piedi, take a look!

Ma è nei momenti più intimi, quasi narcotici, nelle ballate che trattano i dispiaceri dell’amore che il nostro amico eccelle. Quasi a mettere un suggello di qualità, nel terzo brano If The Creek Don’t Rise (sul titolo ci torniamo fra un attimo) le armonie vocali sono di Emmylou Harris e nobilitano ulteriormente un brano che è già intenso di suo, con il testo che recita “qualcuno mi ricordi di non ricordarmi di te”, tutto molto, molto buono. Il titolo dicevamo: è lo stesso di un brano e dell’intero ultimo, ottimo, album di Ray LaMontagne ma non c’entrano nulla sono due cose completamente diverse. Quindi non essendo americano e già faticando a comprendere l’inglese ho scoperto che si tratta di un modo di dire – God willin’ and if the Creek don’t rise – con Creek maiuscolo perchè si riferisce ad una Tribù indiana, vorrebbe dire “A dio piacendo e se i Creek non ci si metteranno di mezzo”, ovvero se nessuno cerca di ostacolare le tue azioni con l’aiuto della provvidenza, in parole povere.

Torniamo alla musica, finito l’intermezzo culturale. Tuesday Night Rain, sempre titoli allegri e pedal steel in evidenza (è lo strumento principe di questo disco) sembra quasi un outtake da Desperado degli Eagles con la voce di Dylan LeBlanc che si avvicina molto a quella di Don Henley come pure le atmosfere sonore del brano, tra picchi e vallate di suono che rimane sempre brillante nella sua gentilezza.

Emma Hartley, quasi sussurrata e con un violoncello e degli archi che si aggiungono alla pedal steel d’ordinanza ci rimanda al genere “cantautore soffererente” molto frequentato dalle ultime generazioni dei musicisti ex-Alternative rock, non memorabile. Ain’t Too Good at losing è un’altra variazione del genere ma più riuscita e meglio arrangiata, sofferta senza cadere nel melodrammatico, sul come soffrire d’amore, ma con classe per carità.

Changing Of The Seasons, cantata in un leggero falsetto è quasi allegra in confronto al resto dell’album, un country-rock vagamente alla Everybody’s Talkin’ dell’Uomo Da Marciapede.

Ricorderei ancora 5Th Avenue Bar, una bella prova da cantautore acustico puro senza influenze country con un leggero arrangiamento di archi e un cantato molto naturale, con la sua bella voce in evidenza, malinconica il giusto. Non male anche il valzerone On With The Night e la lunga Coyote Creek che mi ha ricordato certi episodi elettroacustici, anche nella voce, di Stephen Stills (se citiamo sempre solo Neil Young poi magari si offende). Last but not least (ormai è un classico) l’eccellente Death Of outlaw Billy John, una storia di amore e crimini ai margini del vecchio West con un arrangiamento minimale a base di banjo e chitarra acustica arricchito da piccoli tocchi sonori e da una interpretazione misurata. Visto che le abbiamo citate tutte, No Kind Of Forgiveness, sta giusto a cavallo tra il Ryan Adams più riflessivo e il più volte citato Neil Young, la pedal steel non manca neppure questa volta a fianco di un pianoforte delicato e il falsetto di Dylan LeBlanc ci sta proprio a fagiolo!

Si farà (non nel senso che pensano i più maliziosi), per il momento, effettivamente, uno dei migliori esordi dell’anno. Nei prossimi giorni vi parlerò di Caitlin Rose, un’altra giovanissima (ecco il motivo dell’1 nel titolo del post) di sicuro valore che, come dire, non ama l’electro-dance: ce ne sono a bizzeffe, basterebbe avere il tempo e lo spazio per parlare di tutti. Io, nel mio piccolo, ci provo.

Bruno Conti