Un’Ottima Appendice Ad Un Grande Disco! Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – A Little Something More From

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Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – A Little Something More From – Stax/Concord CD

Due dei migliori album in assoluto del 2015 sono stati Delilah di Anderson East e l’omonimo di Nathaniel Rateliff & The Night Sweats http://discoclub.myblog.it/2015/09/03/ora-il-migliore-album-rocknsoul-dellanno-nathaniel-rateliff-the-night-sweats/ , due dischi di rhythm’n’blues classico, ma molto diversi tra loro, in quanto il primo proponeva un tipo di blue-eyed soul molto raffinato e suonato in punta di dita, mentre il secondo aveva un suono molto potente e quasi rock https://www.youtube.com/watch?v=TZagCklvj1E . Entrambi i lavori hanno avuto un inatteso successo di pubblico, ma mentre quest’anno East è stato disco graficamente poco attivo (solo un brano nuovo nella compilation Southern Family, curata da Dave Cobb, mentre si è dato da fare nella vita privata essendosi fidanzato con Miranda Lambert), Rateliff ci ha voluto gratificare con questo A Little Something More From, un mini CD (otto canzoni) che sia nel titolo che nella copertina si ricollega direttamente al bellissimo disco dello scorso anno.

Non sono riuscito a scoprire se i brani qui presenti siano frutto delle stesse sessions dell’album del 2015 o siano state registrate in seguito (propendo però per la prima ipotesi), ma ciò che importa è che il dischetto è bello, piacevole, quasi allo stesso livello del suo predecessore, e quel quasi è per l’assenza di due-tre brani (magari anche covers) che lo avrebbero allungato un po’ nella durata rendendolo un vero e proprio album, anche se ventinove minuti sono comunque apprezzabili, ci sono full-length che durano meno. Rateliff ed i suoi Sudori Notturni suonano con la consueta forza, e ci regalano ancora una serie di canzoni di prima qualità anche dal punto di vista della scrittura: Nathaniel, poi, ha una grinta fuori dal comune, oltre che una voce potente, ed il suono quasi viscerale del gruppo, una vera rock band con l’aggiunta di fiati, fa il resto, facendo sì che A Little Something More From diventi un perfetto completamento di Nathaniel Rateliff & The Night Sweats, al punto che non sarebbe per nulla strano ascoltarli uno di fila all’altro (*NDB Infatti ne esiste una edizione uscita da poco dove i due dischi sono stati messi insieme come un doppio album a prezzo speciale). Forse non ci sono due brani strepitosi come I Need Never Get Old e S.O.B., ma il divertimento nella mezz’ora che gli vorrete dedicare è assicurato.

Parlor è un saltellante e colorato errebi dal motivo piacevolissimo, cantato con voce forte e suonato alla grande, con i fiati molto discreti sullo sfondo, un pezzo che circa cinquanta anni fa avrebbe fatto la felicità di Sam Cooke. L’energica I Did It è puro “Blaxploitation Soul” in stile primi anni settanta, sembra incredibile che a suonare (e cantare) siano tutti di pelle bianca: organo e chitarre a manetta e grande godimento; la spedita e ritmata Out On The Weekend è un altro fantastico brano soul suonato in maniera splendida, con gran voce del leader e solito sapore vintage nel suono: se fosse andata sul disco dello scorso anno non ci sarebbe stato da scandalizzarsi. Wastin’ Time era uno dei brani di punta dell’ultimo album, e questa versione dal vivo allo Stax Museum of American Soul Music non ha meno forza (*NDB Sembra quasi un pezzo della Band, infafft guardate l’ultimo video alla fine del Post), anzi; la fiatistica What I Need (una b-side di un singolo dello scorso anno) è ancora splendida, una ballata dal feeling enorme, con ottimo uso del piano ed una performance vocale strepitosa del nostro (altro che lato B), mentre Just To Talk To You smorza un po’ i toni, presentandosi come un brano acustico di stampo decisamente roots, qualcosa di diverso ma assolutamente credibile. Chiudono il dischetto la mossa e godibile How To Make Friends, soul molto sixties, ritmato e ricco di atmosfera (ma la sezione ritmica picchia secco), ed una prima versione di Out On The Weekend intitolata Late Night Party.

Nathaniel Rateliff dimostra con questo piccolo ma bellissimo dischetto di essere uno tosto, ed a questo punto spero in un nuovo album in tempi brevi: dopotutto se ci sto prendendo gusto è solo ed esclusivamente colpa sua.

Marco Verdi

P.s Comunque questo signore era già bravo prima della svolta soul, come chi legge questo blog sa https://www.youtube.com/watch?v=vjM0xggoY9E

http://discoclub.myblog.it/2014/02/23/il-ritorno-del-giardiniere-nathaniel-rateliff-falling-faster-than-you-can-run/

http://discoclub.myblog.it/2010/09/26/un-altra-cosa-da-fare-a-denver-nathaniel-rateliff/

Bruno Conti

Piccoli “Mumford & Sons” Crescono…! Bear’s Den – Islands

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Bear’s Den – Islands – Communion Records/Universal

Preparate il portafoglio, perché tra un po’ vi sentirete più leggeri, in tutti i sensi, anche più felici volendo. Il sottobosco musicale inglese è talmente fertile e ricco di talenti che da solo basterebbe a riempire il sempre più asfittico attuale panorama musicale. A questa categoria (quella dei talenti) appartengono i Bear’s Den, il segreto “meglio custodito” dell’attuale scena folk londinese, che, dopo avere ottenuto un buon successo di critica con i due primi EP, Agape e Without/Within, fanno il loro esordio ufficiale con questo Islands https://www.youtube.com/watch?v=9TZh_md7DOI , distribuito dalla lodevole Communion Records tramite la major Universal, con un tipo di“sound” di matrice anglo-americana che non può non ricondurre ai più famosi Mumford & Sons (peratro al momento nella fase in cui la luna di miele con la critica sembra quasi finita, ingiustificatamente).

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I Bear’s Den sono un barbuto trio di musicisti, composto dal frontman Andrew Davie alla voce e chitarra, Joey Haynes voce e banjo e Kevin Jones voce e batteria, che dopo aver percorso nel giro di due anni una lunga strada di concerti e mini album indipendenti, escono dalla loro “nicchia” per concorrere (per chi scrive) al miglior debutto dell’anno. Le canzoni di Islands si animano subito con il banjo e i tamburi di una notevole Agape, seguita dalla delicata The Love We Stole, dalla struggente malinconia di Above The Clouds Of Pompei, con il banjo di Haynes che ti apre il cuore https://www.youtube.com/watch?v=pGXBR1wR-mo , come pure nelle successive Isaac, dalle splendide armonie vocali, e Think Of England un fiero e nostalgico omaggio alla loro patria. Si prosegue con Magdalene che potrebbe ricordare, almeno al sottoscritto, certe cose dei National,  per poi passare a quello che potrebbe essere il “clou” di tutto il lavoro, una splendida When You Break,  una sorta di moderno brano indie-folk caratterizzato da una intro straordinaria, che apre la strada anche ad una martellante e solida Stubborn Beast, prima di andare a chiudere con le raffinate note di Elysium https://www.youtube.com/watch?v=BH-wP2TDUBQ e le maestose armonie di Bad Blood, altro brano manifesto del gruppo, canzone che quando viene eseguita dal vivo, sprigiona tutta la sua bellezza https://www.youtube.com/watch?v=v5plSAtYiZE .

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I Bear’s Den sono “pionieri”, e seguaci al tempo stesso, di una nuova frontiera musicale, nelle loro mani canzoni di disperazione diventano momenti di gioia e di rara bellezza, e sarebbe veramente un delitto (musicale) che questi brani non trovino la giusta consacrazione: una band con un futuro luminoso all’orizzonte, e un presente, sempre per andare alla ricerca di paragoni, che li avvicina alla bellezza delle canzoni di Nathaniel Rateliff, altro musicista che si colloca in questa area musicale. Come al solito, la ricerca continua!

Tino Montanari

Un’Altra Cosa Da Fare A Denver…Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss

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Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss – Rounder/Decca-Universal

Come avrete intuito dal titolo, questo signore vive a Denver, Colorado dove svolge l’attività di giardiniere, ma è anche uno dei nuovi (giovane non gli si addice, avendo già superato la trentina) talenti nell’arte del cantautore, Singer-Songwriter suona più fascinoso. In effetti il “gruppo”, come dice lui in alcune interviste, sarebbe Nathaniel Rateliff and the Wheel, ma il suono che fuoriesce dalle casse del mio impianto è indubitabilmente quello di un solista, oserei dire addirittura di un folksinger, per quanto dotato di una bellissima voce.

Già, la voce è la prima cosa che si nota ascoltando questo In Memory Of Loss: nelle anticipazioni parlavo di voce “strana”, quella che ti colpisce fin dalle prime note di Once In A Great While, il brano di apertura di questo album e che poi ti accompagna in un viaggio lungo tredici canzoni. Brani morbidi, di impianto acustico, ma con una bella tessitura sonora costruita con la collaborazione del produttore Brian Deck (vi parlavo di Califone e Iron and Wine, tra i suoi clienti ma ha prodotto anche Modest Mouse e Josh Ritter nei suoi studi di Chicago), piccoli particolari sonori, oltre all’immancabile chitarra acustica arpeggiata, un piano qui, un violino là, una sezione ritmica discreta ma presente (e qui mi ha ricordato vagamente un’altro gruppo, i Swell Season), una voce femminile, Julie Davis che suona anche il contrabbasso (come nel brano d’apertura e nei video che potete vedere è co-protagonista con Rateliff), l’armonica, quando serve anche delle chitarre elettriche e il risultato è affascinante.

Devo ancora decidere se il disco mi piace soltanto o mi piace molto ma non fa molta differenza. Il filone, se volete, è quello del neo-folk che vede tra i suoi nuovi luminari i mai troppo incensati Mumford And Sons che continuano imperterriti a scalare le classifiche in tutto il mondo e che al momento sono in tournée proprio con Rateliff, ma anche i Low Anthem, i già citati Iron Wine (tutti gruppi caratterizzati da un cantante con una voce “particolare”) ma non mancano influenze indirette, tra gli artisti ascoltati in gioventù nella cittadina di 60 anime nel Missouri dove viveva Rateliff cita Van Morrison, e qualcosa si sente, Muddy Waters e Beatles, anche in questo caso, la conclusiva Happy Just to Be sembra la gemella separata alla nascita di Across The Universe, almeno nella parte iniziale e nel ritornello il tema ritorna ma il brano è talmente bello che non puoi arrabbiarti.

La critica inglese, provvida di 4 stellette ha ricordato la voce di Johnny Cash, ma anche quelle di Tim Hardin e Guy Clark, quindi non si vola bassi. Al sottoscritto ricorda anche qualcosa del Cat Stevens di Catch Bull At Four e, per le atmosfere, i grandi Mark-Almond (quelli con la K, da non confondere, Jon Mark e Johnny Almond) nei loro momenti più rarefatti.

Il disco è stato scritto come “offerta d’amore” per una donna che voleva conquistare (e come dice in una intervista è andata bene perché l’ha sposata) e quindi pur nella sua malinconia splende un fondo di ottimismo, come ad esempio nella bellissima Every Spring Still con i suoi improvvisi crescendi strumentali che ricordano i citati Mumford and Sons e il cantato a più voci mutuato dal folk più tradizionale.

Ma poi a ben vedere il disco in un certo senso è quasi autoreferenziale, quando in certi momenti ti trovi a dire, “ma questa la conosco”, mi ricorda qualcosa, poi riflettendo concludi “ma certo, o pirla, ti ricorda un brano precedente, ma sempre suo!). Ci sono momenti assai rarefatti, quasi scarni come in We Never Win, solo voce e un organo di coloritura, altri più espansivi (sempre con quel raddoppio di voci affascinanti) come la trascinante Brakeman (che è quella che mi ha ricordato il citato Cat Stevens).

Un’altra caratteristica del disco è che le canzoni sono quasi tutte molto brevi, non fai in tempo ad annoiarti anche nei brani meno memorizzabili, come la triste Longing and Losing, molto minimalista. Oil And Lavender con la sua voce risonante e profonda ti ricorda mille cose che non riesci ad afferrare e anche questo è il merito di un grande autore(il recensore di Mojo, ha parlato di musica dei silenzi). Poi improvvisamente quando credi di avere capito tutto la musica diventa più complessa, entra un’armonica e ti trovi a cavallo tra il country più nobile e Dylan, come nella stupenda You’ve Should’ve Seen The Other Guy, con i vocalizzi improvvisi nel finale.

Altro brano di grande spessore e con un arrangiamento molto più grintoso, Whimper and Wail, si avvale anche di un violino sinuoso, oltre che di una sezione ritmica più presente e ci riporta ai signori già citati più volte che non dirò nuovamente ma già sapete. Boil and fight sempre raccolta ma espansiva (l’uso di più voci, come gia detto, aiuta) introduce anche il suono di un vibrafono che si aggiunge ai soliti strumenti appena accennati. When We Could mi ha lanciato un flash (un’impressione brevissima e sfuggente) di You’ve Got A Friend, ma il filone è quello, singer-songwriters acustici.

A lamb on the stone con le sue immagini bucoliche ci rimanda ai grandi spazi dell’America ma anche ad un mondo che non c’è più, e qui una citazione per il Van Morrison pastorale del periodo Californiano è d’obbligo, il brano scivola via che è un piacere su una sezione ritmica agile e vagamente jazzata e con piano e una chitarra elettrica che aprono il suono verso sonorità tipicamente americane, assolutamente una piccola delizia sonora.

Prima della conclusione Beatlesiana c’è spazio ancora per un piccolo acquarello sonoro folk, i due minuti scarsi di When You’re Here solo voce e chitarra acustica, dolcissima.

Sì, direi che mi piace molto, e poi ha anche una bella faccia, sincera, non so se c’entra ma aiuta.

Bruno Conti