Una Band Decisamente Anomala, Ma Interessante. Dr. Dog – Critical Equation

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Dr. Dog – Critical Equation – We Buy Gold/Thirty Tigers                

Del quintetto di Philadelphia non si è mai capito esattamente che genere facessero: i Dr. Dog sono stati etichettati di volta in volta come indie-rock, alternative rock, neo psichedelia morbida, anche pop e jam rock, e probabilmente contengono nella loro musica, sparsi. un po’ di tutti questi elementi , quindi diciamo che l’unico elemento certo di questo Critical Equation è che si tratta del loro decimo album https://www.youtube.com/watch?v=rklOPchnf6o . Forse la band a cui si possono avvicinare di più sono i My Morning Jacket, anche loro sfuggenti e difficili da etichettare, oltre a cambiare spesso nei loro dischi, anche in base al fatto che fossero più o meno riusciti. Prodotto e registrato in quel di L.A. da Guy Seyffert, recente collaboratore di Roger Waters, e che ha lavorato in passato con decine di solisti e band, i più disparati, il nuovo disco dei Dr. Dog ha avuto critiche molto differenziate: Uncut e American Songwriter ne hanno parlato benissimo, Q e altri siti di musica sono stati più tiepidi, o ne hanno parlato addirittura negativamente. Diciamo che forse, come ci insegnano da sempre i latini, la verità sta nel mezzo: un buon album complessivamente, senza particolari levate d’ingegno ma neppure cadute di stile evidenti, alla lunga si apprezza.

La band è una sorta di “democrazia” in cui i brani sono attribuiti ai diversi componenti, ma Scott McMicken, e Toby Leaman, i due fondatori, sono i principali autori, che si alternano comunque con Zach Miller, Frank McElroy e Eric Slick ai diversi strumenti, per cui troviamo accreditati due batteristi, due bassisti e così via, e pure a livello vocale intervengono un po’ tutti per creare piacevoli armonie globali, anche se la voce guida è quella di McMcMicken. Per cui alla fine il sound ha tutte le sfumature indicate poc’anzi: l’iniziale pigra e ciondolante Listening In, ha un’aria più pop e elegante, quasi “pensierosa” magari non definita del tutto, con le voci filtrate e chitarre e tastiere a segnare il territorio, pur se si apprezzano alcuni cambiamenti di tempo nella struttura della canzone. Go Out Fighting, dopo la solita partenza interlocutoria assume una andatura decisamente più rock, con la voce vagamente Lennoniana anni ’70, sottolineata da piacevoli armonie, che lasciano poi spazio ad un intervento quasi acido e psych della solista che si fa largo nel sound collettivo; Buzzing In the Light ha nuovamente qualche elemento beatlesiano nella costruzione della melodia e negli intrecci vocali, anche se il sound è decisamente più contemporaneo ed indie, morbido, sognante e godibile, mentre Virginia Please è più vivace e mossa, forse qualche eccesso nell’uso delle tastiere, ma non dispiace https://www.youtube.com/watch?v=aAF8KBglcIY .

Critical Equation è nuovamente riflessiva e ricercata, una delicata ballata con i giusti equilibri tra pop raffinato e di gran classe e la ricerca di melodie sempre molto centrate, con interventi misurati della chitarra https://www.youtube.com/watch?v=p4YAJ7rLOy4 . Qualcuno ha citato anche rimandi a band come Cheap Trick e Steve Miller Band che hanno sempre cercato di mediare tra pop e rock: l’orecchiabile True Love ne è un buon esempio, un pezzo rock, dove probabilmente la presenza di Seyffert ha contribuito ad arrangiamenti più complessi e ricercati, con Heart Killer che accelera ulteriormente i tempi, sempre con rimandi a band e solisti che maneggiano in modo brillante pop e rock, potremmo ricordare gli Squeeze o Nick Lowe, ma pure i citati My Morning Jacket. La lunga Night parte acustica e poi si trasforma in una brillante ballata melodica, dove forse si sarebbero potuti evitare gli eccessivi interventi del synth, che però non rovinano il fascino del brano. Intricati effetti vocali ci portano a Under The Wheel il pezzo che rimanda di più alla Steve Miller Band fine anni ’70 ricordata prima, tra chitarre e ritmi rock molto coinvolgenti. Chiude Coming Out Of Darness, che come l’iniziale Go Out Fighting non mi convince, forse sarà l’uso eccessivo del falsetto o un sound troppo turgido, ma per il sottoscritto non funziona, pur non inficiando il giudizio complessivo del disco che, come detto all’inizio, è positivo.

Bruno Conti

Quello Bravo Dei My Morning Jacket E’ L’Altro, Anche Se… Carl Broemel – 4th Of July

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Carl Broemel – 4th Of July – Stocks In Asia/Thirty Tigers

Ovviamente quello bravo, o meglio, quello più bravo, dei My Morning Jacket, è Jim James Yim Yames, a seconda di come si sveglia alla mattina, lider maximo della band, voce solista, autore di tutte le canzoni e una delle due chitarre soliste del gruppo. Di Carl Broemel si potrebbe dire che dal 2004 è il suo fedele Kit Carson, “seconda pistola” nelle epiche cavalcate chitarristiche della band di St. Louis e spalla ideale per le derive extra -rock di James, vista la sua passione anche per folk, soft-rock e comunque per un approccio più da singer-songwriter che applica ai suoi dischi solisti. L’anche se…l’ho aggiunto dopo il secondo o il terzo ascolto, perché ammetto che dopo il primo ero rimasto abbastanza deluso nel complesso dall’album, anche se, appunto, non avevo particolari aspettative, sapendo che quello bravo e più completo era l’altro. Broemel ha realizzato altri due album solisti, il primo, Lose What’s Left, realizzato nel 2004 primo di entrare nei MMJ, è una prova prettamente acustica, neanche l’ombra delle epiche cavalcate elettriche per cui poi è diventato famoso, ma anche neppure l’ombra di una chitarra elettrica, una mezz’oretta di folk da cantautore, forse piacevole, ma che non lo avrebbe certo reso una celebrità. Il secondo disco, All Birds Say, sono andato a risentirlo perché non lo ricordavo proprio, meglio ma neppure quello memorabile, sembra una via di mezzo tra un disco di George Harrison e uno di James Taylor, con steel, slide e acustiche, dove Broemel eccelle, spesso in evidenza, ma ripeto, niente per cui stracciarsi le vesti.

E invece 4th Of July mi sembra comunque migliore, non imprescindibile neppure questo, ma un disco dove le otto canzoni, di cui tre molte lunghe, quasi sei, oltre i sette e la title-track che supera di poco i dieci, sono decisamente più varie e ben concepite rispetto al passato: Carl ci ha lavorato con calma, in quasi tre anni e mezzo, nelle pause del lavoro dei My Morning Jacket, dei quali, il tastierista Bo Koster e il bassista Tom Blankenship hanno partecipato alle registrazioni del disco, insieme ad altri ospiti di pregio, in primis Laura Veirs Neko Case. Broemel questa volta non si esibisce al sax, almeno fino al finale, uno strumento che ogni tanto suona con i MMJ; ma le chitarre elettriche, la pedal steel e la slide sono spesso protagoniste di ottime incursioni strumentali. In particolare nella lunga 4th Of July, che nella parte centrale e conclusiva della canzone, ci regala due vere scariche di chitarra elettrica, furiosa, acida e psichedelica, come nei migliori brani della band, due assoli veramente fantastici che alzano il tasso qualitativo del disco. e se tutto il contenuto fosse stato di questa pasta saremmo a parlare di un mezzo capolavoro. Il brano parte in un leggero crescendo, sognante e pigro, poi entrano le voci di Neko Case Shelly Colvin, segue una pausa più riflessiva dove entra una chitarra acustica arpeggiata con valentia e poi il sound si anima sempre di più fino al climax dei ripetuti interventi della solista.

Anche il primo brano è molto valido e decisamente più complesso dei passati lavori di Broemel, una Sleepy Lagoon dal ritmo ondeggiante e molto laidback, tra pop e rock, con la chitarra sempre pronta ad animarsi in gradevoli interventi solisti, non dissimili da certe cose alla MMJ, con la voce di Broemel più convinta del solito. Non male puree la terza traccia, Rockingchair Dancer, quasi a tempo di valzer, con la seconda voce di Laura Veirs ad accompagnarsi a quella di Broemel, in un delizioso e delicato ondeggiare tra folk e morbido rock, che ricorda proprio quello gentile e poco mosso di un cavallo a dondolo. Il resto dell’album mi pare meno interessante dei primi tre brani. Anche se Snowflake, sulle ali di un piacevole groove della ritmica e una melodia molto seventies si dipana attraverso il fingerpicking dell’acustica e qualche intervento delle tastiere e dell’elettrica appena accennati e un cambio di tempo nel finale con fischiettata che forse ci potevano risparmiare. Landing Gear, l’altro brano che supera i cinque minuti, grazie alla pedal steel che l’attraversa, in congiunzione con la chitarra elettrica, ha un mood quasi Westcoastiano e pastorale, non dissimile da certi episodi meno movimentati di Jonathan Wilson, con un bell’intervento del piano di Koster e armonie vocali quasi beatlesiane.

In The Dark ritorna allo stile da cantautore folk, brano “carino” (in mancanza di termine migliore) ma poco incisivo, francamente succede veramente poco nel corso della canzone. E anche l’acustica e strumentale Crawkspace non rimarrà negli annali della musica. Rimane la conclusiva Best Of, dove Carl Broemel imbraccia il sax per l’unica volta nell’album, una ballata di nuovo sognante che rimanda, come ricordato all’inizio. a certe cose di George Harrison, citato per l’album precedente, mentre il timbro della voce del nostro amico mi ha ricordato per certi versi, non so perché, quella di Rufus Wainwright, una specie di vaudeville leggermente psichedelico e demodé, in virtù degli intermezzi strumentali sempre raffinati e gradevoli, ancorché un po’ fini a sé stessi, e tirati poi per  le lunghe negli oltre sette minuti del brano. Insomma, una buona prima parte e poi un graduale decadimento qualitativo, per un album che raggiunge la sufficienza a pieni voti ma non va oltre: magari l’aiuto di un produttore sarebbe stato importante in certi episodi,

Bruno Conti   

Ascoltate Ancora Un “Buon Consiglio”! Basia Bulat – Good Advice

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Basia Bulat – Good Advice – Secret City Records

Prosegue la carriera della bionda e non più giovanissima canadese Basia Bulat , membro onorario della comunità polacca dell’Ontario, che con Good Advice giunge al quarto capitolo discografico, un disco che segna un’ulteriore cambio di genere dopo il folk raffinato dei primi due album Oh, My Darling e Heart Of My Own, e il seguente Tall Tall Shadow dalla forma classica cantautorale, si giunge a questo ultimo lavoro che spazia anche nel pop d’autore (Sarah Blasko o in tempi meno recenti Stevie Nicks). Sorprendentemente la produzione dell’album, voluta dalla stessa Bulat, è affidata a Jim James dei My Morning Jacket, che suona pure gran parte degli strumenti, e che riesce a dare ai dieci brani di Good Advice un suono particolarmente ricco e vario (come succede sempre anche negli album della sua band), con arrangiamenti dai leggeri tratti“sixties” che valorizzano il nuovo percorso musicale di Basia.

Il brano d’apertura La La Lie  è trascinante con una forte connotazione relativa a quel periodo, a cui fanno seguito una ballabile Long Goodbye (perfetta forse per una discoteca alternativa), il sincopato disordine di Let Me In, passando per una perfetta “pop song” come In The Name Of, e per la più dolce. variegata  ed ammaliante Time. Si prosegue con la title track Good Advice forse il brano meno convincente del disco, per poi dare spazio ai due singoli tratti dall’album (firmati dalla stessa Bulat), una tambureggiante Infamous e la gioiosa e cadenzata Fool, condensando nelle ultime due tracce le cose migliori, una eterea e molto profonda The Garden, e una lunga e meravigliosa ballata quasi “gospel” come Someday Soon https://www.youtube.com/watch?v=nP7YMzPkoOw .

Le canzoni di Good Advice sono state arrangiate e registrate seguendo certe regole di quello che viene considerato il miglior “indie pop” del momento, e anche se personalmente la preferivo nelle versioni precedenti,meno alla moda e glamour (come ricorda pure l’immagine della copertina del disco), questo ultimo lavoro ascolto dopo ascolto riesce comunque ad attirare la giusta attenzione,  per merito della bella voce e della personalità di questa ragazza, a riprova di un talento che meriterebbe magari una maggiore attenzione da parte del pubblico e della critica di settore, che pure ha sempre guardato con favore ai suoi dischi (noi compresi http://discoclub.myblog.it/2010/02/24/piccoli-talenti-crescono-basia-bulat-heart-of-my-own/ e http://discoclub.myblog.it/2013/11/08/due-fanciulle-che-meritano-attenzione-basia-bulat-e-star-ann/).

Negli ultimi anni Basia Bulat ha condiviso il palco con colleghi affermati come gli Arcade Fire, i National, Nick Cave, Daniel Lanois, Sufjan Stevens, Andrew Bird, e altri meno noti tra i quali Beirut, Destroyer, Tune-Yards, Sondre Lerche e Owen Pallett, a dimostrazione che questa “biondina” di Toronto ne ha fatta di strada dal folk intimista degli esordi (quando veniva spesso paragonata alla grande Joni Mitchell https://www.youtube.com/watch?v=GPpcmqcqKZM ), fino ad arrivare a questo tentativo di pop in forma “elegante”, che rimanda sicuramente, per chi scrive, a Natalie Merchant e ai suoi 10.000 Maniacs.

Tino Montanari   

E’ Tempo Di Cambiamenti Per Una Moderna “Indie Rock” Band ! Alberta Cross – Alberta Cross

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Alberta Cross – Alberta Cross – Dine Alone/Caroline International Records

A distanza di tre anni dall’interessante Songs Of Patience (12), e dopo la partenza del co-fondatore Terry Wolfers, gli Alberta Cross sopravvivono grazie al talento dell’altro co-fondatore, il cantante, chitarrista e compositore svedese Petter Ericson Stakee, dotato di una voce languida, sinuosa, ma non troppo melanconica, capace di cavalcare tutte le note della scrittura rock. Facciamo un passo indietro: il gruppo, dopo una serie di EP (il migliore The Thief & The Heartbreaker (07), esordisce con The Broken Side Of Time (10), disco che li ha indicati fra le gradite sorprese del genere “indie-rock” contemporaneo, conferma avvenuta con un altro delizioso EP The Rolling Thunder (11), e poi con il già citato ultimo lavoro in studio, un disco graffiante e incredibilmente suggestivo per suoni e atmosfere.

Quale sia stato il motivo dello scioglimento del duo non è dato a sapere, quello che sappiamo con certezza è che Petter Ericson Stakee, rimasto solo, si è chiuso al Dreamland di Woodstock (una chiesa antica trasformata in studio) e aiutato da alcuni musicisti del Village newyorkese (su tutti Pete Remm e Jason Abraham Roberts) ha dato anima e corpo (suonando quasi tutto da solo) per questo quarto progetto Alberta Cross, dove, a differenza del passato, trovano spazio e utilizzo anche altri strumenti, tra i quali trombe, violini e mandolini, dando al lavoro una nuova struttura musicale.

Dopo la breve e introduttiva You’ll Be Fine, si passa all’attuale singolo Ghost Of Santa Fè e a Western State, brani con una robusta sezione fiati inserita ad inaugurare il “nuovo corso”, passando poi a ballate ipnotiche come Easy Street e Water Mountain, intercalate dalla fischiettante e solare Isolation. Dopo una prima parte suggestiva per suoni e atmosfere, si passa al rock melodico di Heavy Words, ad una ballata sperimentale come Beneath My Love (che potrebbe uscire dai solchi di Kid A dei Radiohead), al suono folk di una maestosa Get Up High, a cui fanno seguito due ballate acustiche, Shadow Of Mine e Smoky Lake, con melodiosi “tocchi” di pianoforte, andando a chiudere con quello che è forse il punto più alto del disco, una meravigliosa It’s You That’s Changing, sorta di moderna, dolce e tenue ninna-nanna.

Come sempre, a parere di chi scrive, gli Alberta Cross non deludono le aspettative, e lo fanno con canzoni dall’impianto arioso (à la My Morning Jacket), e Petter Ericson Stakee,  con un tipo di voce che in qualche modo mi ricorda vagamente David Gray più orientata sulle note alte, riesce a sviluppare una musica che nel percorso del disco non mostra alcun segno di cedimento, avallando l’inizio di una nuova vita (infatti si potrebbe considerare il suo primo disco da solista) e di nuove stagioni musicali con il marchio Alberta Cross. Per me promosso!

Tino Montanari

Una Band Sempre Più “Innovativa” ! My Morning Jacket – The Waterfall

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My Morning Jacket – The Waterfall – Ato Records/Capitol – Deluxe Edition

Devo ammettere che ad un primo e rapido ascolto (forse superficiale), questo nuovo lavoro dei My Morning Jacket non mi aveva particolarmente entusiasmato, ma risentendolo con più attenzione devo convenire che (come nel caso di tutti i lavori di questo gruppo), The Waterfall è un album complesso, un po’ fuori dalle righe, ma sicuramente innovativo e interessante. I My Morning Jacket arrivano da Louisville nel Kentucky ed hanno iniziato ad esistere verso la fine degli anni ’90, per merito di Jim James, leader, principale compositore, voce solista e autentico padre padrone della band, esordendo con The Tennessee Fire (99), un lavoro incentrato su una strumentazione elettroacustica, mentre il successivo At Down (01) presentava un suono più “indie-rock” con una più marcata impronta elettrica, andando a chiudere il “trittico” con il disco della svolta It Still Moves (03), dove l’impianto melodico è grandioso, la scrittura dei testi è in netta crescita, ed è resa ancora più suggestiva dalla voce di Jim.

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La svolta determinante della carriera del gruppo arriva con l’eccellente Z (05) con un “sound” che miscela jam e sonorità acide, che stanno tra Velvet Underground e Neil Young, tra Pink Floyd e Flaming Lips, disco che fa da preludio all’entusiasmante doppio CD dal vivo Okonokos (da sempre pietra angolare della discografia di ogni rock’n’roll band) per poi tornare in studio per Evil Urges (08) che riesce a combinare sonorità moderne e classico “american rock”, affidandosi poi alla collaborazione con il “guru” della nuova scena “indie-rock” Tucker Martine, con i suoni futuristici e psichedelici di Circuital (11), dimostrandosi ancora una volta una formazione per nulla prevedibile e parecchio innovativa.

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Dopo l’uscita negli anni di validi componenti, tra i quali  Johnny Quaid alle chitarre, Danny Cash alle tastiere, e i batteristi J.Glenn e Chris Guetig, l’attuale “line-up” della formazione vede sempre il leader Jim James alla chitarra e voce, Tom Blankenship al basso, Patrick Hallahan alla batteria, Bo Koster alle tastiere, Carl Broemel  (autore di un paio di ottimi dischi solisti) alle chitarre, andando registrare questo The Waterfall in California (e precisamente a Stinson Beach), in uno studio con bella vista panoramica sull’Oceano Pacifico e affidando ancora la produzione (temeraria) a Tucker Martine.

Si parte con l’iniziale Believe (Nobody Knows), una canzoncina pop leggera dal ritornello “scolastico” (che però dal vivo fa la sua bella figura e nel testo nasconde significati più profondi) a cui fanno seguito il “funky-pop” di Compound Fracture che richiama i primi Toto, la melodia di Like A River con echi del folk inglese degli anni ’70 https://www.youtube.com/watch?v=PAXj9zYjROc , le trame psichedeliche della lunga In Its Infancy (The Waterfall) https://www.youtube.com/watch?v=oT7xCWDQkXU , mentre Get The Point è un brano pop alla cantato alla McCartney https://www.youtube.com/watch?v=XIs-UA1M7q8 .

Le “cascate” di suoni ripartono con i riff indiavolati di una Spring (Among The Living), che a parte l’intrigante finale elettronico sembra un pezzo di Neil Young, per poi ritornare ancora alle sonorità anni ’70 con la melodia sognante di Thin Line, al classic-rock solido del pezzo più radiofonico del lavoro Big Decisions https://www.youtube.com/watch?v=gE3DgcECSn8 , alla ballata elettroacustica in stile Eagles di Hotel California di una Tropics (Erase Traces) https://www.youtube.com/watch?v=z2hUf9tf-0s , e chiudere con un’altra ballata piena di atmosfera Only Memories Remain, che fa il verso al compianto Roy Orbison. Le bonus tracks della Deluxe Edition comprendono un bel brano solo voce e chitarra Hillside Song, il pop leggero e molto orecchiabile di I Can’t Wait, e due versioni alternative di Compound Fracture e Only Memories Remain (decisamente inutili, buone solo per fare “grano”).

Guidati dal talentuoso Jim James (un frontman introverso e geniale), i My Morning Jacket ancora una volta si confermano un gruppo “diverso”, in quanto nelle canzoni di The Waterfall ci si trova di tutto, una miscellanea che parte dal rock anni ’70 alla psichedelia, e finisce con il genere americana e l’alt-country, una specie di “terra di mezzo” in cui sono maestri, con la loro musica che sarà anche derivativa, ma come in questo caso “la cascata” di suoni è fresca, piacevole e rinfrescante!

Tino Montanari

Sempre Le Stesse Canzoni…Ma Che Belle! – John Fogerty – Wrote A Song For Everyone

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John Fogerty – Wrote A Song For Everyone – Vanguard Records

Recentemente, parlando delle ultime ristampe di Jeff Lynne, ho coniato il termine “barrel bottom scratching” (letteralmente: grattare il fondo del barile), espressione che si potrebbe applicare anche per l’ultima parte della carriera di John Cameron Fogerty. L’ex Creedence infatti negli ultimi dieci anni ha pubblicato solo due dischi di canzoni nuove (Deja Vu (All Over Again), 2004, ottimo, e Revival, 2007, buono ma meno riuscito), un’antologia, due DVD dal vivo ed un disco di covers (lo splendido The Blue Ridge Rangers Rides Again).

Pochi brani nuovi dunque e, nell’antologia e nei due album live, un po’ sempre le stesse vecchie canzoni: in più, ora esce finalmente questo Wrote A Song For Everyone (finalmente perché era già dato in uscita lo scorso ottobre, con una copertina diversa da quella attuale, poi John ha pensato bene di lavorarci ancora un po’ e di aggiungere delle canzoni), un album auto celebrativo nel quale il nostro ripercorre alcune tappe fondamentali della sua carriera insieme ad una lunga lista di ospiti. Ancora le stesse canzoni dunque? Beh…sì, ed in più proposte in duetto con altri cantanti (raramente ho vibrato per un disco di duetti, di solito c’è sempre qualche episodio che abbassa il valore complessivo dell’opera), quindi un alto rischio per John di esporsi a critiche non proprio benevole.

Ebbene, Wrote A Song For Everyone si rivela invece essere un grandissimo disco: pochi al mondo possono vantare un songbook come quello di Fogerty, ed in più la scelta di riarrangiare alcuni brani su misura per l’ospite di turno si rivela vincente, dando nuova linfa a canzoni ormai ben fisse nella storia della musica (ci sono però anche due brani nuovi di zecca). Non dico che queste versioni siano superiori agli originali, ma (quasi) tutte le collaborazioni danno nuova vitalità ai brani, e John si trova particolarmente a suo agio, con in più l’ottimo stato della sua voce, ancora limpida e forte a dispetto dell’età.

La house band è formata da Bob Malone al piano, David Santos al basso, il grandissimo Kenny Aronoff alla batteria, oltre naturalmente a Fogerty alla chitarra.

Apre il disco la vigorosa Fortunate Son, nella quale John si fa accompagnare dai Foo Fighters di Dave Grohl: versione tosta, potente, quasi hard, perfetta per la band dell’ex Nirvana, ma nella quale anche Fogerty ci sguazza che è un piacere (e poi dal punto di vista della voce tra i due non c’è proprio paragone…meglio Grohl!…scherzo…).

La gioiosa Almost Saturday Night (con Keith Urban) è meno rock e più country dell’originale, ma mantiene intatta la sua melodia solare, ed Urban, oltre ad avere la fortuna di trovare tutte le volte che rientra a casa Nicole Kidman ad aspettarlo, ha anche una gran bella voce.

Lodi vede John cantare da solo, in quanto qui gli ospiti sono i figli Shane e Tyler, che suonano la chitarra ma non cantano: una versione più rock’n’roll dell’originale, che però non riserva grandi sorprese.

Mystic Highway è uno dei due brani nuovi presenti, con John che canta ancora in perfetta solitudine: una canzone tipica, con quell’andamento tra rock e country presente in molti suoi pezzi, una melodia solare e coinvolgente ed un bell’intermezzo sul finale per sole voci.

La title track è uno dei pezzi forti del disco: già l’originale era uno dei miei cinque brani preferiti dei Creedence, e qui la scelta della brava Miranda Lambert è più che azzeccata, il contrasto tra le due voci è perfetto, e poi c’è anche un assolo davvero strepitoso di Tom Morello che fa salire decisamente la temperatura. L’originale dei Creedence era forse più drammatica, ma qui siamo davvero solo un gradino sotto.

Bad Moon Rising ha il suono della Zac Brown Band, e indovinate chi è l’ospite? Esatto: la Zac Brown Band! Grande canzone e grande versione, tra country e southern.

Long As I Can See The Light è un’altra grande ballata di John, qui accompagnato dai My Morning Jacket: Jim James e soci se la cavano benissimo in queste situazioni (il tributo a Levon Helm lo dimostra), e John lascia loro quasi la piena luce dei riflettori, intervenendo solo alla terza strofa.

Kid Rock non è certo un fenomeno, e quasi ce la fa a rovinare la splendida Born On The Bayou: per fortuna c’è John che riesce a limitare i danni (ma invitare un altro, che so, John Hiatt, no?).

Train Of Fools è il secondo brano nuovo: un rock blues annerito, con Fogerty che lavora di slide, una canzone forse non memorabile ma che non sfigura affatto.

La bella Someday Never Comes (il singolo finale dei Creedence) vede John accompagnato dai Dawes, buona versione, molto aderente all’originale, mentre con Who’ll Stop The Rain, che vede la partecipazione di Bob Seger, abbiamo il capolavoro dell’album.

Già il brano è uno dei migliori dei Creedence (forse IL migliore), e poi Seger è uno dei grandissimi: la canzone viene arrangiata alla maniera di Bob (ricorda quasi Against The Wind), ed il barbuto rocker di Detroit giganteggia a tal punto da mettere in ombra anche Fogerty, il che è tutto dire.

(NDM: non mi dispiacerebbe un disco simile anche da parte di Seger, con Bob che rilegge i suoi brani storici accompagnato da una serie di ospiti, e John che gli rende il favore, magari proprio con Against The Wind).

Hot Rod Heart è il brano più recente di quelli riletti nel disco, un rock’n’roll irresistibile con Brad Paisley che duetta sia alla voce che alla chitarra con John, mentre Have You Ever Seen The Rain? è un’altra delle grandi canzoni di Fogerty, che qui coinvolge Alan Jackson e la sua band: versione rilassata, molto più country dell’originale, ma sempre bellissima.

Chiude l’album, e non poteva essere altrimenti, la celeberrima Proud Mary, con Allen Toussaint & Rebirth Brass Band e soprattutto la grande voce di Jennifer Hudson: arrangiamento metà gospel e metà cajun, dal ritmo irresisitibile, con John che si mantiene quasi nelle retrovie per lasciare spazio alla strepitosa ugola della Hudson, una vera forza della natura.

Fine di un grande disco: se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, ho notato l’assenza di Bruce Springsteen, che in passato ha duettato più di una volta con Fogerty (Rockin’ All Over The World sarebbe stata una scelta perfetta).

Ma sono quisquilie: Wrote A Song For Everyone è un album imperdibile.

Adesso però voglio un disco di canzoni nuove.

Marco Verdi

Novità Di Febbraio Parte I. Eels, Ron Sexsmith, Jim James, Holly Williams, Ethan Johns, Robin Trower, Chris Stamey, Chris While & Julie Matthews, Seeds

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Prime pubblicazioni del mese di Febbraio, in data martedì 5, che si vanno ad aggiungere ai già annunciati Mavericks, Townes Van Zandt, Ben Harper, Richard Thompson confermati in uscita per la prossima settimana (a proposito di Richard, ma non se ne sentiva la mancanza, è cascato l’occhio, torna la settimana prossima il mitico Richard Clayderman con Romantique su etichetta Decca, me ne sono accorto perchè, o ha fatto un patto con il diavolo, o fa come Guccini che riciclava la foto di Via Paolo Fabbri, è uguale a 30 anni fa). Chiudiamo questa parentesi non edificante chiedendoci: perché a lui fanno fare ancora i dischi mentre fior di musicisti vengono regolarmente scaricati dalle loro case discografiche? Non si sa! O meglio si sa, perché ha venduto 80 milioni di copie dei suoi album in giro per il mondo, ma non è bello lo stesso.

Torna Mark E. Everett, figlio dello scienziato Hugh Everett III, nonché leader degli Eels, con il nuovo disco Wonderful, Glorious, su etichetta E Works distr. Universal. Non manca l’immancabile versione doppia Deluxe limitata, con questo contenuto:

Tracklist
1. Bombs Away
2. Kinda Fuzzy
3. Accident Prone
4. Peach Blossom
5. On The Ropes
6. The Turnaround
7. New Alphabet
8. Stick Together
9. True Original
10. Open My Present
11. You’re My Friend
12. I Am Building A Shrine
13. Wonderful, Glorious

Tracklist Bonus CD Deluxe
1. Hold On To Your Hat
2. Your Mama Warned You
3. I’m Your Brave Little Soldier
4. There’s Something Strange
5. Happy Hour (We’re Gonna Rock)
6. That’s Not Really Funny – Live At KEXP Seattle/2011
7. In My Dreams – Live At First Avenue Manhattan/2010
8. Prizefighter – Live At First Avenue Manhattan/2010
9. Looking Up – Live At Great American Music Hall, San
Francisco/2011
10. What I Have To Offer – Live At KEXP Seattle/2011
11. I Like The Way This Is Going – Live At KEXP
Seattle/2011
12. Spectacular Girl – Live At KEXP Seattle/2011
13. Summer In The City – Live At KEXP Seattle/2011

Anche il canadese Ron Sexsmith, come di consueto su Cooking Vinyl, pubblica il nuovo album Forever Endeavour. Da quello che ho sentito, come sempre, ottimo album. Produce Mitchell Froom in quel di Santa Monica, California e nel disco suonano, tra gli altri, Greg Leisz alla pedal steel, Bob Glaub al basso e Pete Thomas alla batteria, oltre agli archi a cura del Calder Quartet (ma ci sono una valanga di altri musicisti, Matt Chamberlain, Don Heffingto, Davey Faragher, Val McCallum, Darrell Leonard, eccetera). Quattordici brani, di cui uno era già apparso in una versione cantata da Faith Hill e le ultime due canzoni sono state scritte insieme al paroliere inglese Don Black, quello che di solito scriveva per Andrew Lloyd Webber e John Barry, infatti uno dei brani, Morning Light, pensavano di proporla a Tony Bennett.

Usando per la prima volta il nome Jim James e non Yim Yames (e in futuro magari userà anche quello vero James Olliges), torna il leader dei My Morning Jacket, con un disco solista Regions Of Light And Sound of God, Coop/Universal, molto introspettivo e ricercato, sembra quasi un disco dei Beatles (o di Harrison o Lennon) fatto in collaborazione con un altro fuori di zucca, ma bravo, come Sufjan Stevens (ma la serie sugli Stati americani che fine ha fatto?), psichedelia, pop, arrangiamenti anche elettronici ma raffinati, molto interessante anche se non di immediata fruibilità, ma uno può sentirli attentamente i dischi, non c’è nulla di male. 

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Holly Williams, per darle i titoli che le spettano, è la nipote di Hank Williams e quindi la figlia di Hank Williams jr. e la sorellastra di Hank Williams III. Se poi aggiungiamo che è pure brava, siamo contenti per la pubblicazione di questo nuovo album, il terzo, e il primo per la propria etichetta, la Georgiana Records, visto che la Universal l’ha mollata (ma si è tenuto stretto Clayderman, giustamente!). I primi due dischi, The Ones We Never Knew del 2004 e Here With Me del 2009, erano entrambi belli ma questo The Highway mi sembra il migliore. Prodotto da Charlie Peacock (quello dei Civil Wars) in quel di Nashville, ma dalla parte giusta della città, vanta una lista lunghissima e mostruosa di musicisti, ne cito uno, Doug Lancio, il chitarrista di Hiatt, e alcuni ospiti a duettare con lei: Dierks Bentley, la signora Martin ormai lanciata con il country (dice niente? Gwyneth Paltrow meglio), Jakob Dylan e Jackson Browne. Non male!

Quel tipo che sbircia dalle tende del palcoscenico è Ethan Johns, figlio di Glyn, a sua volta grandissimo produttore, che infatti fa il suo mestiere anche per l’occasione, producendo il suo debutto come solista  con questo If Not Now Then When, titolo che mi pare perfetto. Per la verità nel 1992 la Polydor aveva pubblicato un Indipendent Years scomparso nella notte dei tempi. In questo nuovo CD, pubblicato per la propria etichetta, la Three Crows Music, Johns, che suona praticamente tutti gli strumenti da solo, si fa aiutare da alcuni suoi “clienti”, Laura Marling, Danny Thompson e il suo grande amico, Ryan Adams. Una piacevole sorpresa.

Chris Stamey invece, di dischi, da solo o con i Db’s (l’ottimo Falling Off The Sky nel 2012) ne ha pubblicati una valanga. Questo nuovo si chiama Lovesick Blues, esce per la Yep Rock ed è più folk-pop-rock con belle armonie, rispetto alle reunion dei Db’s e dei Big Star a cui ha partecipato. In un brano intitolato You n me n XTC secondo voi chi collabora? Esatto, Andy Partridge! Due “armonisti” pop a confronto.

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Ultime tre uscite per questa settimana (ma di altri titoli ci saranno recensioni apposite, aspettate e le leggerete), un vecchio rocker, due folk ladies e delle leggende della psichedelia.

Ennesimo nuovo album per Robin Trower. Gli ultimi, a parte i Live e i due con Jack Bruce, non mi avevano entusiasmato, sempre per lo stesso problema, lui come cantante, si ostina ma non lo è, e quelli che ha scelto ultimamente per aiutarlo non possono reggere il paragone con Jim Dewar, grande vocalist nei suoi dischi anni ’70 e prima ancora, nei Procol Harum, con Gary Brooker. Questo Roots And Branches per la V12 Records è un disco di “”classici”, e lui se ne intende avendone suonati molti, da A Whiter Shade Of Pale in giù, ma questa volta niente Jimi Hendrix (di cui, come chitarrista, è il più grande epigono vivente) ma si ritorna al blues, al soul e perfino al rock and roll. E quindi vai con Hound Dog, The Thrill Is Gone, Litte Red Rooster, I Believe To My Soul, That’s Allright Mama, Born Under A bad Sign, per citare le più famose, suonate questa volta in punta di chitarra, se si può dire. Ma cantano lui e tale Richard Watts (non è che siano pessimi, ma c’è di meglio). Per esempio, visto che nel disco suona l’armonica il grande Paul Jones (Blues Band e Manfred Mann), non era il caso di lasciare fare a lui?

Due che invece cantano alla grande sono Chris While e Julie Matthews, che,prima l’una e poi l’altra, e infine insieme, sono state per molti anni le cantanti della Albion Band di Ashley Hutchings, insieme a cui hanno scritto anche molti pezzi per il gruppo. Ma, anche se non sembra, o non si sa, di dischi insieme ne hanno già fatti una decina, oltre a molti da soliste e con il giro Fairport Convention, spesso a Cropredy. Questo Infinite Sky, molto buono, illustra sia il lato folk britannico del duo. che la passione per la musica roots americana della While, che si estrinseca in una bella serie di canzoni che si trovano su questo CD edito dalla Fat Cat Records. Indicato, e anche consigliato, a chi ama Sandy Denny, Kate Rusby, ma anche Christine Collister o Helen Watson e altre cantanti di questo tipo. Al limite si farà un po’ fatica a trovarlo, ma basta cercare in rete.

Per finire, ennesima ristampa di A Web Of Sound dei Seeds, la band psichedelica di Sky Saxon, di cui erano già uscite varie edizioni nel corso degli anni, ma questa sembra quella definitiva, doppia, edita dalla Big Beat/Ace, presenta la versione stereo, quella mono, un tot di tracce inedite, per un totale di 32 brani. Se volete controllare, un classico del 1966:

 

Disc: 1

  1. Mr Farmer
  2. Pictures & Designs
  3. Tripmaker
  4. I Tell Myself
  5. A Faded Picture
  6. Rollin’ Machine
  7. Just Let Go
  8. Up In Her Room
  9. The Wind Blows Your Hair (Version 1) (2013)
  10. Dreaming Of Your Love (Version 2) (2013)
  11. Out Of The Question (Version 4) (2013)
  12. I Tell Myself (Take 1) (2013)
  13. Pictures & Designs (Take 14) (2013)
  14. Just Let Go (Take 4) (2013)
  15. A Faded Picture (Take 1) (2013)
  16. Disc: 2

  17. Mr Farmer
  18. Pictures & Designs
  19. Tripmaker
  20. I Tell Myself
  21. A Faded Picture
  22. Rollin’ Machine
  23. Just Let Go
  24. Up In Her Room
  25. Pretty Girl
  26. Moth And The Flame
  27. I’ll Help You (Carry Your Money To The Bank)
  28. Cry Wolf
  29. Plain Spoken
  30. The Gardener
  31. One More Time Blues
  32. Creepin’ About
  33. Buzzin’ Around

Direi che per oggi può bastare, alla prossima.

Bruno Conti

Il Concerto Dell’Anno? Love For Levon 3-10-2012 Izod Center East Rutherford, NJ Esce In CD DVD e Blu-Ray il 19 Marzo

 

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Love For Levon A Benefit To Save The Barn Time Life 19-3-2013

Probabilmente per la dimensione dell’evento, la validità dei suoi scopi, il nome dei partecipanti, quello che si è definito comunemente 12-12-12 Sandy Relief Concert è stato il “concerto dell’anno”, ma ufficialmente ormai non lo vedremo pubblicato, se non in quel formato ridotto in 2 CD (salvo futuri ripensamenti) ma la serata del 3 ottobre all’Izod Center di East Rutherford nel New Jersey in onore di Levon Helm e della sua musica, ha tutta l’aria di essere stato il “più bel concerto dell’anno”, a livello musicale. Come sapete il grande batterista e cantante della Band e in mille altre avventure musicali ci ha lasciati il 19 aprile dello scorso ma come dice il motto nel suo sito “Keep It Goin”, sua figlia, i suoi amici musicisti e un po’ tutti vorrebbero preservare The Barn Studios e il Midnight Ramble, quindi l’uscita di Love For Levon il 19 marzo p.v., servirà a raccogliere ulteriori fondi per queste benemerite attività.

La Time Life pubblicherà il tutto in 2DVD+2CD, 2Blu-Ray + 2CD, 2 DVD o 2 Blu-Ray, per una durata totale di 180 minuti (ma si dice che oltre al concerto, diviso in due parti, e della durata di oltre due ore dovrebbero esserci altre 2 ore di materiale bonus).

Nel corso della serata sono stati eseguiti 27 brani e dal trailer si desume che dovrebbero esserci tutti, e questa è la lista dei brani e dei musicisti ospiti:

Set One: The Shape I’m In (Warren Haynes), Long Black Veil (Haynes and Gregg Allman), Trouble In Mind (Jorma Kaukonen and Barry Mitterhoff), This Wheel’s On Fire (Levon Helm Band w/ Shawn Pelton), Little Birds (Levon Helm Band), Listening To Levon (Marc Cohn), Move Along Train (Mavis Staples), Life Is A Carnival (Allen Toussaint and Jaimoe), When I Paint My Masterpiece (John Prine & Garth Hudson), Anna Lee (Bruce Hornsby), Ain’t Got No Home (Jakob Dylan and Rami Jaffee of Wallflowers, spero anche in rappresentanza del babbo)), Whispering Pines (Lucinda Williams), Rag Mama Rag (Mike Gordon and John Hiatt)

Set Two: Don’t Do It (David Bromberg and Joan Osborne), I Shall Be Released (Grace Potter, Don Was and Matt Burr), Tears Of Rage (Ray LaMontagne and John Mayer), Rockin’ Chair (Dierks Bentley), Genetic Method (Garth Hudson) > Chest Fever (Dierks Bentley), A Train Robbery (Eric Church), Get Up Jake (Eric Church), Tennessee Jed (John Mayer), Up On Cripple Creek (Joe Walsh and Robert Randolph), Ophelia (My Morning Jacket), It Makes No Difference (My Morning Jacket), The Night They Drove Old Dixie Down (My Morning Jacket and Roger Waters), Wide River To Cross (Amy Helm and Roger Waters), The Weight (Everyone). Al di là del fatto che tutti hanno suonato e cantato bene di un paio di nomi mi sfugge la funzionalità all’evento, comunque tutti i brani venivano dal repertorio di Levon Helm solista o con la Band, ad eccezione della bellissima canzone dedicatagli da Marc Cohn (mancava Elton John a cantare Levon)!

La Levon Helm Band per l’occasione era formata da:  Larry Campbell (guitar), Jim Weider (guitar), Don Was (bass), Teresa Williams (vocals), Amy Helm (vocals), Brian Mitchell (keyboards), Rami Jaffee (keyboards), Kenny Aronoff (drums), Justin Guip (drums), Sean Pelton (drums, percussion), Byron Isaacs (bass), Erik Lawrence (saxophone), Howard Johnson (tuba), Steven Bernstein (trombone/trumpet), Jay Collins (trumpet) and Clark Gayton (trombone); siccome di batteristi giustamente ce n’erano “solo” 3, in alcuni brani si è aggiunto anche Steve Jordan e c’era anche qualcun altro non citato.

I video sono presi da YouTube ma il concerto è stato ripreso in HD e quindi la qualità sarà ben altra!

Bruno Conti

Non Bisogna Dimenticare! The Levon Helm Band – The Midnight Ramble Sessions Vol.3

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The Levon Helm Band – The Midnight Ramble Sessions Vol. 3 – Vanguard 20-11-2012

Il 19 aprile di quest’anno moriva Levon Helm uno dei più grandi musicisti della storia della musica americana, per lunghi anni componente della Band e poi solista in proprio dagli anni ’70 in avanti, anche con alcune reunion del suo gruppo nello scorrere del tempo. Nella prima decade degli anni ’00 la carriera di Levon Helm aveva avuto un ritorno di fiamma con i due strepitosi album, Dirt Farmer e Electric Dirt, nonchè una super jam session dal vivo come Ramble At The Ryman, ma prima aveva inaugurato una serie di “riunioni di amici” registrate nel suo studio “The Barn” chiamate Midnight Ramble Sessions.

Visto che il motto della famiglia Helm nella persona della figlia Amy e dei suoi amici è “Keep It Going”, tra poco la Vanguard pubblicherà il terzo volume della serie, ma nel frattempo, il 3 di ottobre si è tenuto un mega concerto commemorativo, Love For The Levon, all’Izod Center di East Rutherford, New Jersey, a cui ha partecipato la crema della musica americana (e non) che ci piace.

La buona notizia è che tutto è stato registrato (come potete vedere dai cameramen che girano sul palco nei filmati qui sopra) e verrà pubblicato il prossimo anno in CD e DVD. Tra la miriade di ospiti sul palco, Garth Hudson, Roger Waters, John Hiatt, Jorma Kaukonen, Gregg Allman, Jacob Dylan, Ray LaMontagne, Grace Potter, Mavis Staples, My Morning Jacket, Bruce Hornsby, Warren Haynes, Marc Cohn, Lucinda Williams, David Bromberg, Allen Toussaint, e molti altri, troppi per nominarli tutti.

Nel frattempo attendiamo l’uscita del terzo capitolo delle Midnight Ramble Sessions, per il resto si vedrà quando sarà il momento, per il momento “Keep It Going”!

Bruno Conti

Proprio Bravi Questi “Pickers”! Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick

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Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick – Sci Fidelity CD

Keller Williams è un musicista eclettico.

Cantante, chitarrista, compositore, one man band, percussionista (bella pettinatura anche, NDB*), ha al suo attivo una lunga serie di albums (nonostante la giovane età), da solo o in collaborazione con diverse band del circuito jam: ha infatti collaborato e girato in tour con gli String Cheese Incident (e questo disco di cui mi accingo a parlare esce per l’etichetta di proprietà dei ragazzi del Colorado), Umphrey’s McGee, Yonder Mountain String Band, oltre ai Rhythm Devils, cioè il combo di Mickey Hart e Bill Kreutzmann dei Grateful Dead.

Come possiamo vedere tutte band che hanno come comune denominatore la creatività e la capacità di improvvisazione oltre, con l’eccezione dei Devils, a un contatto ben definito con la musica della tradizione americana, che sia country, bluegrass o folk. Williams ha poi sempre amato i cosiddetti “pickers”, cioè gli specialisti degli strumenti a corda tradizionali, suonati con l’uso dei polpastrelli (gli Incident sono a loro volta dei pickers eccellenti), ed era quindi nelle cose che il suo cammino si incrociasse con quello dei Travelin’ McCourys (che non sono altro che la Del McCoury Band senza Del, quindi Rob e Ronnie McCoury, Jason Carter ed Alan Bartram).

La famiglia McCourys è da sempre una delle eccellenze assolute nel mondo del bluegrass tradizionale, non li scopro certo io, e Pick, frutto della collaborazione con Williams, è un bel disco di pura bluegrass music, con una spiccata tendenza alla jam, in cui i cinque lasciano correre in libertà le dita in una gara di bravura mai fine a sé stessa, ma con grande creatività e coesione, come se suonassero insieme da una vita. Le dodici canzoni presenti sono per una buona metà opera di Williams, mentre per il resto troviamo riedizioni di brani già noti dei McCourys, oltre ad alcune covers, un paio delle quali davvero sorprendenti.

Il disco non è forse al livello delle cose migliori di band come Old Crow Medicine Show (nei quali però la componente rock non è da sottovalutare), Black Twig Pickers o Trampled By Turtles, ma è di sicuro una proposta sopra la media. E dire che l’album parte quasi in sordina, come se i cinque stessero scaldando i motori, ma poi dal quinto brano in poi il disco decolla ed arriva fino alla fine come un treno in corsa.

Apre le danze Something Else, un brano invero dalla melodia un po’ contratta, anche se il dialogo tra gli strumenti funziona subito molto bene (violino e mandolino su tutti); meglio American Car, più solare e ritmata (anche se il ritmo è dato dagli strumenti a corda, la batteria è assente), mentre Messed Up Just Right ha un motivo molto old fashioned, sembra proprio un brano supertradizionale, con l’amalgama tra gli strumenti e le voci (a turno cantano tutti) che cresce ulteriormente.

Mullet Cut non è un granché come canzone in sé, ma i cinque compensano con la bravura negli incroci e stacchi strumentali; l’album si impenna con Graveyard Shift (di Steve Earle, tratta proprio da The Mountain, il disco che Steve aveva inciso con la Del McCoury Band), un country-blues molto pimpante, nel quale domina il banjo di Rob, anche se gli altri non si tirano certo indietro. I Am Elvis ha un inizio attendista, nel quale i nostri sembra quasi che stiano accordando gli strumenti, poi il violino di Carter dà il via ed il brano parte in quarta, un perfetto viatico per le dita capaci dei nostri pickers (ed il brano mi ricorda quasi i Dead più bucolici). What A Waste Of Good Corn Liquor (un brano dei McCourys originali) è puro bluegrass, dal refrain che più tradizionale non si può, uno dei brani migliori fino ad ora; Broken Convertible è un divertente country-grass con tendenza spiccata alla jam, cinque minuti di piacere per le orecchie.

L’album volge al termine, ma i cinque non mollano la presa, anzi iniziano proprio ora le sorprese: I’m Amazed è una tonica e corroborante versione di un brano dei My Morning Jacket, piena di assoli (grande il banjo), mentre Price Tag è una versione in puro bluegrass style, a dir poco stupefacente, di una nota canzonetta pop insulsa di tale Jessie J (è stato un vero tormentone alla radio), una trasformazione che mi ha lasciato a bocca aperta. Come prendere una ciofeca e farne un grande brano: neanche Rick Rubin avrebbe osato tanto. Chiudono il disco una versione molto traditional di Sexual Harassment (un brano di John Hartford) e la veloce e corale Bumper Sticker, che vede anche il vecchio Del McCoury alla voce solista (ed il carisma si sente subito).

Un dischetto tonico, una collaborazione azzeccata: speriamo soltanto che non rimanga un episodio a sé stante.

Marco Verdi