Cha Jam E Che Band! Non Conoscevo. Ultraviolet Hippopotamus – Square Pegs Round Holes

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Ultraviolet Hippopotamus – Square Pegs Round Holes – Self released

Fino ad un po’ di tempo fa ignoravo l’esistenza di questa band originaria di Grand Rapids, Michigan (e non Chicago come ho visto da qualche parte). Si chiamano Ultraviolet Hippopotamus (Hippo per fans e amici) sono un sestetto (o meglio erano, sono rimasti in cinque), questo Square Pegs Round Holes è il loro terzo album e come genere vengono inseriti nel filone delle Jam Bands, ma io come stile musicale indicherei più che altro un “C…o se suonano!”, così, papale papale.

Nei dieci brani che costituscono questo album, per una durata complessiva di una settantina di minuti, si affollano mille influenze, le più forti, secondo il sottoscritto, sono la musica di Frank Zappa (quella meno sperimentale, più rock, ma non per questo meno complessa e tecnicamente superba), e già qui troviamo quasi tutto lo scibile della musica moderna, poi mi è parso di cogliere influenze del periodo Utopia di Todd Rundgren, quello più prog con grande utilizzo di tastiere acustiche ed elettriche ad affiancare le chitarre ed una sezione ritmica spaziale, e non ultimo il sound delle jam bands, con affinità elettive con gli Umphrey’s McGee e i Phish più improvvisativi. E, parlo sempre per me, in questo album mi sembrano addirittura superiori a questi ultimi o siamo lì!

Partiamo dal presupposto che vi deve piacere il genere (e sentire qualcuno che suona così bene è sempre un piacere): quindi aspettatevi lunghe improvvisazioni strumentali, con stop e ripartenze, con il gruppo che rilancia continuamente, cambia i ritmi a ogni piè sospinto, le chitarre passano da sonorità elettriche a wah-wah zappiani in un battito di ciglia, le tastiere, piano, organo e synth analogici, si lanciano in ardite scale tra rock, jazz e funk e la sezione ritmica con doppio batterista/percussionista di gran pregio è assolutamente imprevedibile nelle sue variazioni di tempi.

Pur venendo dalla regione di Detroit, patria dell’automobile, sono un band ecologista e antinuclearistica, anche se nei testi non si nota molto, visto che sono brevi e concisi, spesso sardonici e beffardi, alla Zappa, funzionali alla musica ma ridotti al minimo. Si spazia dal rock classico, all’inevitabile reggae, il rock progressivo, qualche incursione nel jazz e nel funky, tutti gli elementi delle migliori jam bands, anche l’elemento bluegrass è presente, spesso il tutto nello spazio di uno stesso brano.

Qualche nome, importante nella storia presente e passata del gruppo che proprio recentemente ha visto l’abbandono di uno dei chitarristi e fondatori del gruppo, Sam Guidry, ancora presente in questo disco (che è in studio se non l’avevo detto, ma non si direbbe). Citiamo i due batteristi, Joe Phillion e Casey Butts, il bassista Brian Samuels, l’altro chitarrista Russell James e i due tastieristi Nate Karnes e Dave Sanders che vi potete godere a pieno regime nelle pieghe tastieristiche di un brano come Bob The Wonder Cat, dove piano, organo e synth assurgono a grandi protagonisti a fianco delle due chitarre che nei loro crescendo fantastici si dividono la scena nel vorticare di cambi di ritmo del brano. Ma già nell’iniziale Giants, dove anche la parte vocale non è solo quella funzionale delle jam band ma lascia intravedere futuri sviluppi e si distende su un brano che ha una struttura rock quasi tradizionale, ma dura poco perchè quando le chitarre e le tastiere decidono che è tempo di improvvisare non li ferma nessuno e qui si sfiora anche il southern rock non citato tra gli elementi compositivi della band.

Senza soluzione di continuità Bob The Wonder Cat si trasforma nella title-track Square Peg Round Holes, con un organo che introduce la melodia le chitarre si aggiungono, un intermezzo vocale anni ’70 (Steely Dan meets Zappa?) e poi percussioni e piano nella parte finale dove la solista parte velocissima per una improvvisazione a due con il synth che tocca vette prodigiose (sempre se amate il genere, ovviamente, ma anche no!). A questo punto pausa direte voi, ma neanche per idea, si riparte più veloci di prima con Run Rabbit Run che di punto in bianco aggiunge accenni reggae e poi tra stop e ripartenze zappiane (il citato wah-wah) confluisce in T1J mentre le tastiere analogiche e elettroniche impazzano con le chitarre come se gli Utopia di Todd Rundgren non si fossero mai sciolti, tra effetti vocali improbabili e assoli supersonici con il synth che si inventa effetti degni dell’Herbie Hancock del periodo funky. The Scar è un proprio un brano reggae, all’inizio almeno, nella parte cantata, poi entra un organo maestoso, il tempo comincia ad accelerare e poi rallenta di nuovo (fermateli!) fino ad un doppio assolo fantastico dei chitarristi Guidry e James con il pianista che aggiunge tematiche tra Little Feat e bluegrass frenetico prima di passare ad un inaspettato intermezzo acustico Avalon tra 6 e 12 corde arpeggiate e tastiere sognanti, tre minuti di pausa.

Poi parte il tour de force di quasi dodici minuti di Medicine con tastiere e xylofono che ci riportano al miglior rock progressivo anni ’70, le chitarre che entrano poco a poco, un groove di basso e batteria in crescendo che lascia spazio a una bella performance vocale di gruppo, anche orecchiabile e melodica se volete. Poi a metà brano il gruppo rompe gli indugi richiama il fantasma di Zappa e si lancia in una serie di improvisazioni fantastiche. Ancora cambi di tempo ed atmosfere musicali con DNT che si appoggia questa volte sulle multiformi tastiere di Dave Sanders che richiamano i citati Litte Feat di Bill Payne, magari non a quei livelli.

La conclusione è affidata The Marine che ci porta su territori fusion, quasi alla Pat Metheny o alla Return To Forever, anche se c’è una parte cantata, sonorità che comunque affioravano qui e là anche nel resto dell’album.

Che dire, bravi son bravi, nel genere (ma quale?) sono tra i migliori. Come sempre, in questi casi, buona ricerca.

Bruno Conti