Un’Altra Bella Coppia, Musicale. John Ginty Feat. Aster Pheonyx – Rockers

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John Ginty Feat. Aster Pheonyx – RockersAmerican Showplace Music                

Forse il nome John Ginty non dirà molto ai più, ma il nostro amico non è un novellino: in pista da più di 20 anni Ginty, che suona organo, piano e altre tastiere, appariva già negli anni ’90 in tutti i dischi di Neal Casal (e anche in quelli degli anni 2000), come pure in Strangers Almanac dei Whiskeytown, con i Blind Boys Of Alabama, nella prime versioni della Family Band di Robert Randolph, ha suonato anche in Shaman di Carlos Santana, nel primissimo disco di Dana Fuchs Lonely For A Lifetime, con Kathleen Edwards: io personalmente lo ricordo come produttore e musicista insieme a Todd Wolfe e con le Court Yard Hounds, con Albert Castiglia, e moltissimi altri, insomma un bel CV. Ha registrato anche alcuni album a nome suo, tra cui un buon doppio dal vivo Fireside Live, e recentemente ha deciso di unire le forze con Aster Pheonyx, che al di là di nome e cognome bizzarri (credo una storpiatura di un personaggio dei Manga giapponesi), ha già un album al suo attivo, pubblicato nel 2011. Il risultato, come si può forse intuire, per certi versi, ricorda quello dell’accoppiata Bonamassa/Beth Hart, con un tastierista al posto di un chitarrista (ma pure le 6 corde nel disco si apprezzano), la citata Dana Fuchs, e anche, andando indietro nel passato, Brian Auger & Julie Driscoll, visto che l’organo è spesso lo strumento solista. Ad esempio nei due strumentali posti in apertura e chiusura di questo Rocker: The Shark, su un groove funky e corposo creato da Justine Gardner al basso e Maurice “mOe” Watson alla batteria, l’organo Hammond B3 di Ginty sembra quello di Auger ai tempi degli Oblivion Express https://www.youtube.com/watch?v=j_wbibie_wk , mentre nella conclusiva Rockers pare addirittura di ascoltare le evoluzioni prog-rock di Keith Emerson negli E L & P.

Il resto dei brani dell’album portano la firma unita di Ginty E Pheonyx e svoltano decisamente verso un rock-blues energico, ma di qualità, grazie alla bella voce di Aster, che a tratti rivaleggia con i nomi citati in precedenza, ma nella raffinata Mountains Have My Name pare emulare Susan Tedeschi, in un gospel-rock di grande intensità, grazie anche al tocco di classe di piano e organo, suonati magistralmente dal bravo Ginty. Altrove il rock è decisamente più energico, come nella vorticosa Lucky 13, ancora con le svisate dell’organo ben controbilanciate comunque dalle chitarre tirate di Mike Buckman e Jimmy Bennett, e pur sempre con elementi soul ben presenti. Entrambi nativi del New Jersey, Ginty ha scoperto Aster mentre cantava in un bar di Asbury Park (!?!), e i due hanno creato una bella alchimia, come confermano i brani dell’album: dalla gagliarda Believe In Smoke, molto vicina al sound della Fuchs, a Target On The Ground, con un bel dualismo piano elettrico/urgano e un’aria soul che ricorda addirittura lo stile raffinato di Janiva Magness, e pure Captain Hook mixa lo stile della Tedeschi con quello di Beth Hart (con cui condivide anche una passione per i tauaggi), con ottimi risultati. Mr. Blues tiene fede al suo nome https://www.youtube.com/watch?v=7gxeipAjq8Y , su un vorticoso giro creato dall’organo, si inseriscono chitarre dal suono rock e grintoso, e la voce sempre soulful della Pheonyx che mantiene il suo aplomb, mentre Ginty sfoggia un prodigioso solo di organo degno dei grandi dello strumento.

Dopo uno strano intermezzo con un DJ di una radio locale, l’album ci presenta uno dei brani più “morbidi”, una bella ballata pianistica come Priscilla, dove si apprezza ancora la calda vocalità di Aster, di nuovo molto vicina a Susan Tedeschi (e per affinità vocale anche a Bonnie Raitt) https://www.youtube.com/watch?v=cMySu3zgs3c , con Ginty che si cimenta anche alla Melodica. Electric si regge parimenti sulla forte attitudine vocale della ragazza, forgiata da anni di musica on the road e non da qualche improbabile talent show, con John che al solito fa i numeri all’organo, ben spalleggiato in questo caso da un bel lavoro della chitarra in modalità slide. Manca solo Maybe If You Catch Me, dove si vira quasi verso uno stile decisamente jazzy, da torch singer, per confermare la validità e la varietà di questo album, dove una bella voce convive con un pugno di ottimi musicisti che ne evidenziano la qualità con classe e mestiere. Se mi sono spiegato bene ed avete afferrato il genere, e lo amate, non lasciatevi sfuggire questo Rockers, potrebbe rivelarsi una bella sorpresa.

Bruno Conti

Nessun “Ferito” Da Questa Esplosione Di Sano Rock! Gaslight Anthem – Get Hurt

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Gaslight Anthem – Get Hurt – Island Records/Universal – Deluxe Edition 12-08-2014 USA/UK 02-09-2014 ITA

Non sono pochi quelli che aspettavano al varco Brian Fallon e i suoi Gaslight Anthem (chi scrive per esempio preferisce il “side-project” Horrible Crowes), dopo il poco convincente ultimo lavoro Handwritten (12). I Gaslight Anthem vengono dal New Jersey (il luogo mi ricorda vagamente qualcosa!), hanno all’attivo un disco di esordio Sink And Swin (07), fatto di pura rabbia (punk-rock), un seguito che ha fatto il botto, sia come vendite che a livello di critica, The ’59 Sound (08), ancora oggi uno dei più riusciti dischi rock del decennio scorso, e un terzo album dallo spirito stradaiolo e diretto American Slang (10) http://discoclub.myblog.it/2010/05/21/74c2d457cf63354e408dd1c8efce6e13/ , il sopracitato Handwritten; l’uscita all’inizio di quest’anno della compilation The B-Sides (una raccolta di “outtakes” dei loro trascorsi recenti) preludeva a questo Get Hurt (la Deluxe Edition contiene quattro tracce in più, per un totale di quasi 55 minuti), e devo dire che ad un primo ascolto mi sembra abbastanza riuscito.

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Come al solito la band viene portata per mano dal frontman, cantante e chitarrista, Brian Fallon, con i fidati “pards” Alex Levine al basso, Alex Rosamilia alle chitarre, tastiere e voce, Benny Horowitz alla batteria e percussioni (il classico quartetto rock n’roll in stile Del Fuegos), e come vocalist di supporto, due brave fanciulle che rispondono al nome di Sharon Jones (che fanciulla non è più, ma grande cantante sì) e Natalie Prass. Il tutto viene registrato ai Blackbird Studios di Nashville, con l’attenta produzione di Mike Crossey (Artic Monkeys e Jake Bugg). Get Hurt mostra i muscoli fin dall’inizio con il singolo Stay Vicious https://www.youtube.com/watch?v=K2edphSNRPY , a cui fanno seguito le dinamiche forti di 1,000 Years e la title track Get Hurt dalla atmosfera malinconica https://www.youtube.com/watch?v=I_TI14Z5NNQ .

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In Stray Paper e Helter Skeleton https://www.youtube.com/watch?v=7PLXqTZWKBk si sente il “sound” del primo Springsteen, passando poi alla melodica Underneath The Ground, mentre Rollin And Tumblin ha un intro che si adatterebbe ad un album dei Black Keys https://www.youtube.com/watch?v=iy8hLP3SFkk e anche Red Violins (un altro brano che ricorda fortemente il Boss) ci fa venire voglia di muovere il piedino. Selected Poems inizia lentamente per poi scatenarsi con poderosi “riff” di chitarre, che ritroviamo anche nella robusta Ain’t That A Shame, mentre con Break Your Heart si viaggia dalle parti delle ballate alla Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=WszGQrPMnd0 , chiudendo l’edizione standard con una Dark Places che picchia duro, con una sezione ritmica che potrebbe ricordare i Green Day. Come non sempre succede, questa volta le bonus tracks della Deluxe sono interessanti, a partire da Sweet Morphine che inizialmente pare un plagio clamoroso di The Dark End Of The Street (famosissimo brano soul di Dan Pennhttps://www.youtube.com/watch?v=1kCOnZL7ULs , seguita da Mama’s Boys, introdotta da una armonica inconsueta, che poi evolve in un brano “roots”, ancora un brano dal ritmo incalzante come Halloween, e la dolce chiusura con Have Mercy, con la voce e la chitarra di Brian accompagnate dal controcanto di Sharon e Natalie https://www.youtube.com/watch?v=EZT5TB_n-gc .

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Per chi scrive, Brian Fallon è un “bravo ragazzo” del New Jersey che compone canzoni intense e appassionate, e le canta con intensità anche maggiore, non dimenticando mai che lui e il suo gruppo, prima di raggiungere il successo, sono emersi da una oscura gavetta fatta di concerti nei club del Jersey, con live che hanno esaltato la loro giovanile energia, sempre suonando come una vera “bar-boogie band”. Get Hurt è un disco importante (anche per quelli che li aspettavano al varco) perché sono ancora con noi, lottano con noi, e possiamo di nuovo ascoltare una delle rock n’roll band più trascinanti e interessanti degli ultimi dieci anni: se sul futuro non ci sono certezze, il presente del rock n’roll passa (anche) attraverso i Gaslight Anthem di Brian Fallon.  

NDT: Adesso spero che Brian Fallon dia anche finalmente un seguito a Elsie (e al Live At The Troubadour) http://discoclub.myblog.it/2013/09/30/il-secondo-lavoro-di-brian-fallon-un-live-affascinante-da-to/  degli Horrible Crowes!

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Se avete notizie in merito, fatemi sapere. Grazie!

Tino Montanari

Sempre Blues, Ma Di Quello Tosto! The Bob Lanza Blues Band – ‘Til The Pain Is Gone

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The Bob Lanza Blues Band – ‘Til The Pain Is Gone – Self Released

Bastano sei o sette secondi dal’inizio del primo brano, Maudie, per capire che Bob Lanza tiene fede al suo motto su come suonare il Blues: “dal profondo del cuore, con ferocia, come se la tua vita dipendesse da questo!”. Bravo, sottoscrivo! In un mondo dove ogni mese escono decine di dischi di blues, per emergere, oltre alla tecnica, contano la passione e il feeling, e in questo CD ce ne sono a tonnellate di entrambe.

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Lanza non è uno di quei musicisti che si risparmia, che viaggia in punta di fioretto (o di chitarra, se preferite), il suo stile e il suo approccio alla musica sono quasi sempre entusiasmanti, il suono è vigoroso e rigoroso al tempo stesso, si usa dire “blues with a feeling” e Lanza, con l’aiuto della propria band confeziona un album dove la materia è rivista in modo viscerale, un blues elettrico ad altra gradazione, dove i protagonisti sono la chitarra e la voce del nostro, ma anche gli altri solisti, l’armonicista David “Snakeman” Runyan e il tastierista Ed “Doc” Wall, hanno un ampio spazio (musicisti coi soprannomi, già sono bravi a prescindere) https://www.youtube.com/watch?v=78Xw5nXUP4I .

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Però poche balle, quello che conta è Bob Lanza, un chitarrista di quelli completi, come si desume proprio da Maudie, una cover di Mike Bloomfield, dove l’intensità dell’approccio chitarristico ricorda moltissimo quella dello scomparso musicista di Chicago, Illinois, un misto di furia e classe, note lunghe e rabbiose, precise, un “piccolo aiuto” dal figlio Jake, che si alterna nei soli di questo piccolo gioiellino che apre le danze dell’album, “Doc” Wall a piano e organo sottolinea con maestria e la famiglia Lanza illustra cosa voglia dire suonare il Blues, anche se vieni dal New Jersey, che non è uno dei “reami” delle 12 battute, ma tant’è! Lo slow blues I’ll Take care of you è anche meglio, David “Snakeman” Runyan con la sua armonica è perfetto nel supporto solistico, Wall ci delizia sempre con le sue tastiere e con questi assist, Lanza, anche ottimo vocalist, ci spiega ancora una volta cosa vuol dire suonare il Blues, sentimento e doti tecniche, fraseggio e tono esemplari, la solista che “punge”, il tutto unito in un sound senza tempo, sentito mille volte, per un rito che si rinnova sempre, ma che se gli interpreti sono di qualità, e qui ci siamo, non è mai stanco e risaputo, come succede viceversa in molti dischi di presunti novelli geni della chitarra https://www.youtube.com/watch?v=78Xw5nXUP4I .

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Questo è “solo” blues, poco rock (ma un qualche “estratto” c’è), se gente come Earl, Robillard, il citato Bloomfield, ma anche il Clapton più canonico, possono essere usati come pietre di paragone, non si può non risalire anche a “maestri” come Jimmy Dawkins, Luther Allison, Buddy Guy, tutta gente che ha sempre instillato una certa ferocia nel proprio approccio alla chitarra, la chiusura di ‘Til The Pain Is Gone quando Lanza quasi si trasfigura nel lungo assolo finale è un ottimo esempio di questo assunto. Lo strumentale Snakebyte offre ampio spazio all’armonica di Runyan ed è più classico, vicino agli stilemi del blues urbano, anche se il fluido divenire della chitarra è sempre un piacere da ascoltare. Il momento topico del disco è nella lunga Outskirts Of Town, ancorato dalla ritmica metronomica e precisa del batterista Noel Sagerman e del bassista Reverend Sandy Joren (ti pareva che non avesse anche lui un soprannome!), Bob Lanza rilascia un assolo di quelli da manuale del perfetto bluesman, un fiume di note, un crescendo irresistibile, da applauso a scena aperta, con l’ottimo Lee Delray, altro chitarrista di vaglia a dividersi il proscenio, alla seconda solista.

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I’m ready è proprio il brano di Willie Dixon, Southside Chicago Blues con armonica e chitarra alternate, in Every Night And Every Day fanno capolino anche dei fiati, per questo standard del repertorio di Magic Sam, più sanguigno e “cattivo” del precedente, con Runyan e Wall che tirano la volata al “solito” assolo di Lanza, che esplora ancora una volta il manico della sua chitarra con un vigore inusitato https://www.youtube.com/watch?v=s_cmfVUBhp4 . Build Me A Woman è uno shuffle texano più risaputo ma sempre gradevole, ma Sugar Sweet ci riporta immantinente in quel di Chicago con il florilegio pianistico di Wall a titillare i suoi pard nell’unico brano dove la chitarra “riposa”. Lonesome vede Lanza all’acustica per un intermezzo di pace in tanta elettricità, replicato anche nella successiva Our Life, una sorta di “boogie acustico”, solo voce, armonica e chitarra. Un trio di brani, che per quanto piacevoli spezzano il ritmo del resto dell’album e la conclusiva Mojo, cantata dal batterista Sagerman non riesce a recuperare completamente il drive della prima parte del disco, che il vecchio Muddy avrebbe sicuramente approvato. Un bel disco, con una parte finale più “selvaggia” sarebbe stato quasi perfetto, ciò nondimeno merita, anche se è uscito da qualche mese e non si trova con facilità!

Bruno Conti   

Dal New Jersey Non Solo Springsteen, Anche Blues E Rock Ma…Matt O’Ree Band – Live In Denver, Co.

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Matt O’Ree Band – Live In Denver, Co –  mattoree.com

Cosa sarebbe successo se da giovane Springsteen, invece di innamorarsi di Dylan e Van Morrison, Gary Us Bonds e Mitch Ryder, i Beatles ed Eric Burdon, il soul e il rock’n’roll, per non parlare di Woody Guthrie, fosse diventato un adepto del blues e del power rock trio, di Albert King, Howlin’ Wolf, Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan, gli ZZ Top persino? A parte privarci della sua musica, e sarebbe stato un vero peccato, avrebbe fondato la Matt O’Ree Band, la risposta del New Jersey a questi generi, la migliore attuale band di rock-blues del Garden State, o almeno così dicono (!): con quindici anni di carriera alle spalle, tre album di studio e due live, questo Live In Denver, Co. compreso, prima il trio e poi il quartetto di Matt O’Ree, si è costruita la reputazione di essere una delle innumerevoli band che negli Stati Uniti praticano questo credo per le dodici battute, ancorché indurite in un roccioso sound che può ricordare anche, sempre secondo chi ne parla, i Gov’t Mule. Come la band di Warren Haynes, nel corso degli anni, si sono trasformati in un quartetto, con l’aggiunta del tastierista Eric Safka, al trio originale.

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Sono così bravi come tutti i nomi citati fino ad ora? Probabilmente no, in caso contrario li conosceremmo come le nostre tasche, al pari degli artisti succitati. 88 Miles, che apre le operazioni ed era il titolo del loro disco di esordio, dimostra subito che l’asse chitarra/organo O’Ree/Safka, più che sul blues è stato forgiato in anni di ascolto del classico hard-rock anni ’70, un pezzo strumentale che potrebbe ricordare anche i Deep Purple, oltre a tutti i nomi sciorinati finora http://www.youtube.com/watch?v=PKouaHx0diY.  Dove sta l’inghippo allora? Se, per citare un altro musicista che da solo o con i Black Country Communion, Joe Bonamassa tanto per non fare nomi, frequenta questi lidi sonori, vi dicessi che è un grandissimo cantante, giustamente mi prendereste per pirla, ma confrontato con Matt O’Ree lo è! Ma prendere un bravo cantante no? Costa troppo? Però, anche se non canta moltissimo, siamo quasi ai limiti della decenza. Forse esagero, ma paragonate con il sound che riescono a costruire, per esempio nel vigoroso rock di Ain’t Got No Time, le parti cantate costituiscono una sorta di anti-climax, siete lì, tutti arrapati a fare air guitar davanti allo specchio e poi quando inizia a cantare si ammoscia tutto, cosa avete capito, l’attenzione dell’ascoltatore, naturalmente (autocensura). http://www.youtube.com/watch?v=7qwoFHPzc2A

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La Gibson del leader ha un suono bello “grasso” (e pure la Fender quando la usa), l’organo hammondeggia di gusto, come nella lunga Big Jenna, ma lui si ostina a cantare (e questo gli costa almeno una stelletta se non di più), gli elementi Led Zep, Mule e Allman ci sono http://www.youtube.com/watch?v=9OIcIwpoAKE , le jam strumentali pure, ma la voce, secondo il gusto di chi scrive, “nun se po’ sentì” (il romano non mi viene bene, ma il senso è chiaro), anche Kenny Wayne Shepherd si è preso un bel cantante, o nel disco dei Rides ha lasciato cantare Stills, fallo anche tu Matt e tutto sarà perdonato! Anche in I Don’t Dance e Saints And Sinners (niente a che vedere con Johnny Winter) si capisce che hai stoffa ma il cantato, per tornare al milanese che mi è più familiare, è proprio “loffio”. La riffata Running Home e la lunga sarabanda di assolo nel super classico I’m A man, che tutti conosciamo  http://www.youtube.com/watch?v=t9qNSmQaJpg , fanno sì che il disco arrivi ad una risicata sufficienza, ma è un parente del vecchio 6 politico. Tra l’altro, molti dei nomi citati ad inizio recensione, che non erano farina del mio sacco, non li ho captati in quanto sentito, ma sbaglierò io. Forse sarà anche per questo, almeno a giudicare dai filmati su YouTube e nel loro sito, che non suonano di fronte a folle oceaniche.

Bruno Conti   

Reload & Replay Part II: Quello “Bravo” E’ Sempre In Mezzo Nella Foto, Ma Anche Gli Altri Non Sono Male! E Ora Potete Trovare Anche Il Loro CD E Pure Il Video, La Saga Continua! Psychic Twins – Crossings

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*NDB Bis George Lucas con la sua saga di Guerre Stellari “ci fa una pippa”, ormai questo Post ( e il suo titolo) stanno assumendo dimensioni pantagrueliche a furia di aggiornamenti (ma è il bello della rete e dei Blog, mai statici, sempre in rinnovamento, si è allargata pure la foto di copertina), ora è arrivato anche il momento del video ufficiale di Two Sides, forse (ma forse) la canzone più bella del disco. Il filmato è “lieve”, autoironico e veritiero, per quello che posso conoscere Max e Fab, M&F (non la rivista, per quanto…),ovvero i Psychic Twins. The world domination continues, il mese prossimo dovrebbe uscire (spero) anche una versione light di questa recensione sul Buscadero. Sono Evaristo scusate se insisto, ma il disco è molto piacevole, si potrebbe anche comprare. Vai con il video…

 *NDB. Quando il 23 febbraio pubblicavo questo Post l’album non aveva ancora un CD fisico disponibile, ora tramite la distribuzione IRD lo potrete trovare anche nei negozi (quelli che resistono ancora). Il mio giudizio ovviamente è rimasto lo stesso e lo potete (ri)leggere qui sotto, senza la parte sulla distribuzione discografica, ora superata! Ho anche aggiunto il nuovo video Unplugged registrato a Panorama.it e alcuni ulteriori video apparsi in rete nel frattempo con brani dell’album.

Bruno Conti

 

Psychic Twins – Crossings – Greywolf Records Inc. – Download iTunes – CD Distr. IRD

La tradizione di ritrarre l’artista sulla copertina del suo album, con dischi di altri in vista, risale alla notte dei tempi, un caso classico è Bringing It All Back Home di Dylan. Nel loro piccolo anche i due Psychic Twins (italianissimi, nonostante il nome e credo nulla a che vedere con le due gemelle americane che previdero l’attacco alle torri gemelle) hanno pensato bene di farsi ritrarre sulla copertina del loro disco d’esordio Crossings, mentre brandiscono (immagino con rispetto e devozione) la copertina interna del vinile di Born To Run di quel signore del New Jersey di cui al momento mi sfugge il nome, ma che qualche influenza sulla loro musica ce l’avrà pure se si trova lì!

Prima di iniziare mi scuso con loro per il ritardo con cui parlo del disco, che mi era stato recapitato già da alcune settimane (comunque “better late than never, come si dice), ma essendo sempre in ritardo perenne e con pigne di dischi da recensire sul tavolo e vicino all’impianto, oggi accantono gli ultimi di Eric Burdon e Boz Scaggs, due “giovani” promesse, e mi occupo di questo CD. Ovviamente la musica è quella giusta per il Blog, ma se le loro influenze fossero state Toto Cutugno, gli Abba o i Duran Duran, non so se ne avrai parlato con la giusta dose di entusiasmo, però visto che le coordinate musicali sono altre, direi chiaramente anglo-americane e giustamente “classiche”, niente nuove tendenze, quelle le lasciamo a Sanremo. La prima cosa, a colpo d’occhio, prima dell’ascolto, che colpisce il vecchio frequentatore di dischi (inteso in senso lato), scorrendo le note, è che nell’album ci sono due di tutto: due loro, Massimo Monti, il paroliere e Fabrizio “Fab” Friggione, il cantante, autore e chitarrista, non come Lennon/McCartney o Jagger/Richards, ma più come Elton John/Bernie Taupin o Jerry Garcia/Robert Hunter, per volare subito bassi (ma esageriamo, tanto non costa nulla sognare), nel senso che l’autore dei testi fa solo quello, non partecipa alla fase musicale. E poi due vocalist, due bassisti, due chitarristi, due batteristi, due tastieristi, mai utilizzati contemporaneamente, ma a testimoniare la professionalità del prodotto, ruotati a seconda del brano. 

Non vi parlo della storia dei musicisti coinvolti e della genesi dei brani perché non la conosco, ma visto che le orecchie per ascoltare ce le ho, e anche allenate da svariati anni di frequentazione della buona musica rock, vi dico subito che il disco mi piace: otto brani, quasi 35 minuti di musica, molto derivativa indubbiamente, machissenefrega, di buona qualità, prodotta con passione e la giusta dose di gusto, niente esperimenti futuribili ma solo del buon vecchio sano rock. L’aria che si respira nel brano di apertura, The Two Sides (on the wrong side of the railroad tracks) è quella delle spiagge e dei bar del New Jersey, ma anche, volendo, della pianura padana dove gli epigoni di Springsteen (e diciamolo!) sono numerosi ed agguerriti, a partire da Graziano Romani, ex leader dei Rocking Chairs, la cui voce roca e vissuta mi sembra abbia qualche punto in comune con quella di Friggione, e anche la profusione di chitarre e tastiere e sane atmosfere blue collar, sono un giusto auspicio per la partenza del disco.

Che poi si sposta su sonorità che possono ricordare il primo Joe Cocker, quello delle cavalcate in compagnia di Leon Russell o Chris Stainton, ben rappresentati dal piano dal bravo Enrico Ghezzi, nella sua unica presenza nella vigorosa Pain straight no ice con profumi errebì misti a rock. Più rock’n’roll selvaggio nella scatenata Lock me In che fonde il classico pianino R&R di Stefano Ivan Scarascia con la chitarra in overdrive di Friggione, corettini vagamente beatlesiani completano l’impressione, già sentito certo, anche mille volte, ma quando c’è passione è sempre un piacere. Un paio di chitarre acustiche e un organo hammond per un intermezzo acustico Drops Of Time, piacevole ma non memorabile, forse un po’ incompiuto.

Per l’accoppiata più bluesy di A Long Way From Myself e Cuda ’71 (una canzone scritta dal punto di vista di una automobile è quasi più “perversa” dei brani di Bruce dedicati a vecchi modelli anni ’70, qui starebbe per Plymouth Barracuda) scende in pista un altro cantante, Jack Jaselli (ma le coordinate vocali sono più o meno quelle), e nel primo dei due brani c’è anche un violino svolazzante affidato a Andrea Aloisi che rimescola un po’ le carte del suono del disco, anche se la slide tagliente del secondo brano e la citazione nel testo di Elvis e Bruce (ma chi saranno?) indicano sempre una corretta scelta musicale. More weight to the lid, con una forte urgenza ritmica e la voce leggermente e volutamente “trattata” di Friggione, ci ricorda che il cuore della musica batte sempre al giusto ritmo, quello del rock delle radici per poi stemperarsi nell’altra oasi acustica del disco, una Without You, solo voce e chitarra acustica, con una voce femminile di supporto, Chiara Vergati, un piccolo intramuscolo di dolcezza, forse da sviluppare più compiutamente in futuro, anche se l’intreccio delle due voci è interessante.

Un disco che forse non salverà il mondo e neppure l’industria discografica, ma una piacevole mezz’oretta di ascolto è garantita assolutamente.

Bruno Conti