Due Splendidi Tributi Ad Altrettante Icone Del Country. Parte Seconda: Willie Nelson

willie nelson american outlaw cd dvd

VV.AA. – Willie Nelson: American Outlaw – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

Dopo aver parlato dello splendido concerto-tributo a Merle Haggard, oggi mi occupo dell’analoga operazione dedicata a Willie Nelson, uno show all-star svoltosi anche questo alla Bridgestone Arena di Nashville ma il 12 gennaio del 2019. Rispetto all’omaggio a Merle qui c’è una differenza “abbastanza” importante, e cioè che là si pagava il giusto tributo ad un grande artista scomparso esattamente un anno prima, mentre nel caso di Nelson il festeggiato è ancora vivo e vegeto, e soprattutto è presente sul palco per tutta la seconda metà del concerto. E, seppur di poco, questo doppio CD (volendo anche con DVD) è superiore anche a quello dedicato a Haggard, sia per la tracklist che comprende anche classici non scritti da Willie ma da lui interpretati in passato, sia per il cast che è ancora più di alto profilo che nel primo caso. La house band è come al solito guidata dal bassista Don Was, e comprende fra gli altri la bella e brava Amanda Shires al violino, Jamey Johnson e Audley Freed alle chitarre, il maestro della steel guitar Paul Franklin e lo storico partner di Nelson Mickey Raphael all’armonica.

chris-stapleton-emmy-lou-harris-added-to-willie-nelson-tribute-concert

Un concerto quindi da godere dalla prima all’ultima canzone, con diverse prestazioni di altissimo livello. Come nei concerti di Willie si comincia con Whiskey River, canzone trasformata quasi in un southern rock dal vocione di Chris Stapleton e da un accompagnamento strumentale robusto https://www.youtube.com/watch?v=xJlw93PLCRY ; Lee Ann Womack fornisce una performance trascinante e piena di grinta con l’honky-tonk Three Days (e che voce), mentre la coppia Steve Earle-Margo Price ci delizia con un ottimo medley di puro country’n’roll tra Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint https://www.youtube.com/watch?v=bUyVRoL0FT0 . Altro medley, stavolta fra I Thought About You Lord, Time Of The Preacher e Hands On The Wheel, con i due figli di Willie, Lukas e Micah Nelson, al centro del palco (e se la cavano splendidamente, con l’ugola di Lukas che sembra davvero una versione giovane di quella del padre); poi arriva Nathaniel Rateliff che si conferma un grande vocalist con una formidabile rilettura del classico di Leon Russell A Song For You https://www.youtube.com/watch?v=0V8MpRmsmFg . Il duo Lyle Lovett-Ray Benson rilegge Shotgun Willie mescolando in maniera goduriosa rock, blues e gospel https://www.youtube.com/watch?v=wUsviEoiKcc , Vince Gill va sul velluto con la sua voce morbida, e Blue Eyes Crying In The Rain sembra scritta apposta per lui, mentre il classico di Ray Charles (ma l’ha fatta anche Willie) Georgia On My Mind brilla di nuova luce nelle sapienti mani di Jamey Johnson, in una versione che è puro southern soul https://www.youtube.com/watch?v=C7XIHrP1o2w .

willie-nelson george strait

Ed ecco proprio Willie, che insieme ai coniugi Susan Tedeschi e Derek Trucks ci regala una strepitosa City Of New Orleans di Steve Goodman (ma come canta Susan!) https://www.youtube.com/watch?v=JNS9-EHwS5k , e vengono seguiti dagli Avett Brothers in una travolgente ripresa bluegrass di Bloody Mary Morning suonata ai mille all’ora e dalla brava Norah Jones che insieme ai Little Willies si conferma artista raffinata con una swingata ed elegante I Gotta Get Drunk. Il primo CD si chiude con Jack Johnson che propone la sua Willie Got Me Stoned, niente di speciale, ed Eric Church che non è un fenomeno ma con Me And Paul se la cava abbastanza bene. Le undici canzoni del secondo dischetto vedono tutte quante il padrone di casa protagonista di una serie di duetti: la voce di Willie non è più quella di un tempo, a volte sembra quasi non arrivarci più, ma questo paradossalmente rende il tutto ancora più emozionante e vero. La languida Crazy viene riproposta insieme a Dave Matthews, la cui voce non ho mai potuto soffrire molto, mentre la gustosa honky-tonk song After The Fire Is Gone vede il nostro insieme a Sheryl Crow, ed il risultato è già migliore. La stupenda Pancho & Lefty è rifatta insieme alla meravigliosa Emmylou Harris  https://www.youtube.com/watch?v=FnFGYNPK5g4 (scusate gli aggettivi, ma sono innamorato di Emmylou da quando i miei ormoni hanno iniziato a fare il loro dovere), ed i due vengono raggiunti da Rodney Crowell che porta in dote la fulgida Till I Gain Control Again https://www.youtube.com/watch?v=UCSmqi2-uXk .

Willie-Nelson-American-Outlaw-Blackbird-Presents-Show-20190113-Timmermans-2780

E’ il momento di un incontro di leggende (texane), in quanto sale sul palco Kris Kristofferson che intona la sua Me And Bobby McGee con Willie che fa da backing vocalist: puro carisma (c’è anche Church, ma c’entra come i cavoli a merenda); Jimmy Buffett porta nella serata un po’ di Caraibi con una versione solare dell’evergreen di Jimmy Cliff The Harder They Come, mentre Always On My Mind (successo di Elvis ma anche di Willie) vede Nelson fare un po’ di fatica con la voce, ma ci pensa Stapleton ad aiutarlo, con Trucks che ricama sullo sfondo per una rilettura decisamente toccante. Arriva George Strait che prima duetta con il nostro sulle note della sua recente hit Sing One With Willie https://www.youtube.com/watch?v=nBilEaAM5Go , e poi fa le veci di Waylon in una solida e vigorosa Good Hearted Woman https://www.youtube.com/watch?v=S4k4TZAQdyg . Finale altamente coinvolgente con tutti quanti on stage per la sempre splendida On The Road Again https://www.youtube.com/watch?v=UpEAQEz-EN8  ed una pimpante Roll Me Up And Smoke Me When I Die, titolo perfetto per chiudere una serata dedicata ad uno degli ultimi fuorilegge rimasti.

Marco Verdi

Sempre Raffinata E Di Gran Classe! Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor

norah jones pick me up off the floor

Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor – Blue Note/Virgin/EMI CD Deluxe

Sono passati ormai 18 anni dal clamoroso successo del disco di esordio Come Away With Me e Norah Jones con questo Pick Me Up Off The Floor arriva ora al suo ottavo album da solista (senza contare il mini Begin Again, di cui tra un attimo). L’artista newyorchese (ma come è noto il padre è Ravi Shankar), a marzo ha compiuto 41 anni (sempre dire l’età delle signore), e quindi questo album potrebbe essere quello della maturità raggiunta, visto che la consacrazione l’ha ormai conquistata da anni, anche se nella sua discografia, tra molti alti e poche “delusioni”, ha comunque intrapreso anche parecchi percorsi alternativi, deviazioni dal suo stile abituale che comunque denotano una certa irrequietezza artistica, e che l’hanno portata a diverse collaborazioni: il disco con Billy Joe Armstrong dei Green Day, la band country collaterale dei Little Willies, quella country alternative delle Puss’N’Boots che hanno pubblicato un secondo disco Sister, uscito a metà febbraio agli albori della pandemia, e quindi passato abbastanza sotto silenzio, oltre ad avere avuto decine, forse centinaia di partecipazioni a dischi altrui.

Stabilito che lo stile musicale di Norah non è facilmente etichettabile, si è parlato di jazz-folk-pop, che potrebbe essere corretto, io azzarderei anche un genere che era molto in uso negli anni ‘70, soft rock, oppure, forse ancora più calzante, cantautrice con piano, così la mettiamo proprio sul didascalico spinto. Si diceva di Begin Again, un mini CD con 7 brani, estrapolati da una serie di brani che la Jones aveva iniziato ad incidere dal 2016, subito dopo il termine del tour di Day Breaks https://discoclub.myblog.it/2017/11/14/per-la-serie-e-io-pago-norah-jones-day-breaks-deluxe-edition/ , in quello che doveva essere un periodo di pausa e riposo, aveva deciso periodicamente di entrare in studio di registrazione per incidere dei nuovi pezzi, da pubblicare solo in formato digitale, frutto anche di collaborazioni (con Mavis Staples, Rodrigo Amarante, Thomas Bartlett, Tarriona Tank Ball e altri) ed alla fine raccolte in Begin Again: nelle stesse sessions però Norah aveva inciso vari altri brani, ulteriori canzoni sotto forma di demo, di cui riascoltando sul telefonino i mix non definitivi mentre passeggiava col cane, si era accorta delle potenzialità e deciso di portarle a compimento in sette diversi studi di registrazione, per arrivare a questo Pick Me Up Off The Floor, che alla fine si rivela uno dei suoi dischi migliori, al solito molto eclettico nei risultati.

Prodotto dalla stessa Jones, a parte i due brani con Jeff Tweedy, nel disco suonano moltissimi musicisti, anche se una delle figure centrali può essere individuata nel bravissimo batterista Brian Blade, presente in sei brani su undici (del CD esiste anche una versione Deluxe con 13 canzoni, sempre singola e pure “costosa,” considerando solo le due tracce extra, però bella, come vedete sopra, ma sono i soliti misteri della discografia). L’album si apre con How I Weep, una sorta di poesia, la prima scritta dalla nostra amica per l’occasione, How I weep for the loss/And it creeps down my chin/For the heart and the hair/ For the skin and the air/That swirls itself around the bare/How I Weep”, meditabonda e malinconica, su uno sfondo di viola, violino ed archi, che accompagnano il piano, e sul quale piange per alcune perdite. In Flame Twin troviamo Pete Remm a chitarra elettrica, organo e synth, oltre a Blade e John Patitucci al basso, un brano bluesato e raffinato che ricorda certe colleghe anni ‘70 come Carole King e Laura Nyro, mentre Hurts To Be Alone vira su territori soul jazz, a tempo di valzer, con Norah anche a piano elettrico e organo, doppiato da Remm, Christopher Thomas che affianca Blade al contrabbasso elettrico, e le voci suadenti di Ruby Amanfu e Sam Ashworth, per un brano felpato e sinuoso.

Heartbroken, Day After replica la stessa formazione per una canzone dall’afflato notturno, al quale comunque la pedal steel di Dan Lead contrappone al cantato quasi birichino della Jones un piccolo tratto da ballata country, una delle canzoni migliori del CD, molto bella anche la più mossa e brillante Say No More, con l’aggiunta del sax tenore di Lee Michaels e la tromba di Dave Guy, che accentuano nuovamente lo spirito jazzy, evidenziato anche dall’ottimo lavoro del piano. This Life, registrata in trio con Blade e Jesse Murphy al contrabbasso elettrico, già presente nel brano precedente, mi ha ricordato a tratti certi brani inquietanti tipici di Rickie Lee Jones, mitigato dalle angeliche armonie vocali.

To Live è una canzone gospel-soul, tra New Orleans e Mavis Staples, con fiati sommessi e di nuovo eccellenti intrecci vocali, I’m Alive è uno dei due brani con la famiglia Tweedy, Spencer alla batteria, e Jeff all’elettrica e al basso, che pur rimanendo nell’ambito della musica della nostra amica, aggiunge quel tipico tocco melodico del leader dei Wilco, nelle sue ballate migliori. Where You Watching, con il testo dell’amica poetessa Emily Fiskio, è una nuovamente inquietante e misteriosa nenia attraversata dal violino incombente di Mazz Swift, dai florilegi del pianoforte e da un cantato quasi piano e dolente.

Stumble On My Way è una di quelle ballatone soffuse e malinconiche delle quali la musicista di Brooklyn è maestra , di nuovo con la weeping pedal steel di Lead ad impreziosirla. A chiudere la versione standard l’altro brano con e di Jeff Tweedy, Heaven Above, un duetto soffuso, quasi flebile con la Jones a piano e celesta e il musicista di Chicago alla chitarra acustica. Le bonus sono Street Strangers, un altro brano in linea con le atmosfere solenni e ricercate dell’album e la deliziosa Trying To Keep It Together, una strana scelta come singolo estratto dall’album, un pezzo solo voce e piano che illustra il lato più delicato e riposto del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=IcjVoPRbKKY .

Bruno Conti

Una (Parziale) Colonna Sonora Di Un’Epoca Irripetibile. Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon

echo in the canyon soundtrack

Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon – Clean Slate/BMG Rights Management CD

Laurel Canyon è un quartiere di Los Angeles che sorge dalle parti di Hollywood, una zona che a cavallo tra gli anni sessanta ed i settanta diventò  il vero e proprio centro pulsante della musica californiana in un ideale passaggio di testimone con la Summer Of Love di San Francisco. Molti artisti in voga all’epoca infatti abitavano o frequentavano quel luogo, e parecchi dischi furono ispirati da esso al punto da dover coniare il termine “Laurel Canyon Sound”: stiamo parlando di gruppi come The Byrds, Love, Beach Boys, The Doors, Buffalo Springfield prima e CSN (&Y) dopo, The Mamas & The Papas, The Monkees e solisti come Frank Zappa, Joni Mitchell e Carole King. Un elenco che potrebbe andare avanti ancora, un periodo eccezionale in cui la California era davvero al centro del mondo, ed un suono che ancora oggi influenza decine di musicisti: provate per esempio ad immaginare le carriere di artisti come Fleet Foxes, Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, Jonathan Wilson e Father John Misty se non fosse esistito il Laurel Canyon Sound.

Ora quel periodo magnifico è rievocato in Echo In The Canyon, un docu-film diretto da Andrew Slater che ripercorre quegli anni formidabili grazie alla narrazione di alcuni dei protagonisti dell’epoca (Roger McGuinn, Brian Wilson, Stephen Stills, Graham Nash, Jackson Browne, John Sebastian, Michelle Phillips, Eric Clapton e Ringo Starr, oltre al celebre produttore Lou Adler), ed altri più vicini ai giorni nostri ma che sono stati in qualche modo influenzati da quel periodo (Jakob Dylan, Fiona Apple, Beck, Norah Jones); la pellicola vede anche la presenza di Tom Petty in una delle ultime interviste prima dell’inattesa scomparsa avvenuta due anni fa, e solo il rivederlo nel trailer è estremamente toccante. Il film, che in America è già uscito nelle sale, ha ottenuto diversi commenti positivi ma anche non poche critiche, in primis perché ha totalmente ignorato alcune figure di grande importanza: se infatti può essere un peccato veniale non aver citato John Mayall (che all’epoca aveva casa proprio in quel luogo, e nel 1968 pubblicò Blues From Laurel Canyon che è uno dei suoi album migliori di sempre), più grave è non aver considerato neppure Jim Morrison, ed addirittura imperdonabile aver dimenticato anche la Mitchell, che forse insieme a David Crosby è l’artista più legata al suono che nacque su quelle colline.

Oggi però non mi occupo del film (che uscirà in DVD a Settembre), ma della sua colonna sonora, che riprende brani dell’epoca non nella loro versione originale bensì rivisitati in primis dal già citato Jakob Dylan insieme a diversi colleghi e colleghe che duettano con lui: in effetti Echo In The Canyon si può benissimo considerare un album solista, seppur collaborativo, dell’ex leader dei Wallflowers (che anche nel film è molto presente, fungendo quasi da maestro di cerimonie), il quale rivede con bravura e rispetto tredici canzoni di quel periodo magico, scegliendo non le hit più note ma alcuni brani meno conosciuti, tranne poche eccezioni. Il suono è decisamente vintage, anche se prodotto con le tecniche moderne, ed il disco risulta parecchio piacevole e ben fatto pur non avendo la pretesa di superare le versioni originali: buona parte del merito va alla house band, che vede all’opera Fernando Perdomo e Geoff Pearlman alle chitarre, Jordan Summers alle tastiere ed organo, Dan Rothchild al basso e Matt Tecu alla batteria, e con la partecipazione dello straordinario chitarrista Greg Leisz e del noto percussionista Lenny Castro. (NDM: il recensore rompiscatole che è in me a questo punto vorrebbe far notare che alcuni gruppi sono stati omaggiati con due canzoni, ed i Byrds addirittura con quattro, ma niente è stato riservato non dico alla Mitchell ed ai Doors che sono stati proprio saltati a piè pari, ma neppure a CSN&Y dato che Stills e Young sono presenti come autori ma in quota Buffalo Springfield e Crosby con un pezzo proprio dei Byrds…ed il povero Nash?).

Il CD inizia con la deliziosa Go Where You Wanna Go dei Mamas & Papas, scintillante, ricca nei suoni e con pieno rispetto del gusto pop dei sixties, ed un bel contrasto tra la voce di Jakob (il cui timbro negli anni somiglia più a quello di Petty che di papà Bob) e quella limpida e potente di Jade Castrinos, ex voce femminile della band di Edward Sharpe. Un ottimo avvio. Dylan Jr. ed il leader dei Queens Of The Stone Age Josh Homme sono una strana coppia ma funzionano decisamente bene nella rilettura di She dei Monkees, puro pop anni sessanta gradevole ed immediato, mentre Never My Love, unico successo del gruppo The Association ed in cui il nostro si accompagna con la brava Norah Jones, è una pop song lenta ed orecchiabile con un arrangiamento quasi byrdsiano ed ottimi coretti, un pezzo raffinato e diretto al tempo stesso; No Matter What You Do dei Love è un altro brano molto bello e scorrevole, pop-rock di gran classe con ottimo lavoro delle chitarre e la seconda voce di Regina Spektor. E veniamo alle quattro canzoni dei Byrds, che partono con la famosa The Bells Of Rhymney in cui viene rispettato alla perfezione il classico jingle-jangle sound, versione riveduta e non corretta (ma rinfrescata nel suono), con un Beck meno svaporato del solito a duettare con Jakob; la poco nota e suadente You Showed Me è perfettamente nelle corde del nostro, qui ben assistito da Cat Power e da un arrangiamento molto pettyano, l’altrettanto oscura It Won’t Be Wrong, con Fiona Apple, è più rock e dotata di un ottimo refrain corale, mentre la vibrante What’s Happening, scritta da Crosby, è l’unico episodio del disco con il solo Jakob a cantare, anche se la chitarra solista è di Neil Young (e si sente).

Ha attinenze coi Byrds anche Goin’ Back, scritta dalla celebre coppia Goffin/King ma incisa anche dal gruppo di McGuinn: rilettura molto bella, splendida melodia ed eccellente accompagnamento chitarristico, una delle più riuscite del lavoro (e visto che anche qui il duetto è con Beck si poteva re-intitolare…Goin’ Beck! Hahaha…). Ecco poi i due pezzi dei Buffalo Springfield, cioè una rilettura molto bella e piena di energia di Question, in cui Jakob Dylan duetta alla grande con Eric Clapton che ovviamente si esibisce anche alla chitarra, affiancato anche dall’autore del brano Stephen Stills, ed un’intensa Expecting To Fly ancora con la Spektor, servita da un sontuoso muro del suono formato da chitarre varie, steel, piano, vibrafono ed un quartetto d’archi. Infine troviamo due classici dei Beach Boys: una squisita e sognante In My Room di nuovo con Fiona Apple, versione perfettamente coerente con lo spirito del CD (cioè rivedere brani del passato senza stravolgerli), ed una gentile ed elegante I Just Wasn’t Made For These Times (tratta dal capolavoro Pet Sounds), acustica e con una leggera orchestrazione, ed ulteriormente impreziosita dagli interventi vocali di Neil Young.

Quando uscirà la versione video di Echo In The Canyon un’occhiata gliela darò di sicuro, ma per ora mi godo la colonna sonora che fa comunque la sua bella figura.

Marco Verdi

Peccato Che Non Sia Previsto Il DVD (Per Ora). Joni 75: A Birthday Celebration Joni Mitchell Tribute Concert. Esce l’8 Marzo

Various Artists Joni 75 A Birthday Celebration Joni Mitchell tribute concert

Joni 75: A Birthday Celebration – Joni Mitchell Tribute Concert – Decca/Universal 08-03-2019

Lo scorso novembre, in due serate tenute al Music Center del Dorothy Chandler Pavillion di Los Angeles, si è tenuto questo concerto benefico in tributo a Joni Mitchell, per festeggiare il suo 75° compleanno, che è stato appunto il 7 novembre. Le serate sono state riprese dal regista Martyn Atkins, per un film di due ore che include anche interviste effettuate nel dietro le quinte dell’evento, e il tutto verrà trasmesso al cinema, solo in Canada e Stati Uniti, per un unico giorno, il 7 febbraio, poi andrà in onda sulla PBS, la televisione pubblica americana, ma, almeno per ora, purtroppo, niente DVD.

joni mitchell 75 movie

La lista completa dei brani eseguiti nel concerto, ed i musicisti presenti allo stesso, è la seguente:

 “Joni 75” setlist:

1. Court and Spark – Norah Jones 
2. Coyote – Glen Hansard 
3. For the Roses – Diana Krall
4. Blue – Rufus Wainwright 
5. Cold Blue Steel – Emmylou Harris 
6. The Magdalene Laundries – Emmylou Harris 
7. Help Me – Chaka Khan 
8. Dreamland – Los Lobos with La Marisoul, Cesar Castro, Xochi Flores and Chaka Khan
9. Nothing Can Be Done – Los Lobos with La Marisoul
10. River – James Taylor
11. Both Sides Now – Seal 

[Intermission]

1. Our House – Graham Nash 
2. A Strange Boy – Seal 
3. All I Want – Rufus Wainwright
4. Borderline – Norah Jones
5. Amelia – Diana Krall
6. The Boho Dance – Glen Hansard
7. A Case of You – Kris Kristofferson with Brandi Carlile
8. Down To You – Brandi Carlile
9. Two Grey Rooms – Chaka Khan
10. Woodstock – James Taylor 
11. Big Yellow Taxi – full cast

Ma purtroppo, come spesso capita per questi eventi, solo 16 delle esibizioni verranno pubblicate nel CD in uscita il prossimo 8 marzo (festa della donna, sarà un caso?). Dai resoconti che ho letto della serata i brani più apprezzati dal pubblico sono stati la versione di Seal di Both Sides Now, la cui presenza, come quella di altri artisti era stata espressamente richiesta dalla stessa Joni, e che ha ricevuto una standing ovation alla fine della canzone, come pure Brandi Carlile (una grandissima fan), che con la sua voce pura e cristallina da contralto è la più vicina come stile alla giovane Mitchell, ha cantato splendidamente Down To You, ed è risultata con Diana Krall, più vicina alla voce matura della Mitchell della seconda fase della carriera (alle prese con due capolavori come Amelia For The Roses), quelle che hanno raccolto i maggiori apprezzamenti dalla critica. Per il resto c’erano anche alcuni amici dell’epoca californiana dei primi anni ’70, nella fattispecie Kris Kristofferson JamesTaylor, che aveva suonato in due pezzi di Blue, non quelli interpretati nella serata, oltre alla vecchia fiamma Graham Nash che è stato l’unico a cantare un pezzo non composto da Joni Mitchell, quella Our House che raccontava la loro breve ma intensa storia d’amore. Nella pattuglia femminile presenti anche Emmylou Harris che ha candidamente confessato che la parte di chitarra di Cold Blue Steel (non presente nel CD) era decisamente superiore alle sue capacità tecniche, troppo complessa, Chaka Khan, che cantava nell’originale di Dreamland, qui eseguita dai Los Lobos, mentre lei ha cantato Help Me e Two Grey Rooms, infine Norah Jones. Quindi complessivamente un ottimo cast, con qualche mancanza significativa.

La house band che accompagnava i musicisti era strepitosa: guidata dal batterista Brian Blade e dal pianista Jon Cowherd, con l’aggiunta di Greg Leisz Marvin Sewell alle chitarre, Ambrose Akinmusire alla tromba, Jeff Haynes  percussioni, Chris Thomas basso, Bob Sheppard sax e fiati vari, e per la seria a volte ritornano, Scarlet Rivera al violino. Ecco la lista dei brani inclusi nel CD.

1. Dreamland – Performed by Los Lobos
2. Help Me – Performed by Chaka Khan
3. Amelia – Performed by Diana Krall
4. All I Want – Performed by Rufus Wainwright
5. Coyote – Performed by Glen Hansard
6. River – Performed by James Taylor
7. Both Sides Now – Performed by Seal
8. Our House – Performed by Graham Nash
9. A Case Of You – Performed by Kris Kristofferson & Brandi Carlile
10. Down to You – Performed by Brandi Carlile
11. Blue – Performed by Rufus Wainwright
12. Court And Spark – Performed by Norah Jones
13. Nothing Can Be Done – Performed by Los Lobos
14. The Magdalene Laundries – Performed by Emmylou Harris
15. Woodstock – Performed by James Taylor
16. Big Yellow Taxi – Performed by La Marisoul, James Taylor, Chaka Khan, and Brandi Carlile

Ne parleremo più diffusamente al momento dell’uscita, per ora prendete nota.

Bruno Conti

Bravo Come “Gregario”, Chiedere A Clapton Ed Altri, Meno Come Solista In Proprio. Doyle Bramhall II – Shades

doyle bramhall II shades

Doyle Bramhall II  – Shades – Mascot/Provogue

Concludevo la recensione del suo precedente album  Rich Man, uscito nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/16/promosso-qualche-riserva-lamico-eric-doyle-bramhall-ii-rich-man/ , così: “Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo”.! E invece mi sbagliavo, a soli due anni di distanza esce questo nuovo Shades: nuova etichetta, la Mascot/Provogue, ma a grandi linee stessi musicisti impiegati, Adam Minkoff polistrumentista,  impegnato anche con gli arrangiamenti degli archi, Chris Bruce al basso, e Abe Rounds e Carla Azar, alla batteria, che apparivano nello scorso CD , stessi ospiti, Eric Clapton, Tedeschi Trucks Band e Norah Jones, oltre ai compatrioti texani, i Greyhounds. E pure lo stile del disco è molto simile a quello che lo ha preceduto, in quanto Doyle Bramhall II ha questa passione insita per la musica nera, soul, R&B e funky, oltre agli immancabili blues e rock, non sempre coniugata con risultati eclatanti ed eccitanti, almeno a mio parere, spesso annacquata da arrangiamenti di tanto in tanto blandi, ballate melliflue e derive commerciali che rimandano allo stile di Prince e Lenny Kravitz. Anche se la chitarra del mancino texano ogni tanto ci ricorda perché il suo amico Clapton lo considera un eccellente chitarrista, si intuisce perché il nostro non ha mai sfondato come solista, vista la sua tendenza ad essere più un gregario, magari uno molto ricercato dai colleghi (sentire l’eccellente lavoro fatto nel disco di Amy Helm https://discoclub.myblog.it/2018/10/01/unaltra-rampolla-di-gran-classe-sempre-piu-degna-figlia-di-tanto-padre-amy-helm-this-too-shall-light/ ), a scapito della possibilità di avere nei propri dischi una musica più definita e meno sfuggente, che complessivamente anche in questo Shades, a parte qualche guizzo di classe, manca di una direzione sonora chiara.

Ovviamente siamo ben lungi dal dire che il disco sia brutto, anzi, si ascolta più che volentieri, chi ama il rock e il blues meticciati con la musica nera troverà motivo per apprezzarlo. Insomma soliti pregi e difetti che seguono Bramhall nella sua strada verso la musica mainstream, come l’amico Eric, che però ha ben altra consistenza, per cui accontentiamoci di quello che passa il convento. Shades spazia dal funky-rock atmosferico della iniziale Love And Pain, dove prevale il suono “lavorato” che Bramhall predilige, sia pure con inserti chitarristici sempre pungenti, ad una Hammer Ring più incalzante nei suoi  complessi ritmi rock, passando per la collaborazione con Eric Clapton in Everything You Need (nel cui video il nostro non si vede anche se aleggia la sua presenza), una morbida ballata dove si apprezza il lavoro delle due soliste, ma meno l’arrangiamento troppo appesantito da zuccherini strati di armonie vocali che spingono verso un soul radiofonico contemporaneo. London To Tokyo rimane su queste coordinate sonore, ma con arrangiamenti stratificati di archi fin troppo carichi e che quasi coprono anche le evoluzioni della solista.

Il duetto con Norah Jones, Searching For Love, come da copione, è una elegante e raffinata ballata pop, molto più vicina allo stile della cantante di New York che a quello di Bramhall, che comunque lavora di fino con la sua solista, quasi claptoniana per l’occasione. Decisamente più rock e vibrante la collaborazione con i Greyhounds in Live Forever,  brano dove tutti ci danno dentro di gusto e ci sono anche vaghi elementi psych che ricordano gli Spirit degli anni d’oro https://www.youtube.com/watch?v=QXFU6kgAHZM , mentre Break Apart To Mend è una intensa e sognante ballata pianistica di ottima fattura, quasi da cantautore classico, nobilitata da un lirico assolo di chitarra nella parte centrale.  Non male anche la blues ballad She’ll Come Aound e discreto il morbido soul proposto in The Night; non manca il consueto omaggio alla sua passione per la musica orientale con Parvanah, che però miscela questo sound con il solito morbido soul con risultati non memorabili, a parte gli spunti della solista.

Consciousness introduce  qualche elemento country-folk con risultati più apprezzabili, lasciando la conclusione a Going Going Gone, il pezzo forte dell’album, ripresa anche da Gregg Allman sull’ultimo Southern Blood https://discoclub.myblog.it/2017/09/07/il-vero-sudista-quasi-un-capolavoro-finale-gregg-allman-southern-blood/ . Si tratta proprio di una cover del sognante brano di Bob Dylan tratto da Planet Waves, in una bellissima versione suonata e cantata splendidamente con la Tedeschi Trucks Band, in un tripudio di fiati, voci e chitarre, tra la slide di Trucks e la solista di Bramhall, magari fosse stato così tutto l’album .

Bruno Conti

I Figli “Illegittimi” Di Frank Proliferano: Dopo Bob, Ecco Willie Sinatra! Willie Nelson – My Way

willie nelson my way 14-9

Willie Nelson – My Way – Legacy/Sony CD

Sembra che, nonostante veleggi ormai verso gli ottant’anni di età, Bob Dylan non abbia smesso, anche involontariamente, di creare tendenze: infatti dopo i tre album (o cinque, dato che Triplicate era, appunto, un triplo) dedicati dal vate di Duluth alle canzoni del leggendario Frank Sinatra, ora anche Willie Nelson ha deciso di celebrare la musica di “Ol’ Blue Eyes” con questo nuovissimo My Way. C’è da dire che, a differenza di Dylan, Nelson non è la prima volta che si cimenta con gli standard della musica americana: a parte il famoso Stardust del 1978, negli anni il texano ha pubblicato diversi album a tema “Great American Songbook”, come What A Wondeful World, Moonlight Becomes You, parte di Healing Hands Of Time, American Classic, Summertime. E con My Way Willie ci regala uno dei suoi album migliori, e non solo del genere standard, un lavoro splendido che fa il paio con l’altrettanto bellissimo Last Man Standing uscito pochi mesi fa. E’ incredibile infatti come il nostro riesca a coniugare quantità e qualità con una tale nonchalance: se dal vivo, per vari problemi fisici, qualche colpo ultimamente lo ha perso, in studio è ancora una sentenza.

In My Way Willie ha usato lo stesso approccio di Bob, cioè non prendendo solo le canzoni più famose di Sinatra, ma rivolgendosi a standard che anche Frank ha cantato nella sua carriera: così a veri e propri classici associati principalmente al cantante italo-americano (Fly Me To The Moon, One For My Baby, la stessa My Way) si alternano pezzi dei quali la versione di Sinatra non è magari neanche la più nota (A Foggy Day, Night And Day). Quello che più conta però è il risultato finale, che come dicevo poc’anzi è davvero splendido: Willie canta e swinga con classe immensa, e con una voce che è ancora più che mai in grado di dare i brividi, ed i suoni sono nelle mani sicure del fido Buddy Cannon e del grande pianista ed organista Matt Rollings (Lyle Lovett, Mark Knopfler, Mary Chapin Carpenter), che è anche il leader e direttore musicale di un gruppo da sogno: Jay Bellerose alla batteria, Dean Parks alla chitarra, Paul Franklin alla steel, l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il notevole bassista David Piltch ed una sezione fiati nella quale spicca un trio di sassofonisti formato da Jeff Coffin, Denis Solee e Doug Moffet. Un disco raffinato ma pieno di feeling, che sprizza classe da ogni nota, suonato in maniera sicura e rilassata nello stesso tempo. L’album si apre con la celeberrima Fly Me To The Moon, con Willie che inizia subito a swingare che è un piacere, seguito dai fiati che accompagnano in maniera calorosa, la sezione ritmica che punteggia alla grande ed un doppio delizioso assolo chitarristico, prima del nostro con la sua Trigger e poi di Parks.

Summer Wind è una pura jazz ballad, che vede Nelson cantare in perfetto relax, il gruppo suonare in punta di dita (con il piano di Rollings in evidenza) e l’armonica dare il tocco country; ancora piano ed armonica introducono la nota One For My Baby (And One More For The Road), dall’accompagnamento soffuso, atmosfera afterhours, una sezione d’archi non invasiva e la consueta classe sopraffina. A Foggy Day è un brano di George ed Ira Gershwin, e come tutti i pezzi scritti dal duo di compositori di Brooklyn ha avuto negli anni varie versioni, delle quali quella di Sinatra non è necessariamente la più famosa: la rilettura di Willie è nuovamente ricca di swing, ed è punteggiata dal solito splendido pianoforte di Rollings e dai fiati al gran completo; It Was A Very Good Year è intensa e maestosa, Willie la canta come se fosse una western tune e gli archi aggiungono pathos e drammaticità, mentre Blue Moon è uno dei pezzi più famosi di tutti i tempi, con il texano che la rifà in maniera raffinata e godibile, mettendoci una bella dose di verve: piano, steel e Trigger completano il quadro. La lenta I’ll Be Around (che era uno degli highlights del mitico In The Wee Small Hours) è limpida e tranquilla, con Willie che canta come se avesse un bicchiere di whisky in una mano ed un sigaro nell’altra, e con la strumentazione al solito superba (ottima la steel):

Ecco a questo punto due canzoni di Cole Porter: Night And Day è conosciutissima anche in versioni alternative a Sinatra (per esempio è molto popolare quella di Fred Astaire, e pure Nelson l’aveva già incisa, ma solo in veste strumentale) ed è ancora eseguita ottimamente, con grande gusto e swing, mentre What Is This Thing Called Love?, calda, vivace e guidata magistralmente dal piano, vede il nostro duettare con la brava Norah Jones, un’altra che in queste sonorità ci sguazza. La piacevolissima e jazzata Young At Heart, brano che Sinatra fu il primo ad incidere, precede la conclusiva My Way, materia pericolosa in quanto uno degli evergreen assoluti del cantante di Hoboken, un pezzo di Paul Anka che The Voice ha eletto a manifesto di un certo stile di vita: Willie la canta intelligentemente alla sua maniera, solo voce e pochi strumenti, arrangiandola in modo molto vicino al suo stile abituale, riuscendo a provocare più di un brivido in chi ascolta. In mancanza, pare, di un nuovo disco di Van Morrison nelle prossime settimane (anche perché ne ha fatti tre in meno di un anno), questo My Way è il classico album perfetto per allietare le serate autunnali che ci attendono.

Marco Verdi

Non E’ Solo Fortunata, E’ Proprio Brava! Carter Sampson – Lucky

carter sampson lucky

Carter Sampson – Lucky – Continental Song City/CRS

Come faceva giustamente notare l’amico Marco Verdi recensendo il precedente album Wilder  https://discoclub.myblog.it/2016/06/11/dallaspetto-fisico-lo-si-direbbe-la-musica-country-pure-bella-carter-sampson-wilder-side/ (e nel frattempo è uscito anche Queen Of Oklahoma & Other Songs, una compilation di canzoni dagli introvabili primi album ed EP), Carter Sampson non ha certamente il phisyque du role della classica cantante country: occhialini e taglio di capelli che le conferiscono l’allure di una cantautrice intellettuale e raffinata, e fin qui potremmo esserci perché due o tre brani che viaggiano su queste coordinate li troviamo in questo Lucky. Per il resto, anche se viene dall’Oklahoma, come ha orgogliosamente ribadito nella canzone che dà il titolo alla raccolta ricordata poc’anzi, il suo suono, comunque con elementi “roots” ed Americana, rimanda più a quello classico di Nashville, anche se dal lato giusto della città, quello abitato da Emmylou Harris e Dolly Parton, ma anche Patsy Cline e il lontano parente Roy Orbison sono stati accostati alla genuina Okie.

Che anche in questo album usa una pattuglia di musicisti provenienti dal suo stato: non riporto i nomi di tutti, ma il co-produttore dell’album, con la stessa Sampson, Jason Scott, opera proprio in Oklahoma, insieme ad altri talenti locali come Kyle Reid, John Calvin Abney, Lauren Barth, Jesse Aycock e Jared Tyler, tutti anche cantautori in proprio (e alcuni di loro li trovate pure nel disco di Levi Parham), e non escluderei la presenza del polistrumentista Travis Linville che aveva prodotto il precedente disco, e tutti costoro dovrebbero coprire la presenza cospicua di chitarre, acustiche, elettriche, ma anche dobro, mandolino, pedal steel che punteggiano questo Lucky, che se privilegia per l’occasione l’uso della canzone uptempo, forse eccelle ancor di più nelle ballate, dove la voce di Carter Sampson assume dei timbri vocali che al sottoscritto tanto hanno ricordato Norah Jones, un’altra che ha sempre frequentato la musica country. Chiunque si voglia ricordare, poi la Sampson ha comunque una propria personalità che la rende una delle migliori portabandiera delle nuove generazioni del fuori Nashville. Il disco, come si diceva, privilegia i tempi mossi ma è appunto nelle ballate che si gusta ancor di più la deliziosa voce della nostra amica: la bellissima Hello Darlin’, scritta da Zac Copeland, dove si canta di malinconie d’amore, da sempre uno dei temi più usati nella migliore country music, una ballata che scivola voluttuosa su una magnifica ed avvolgente pedal steel, con tocchi di mandolino e piano, delicate chitarre acustiche e la voce sognante ed evocativa di Carter che tanto rimanda alla più languida e trasognata Norah Jones, un piccolo gioiellino.

E anche la cover conclusiva della classica Queen Of The Silver Dollar di Shel Silverstein, che ricordiamo in una bellissima versione di Emmylou Harris su Pieces Of The Sky, è una vera leccornia di sapori e languori country, tra pedal steel e piano la voce quasi galleggia sulle onde della musica. Ma anche quando i ritmi sono più serrati, ad esempio nel trittico iniziale, tutto a firma Carter Sampson, non si può fare a meno di apprezzarne il talento e la voce, sempre espressiva e incalzante, come nella title track che viaggia sulle ali di chitarre elettriche e dobro, con un corposo contrabbasso in evidenza, o su Anything Else che dopo una partenza attendista si assesta su un mid-tempo invitante, o sul train time  della incantevole Peaches, scritta con Scott. Ten Penny Nail, di nuovo firmata con Jason, è più bluesy ed intricata, mentre All I Got è una sorta di country got soul da cantautrice classica e Tulsa, scritta da Kalyn Fay, una specie di gloria locale, è un’altra splendida ballata mid-tempo di puro stampo country, con un’armonica e l’organo che fanno capolino nella ricca strumentazione. Di fattura squisita pure Wild Ride, di nuovo con la voce in splendida evidenza e notevole anche Rattlesnake Kate dove il dobro tratteggia con puntualità una ennesima canzone dove si apprezzano i talenti vocali e compositivi della bravissima Carter Sampson. Se passa di nuovo dalle nostre parti nelle lande italiche non mancate all’appuntamento, nel frattempo gustiamoci questo ottimo album.

Bruno Conti

Per La Serie “…E Io Pago”!!! Norah Jones – Day Breaks (Deluxe Edition)

norah jones day breaks deluxe

Norah Jones – Day Breaks (Deluxe Edition) – Blue Note/Universal

La citazione nel titolo del Principe De Curtis, è giustificata dalla controversa abitudine che da parecchio tempo è praticata dalle case discografiche di ripubblicare CD a distanza di tempo più o meno lungo dalla prima uscita, aggiungendo materiale inedito di studio e, più spesso, dal vivo. Ciò fa giustamente imbestialire i poveri fans che si vedono costretti a spendere ulteriore denaro per qualcosa che in buona parte già possiedono. Spesso il motivo risiede nel voler cercare di rilanciare un prodotto che ha venduto meno delle aspettative e, se è pur vero che nessuno è obbligato a riaprire il portafoglio, trattasi comunque di pratica assai discutibile, soprattutto quando il bonus non vale la spesa. Non è questo, per fortuna, il caso dell’ultimo CD della bella e brava Norah Jones, Day Breaks, pubblicato giusto un anno fa e ora riproposto, arricchito da un secondo dischetto contenente nove tracce dal vivo, un concerto registrato nell’ottobre 2016 presso lo Sheen Center’s Loreto Theater di New York City proprio per il lancio dell’album. Per chi non lo possedesse già, ricordiamo che Day Breaks aveva ottenuto ottime recensioni ed era stato salutato dalla critica internazionale come un ritorno alle origini della cantante e pianista, nonché attrice americana, cioè al quel suono jazzy dannatamente piacevole che aveva caratterizzato i suoi pluripremiati due albums d’esordio, veri bestsellers planetari.

Mi limito ad associarmi ai commenti più che positivi sulla parte in studio, per passare ad analizzare nel dettaglio la sequenza dei brani in concerto. Ad affiancare Norah Jones, che si esibisce con la consueta perizia al pianoforte, ci sono il bassista Chris Thomas, il batterista Brian Blade, Pete Remm che si occupa dell’Hammond B-3 e le due coriste Tarriona Ball e Anjelika Joseph. Come è facile intuire, una band perfetta per ricreare quelle calde, intime e raffinate atmosfere che sono il marchio di fabbrica della protagonista e la ragione principale del suo successo. Si parte con la splendida cover di Horace Silver Peace, una ballad intensa e notturna impreziosita da bei fraseggi pianistici e dal gran lavoro di spazzole di BladePeace is for everyone  ripete nel finale Norah e noi non possiamo che essere in sintonia con quest’idea di relax e di appagamento. I’ve got to see you again viene dal disco d’esordio Come away with me e, dopo una bella apertura che ricorda la Joni Mitchell del periodo Blue, si sviluppa secondo stilemi tipici del blues. Out on the road è tratta dal penultimo Little broken hearts ed è dotata di un’accattivante melodia che conquista subito, con il bel sostegno dell’Hammond ed il pregevole controcanto delle due coriste.

Sunrise la conosciamo tutti, un vero e proprio hit single tratto dal secondo album Feels like home e  che viene qui riproposta in una versione cristallina ed impeccabile. Con la sequenza dei tre brani successivi torniamo a Day Breaks, non dimentichiamoci che questo era, come detto all’inizio, uno show destinato a presentare soprattutto i brani del nuovo lavoro. Burn ha un’atmosfera noir che sembra esplorare i silenzi ed i misteri della notte con sapienti tocchi di piano ed il raffinato supporto dell’intera band, in un finale strumentale ricco di sfumature. It’s a wonderful time for love è intrigante e dall’andatura più ritmata, la Jones cita le grandi del passato, Billie Holiday su tutte, e fa ancora sfoggio delle sue notevoli doti pianistiche. Flipside, con la sua melodia e la sua  ritmica che richiamano a mani basse le grandi composizioni della maestra Carole King, ci porta piacevolmente all’imprescindibile Don’t know why, il brano che ha lanciato il fenomeno Norah Jones sulla ribalta mondiale. Ce la gustiamo anche qui, chiudendo gli occhi ed immaginando di essere al centoventesimo piano di qualche grattacielo della grande mela, in compagnia di un cocktail e di una rossa stile Jessica Rabbit…A riportarci coi piedi per terra ci pensa l’omaggio finale ad uno dei mostri sacri tanto cari alla protagonista della serata, Duke Ellington, rivisitato brillantemente nella sua Fleurette Africaine, o African flower se preferite.

E mentre le note del piano compiono arabeschi fumosi, accompagnate dai sensuali sussurri di Norah, giungeremo alla conclusione che in questo caso, comprando o ahimè ricomprando, si tratta comunque di soldi ben spesi.

Marco Frosi

Tra Brooklyn E La West Coast, Sopraffina American Music (Con Norah Jones Ospite)! The Candles – Matter + Spirit

candles matter + spirit

The Candles – Matter + Spirit – The End Records

In passato si sono spesi per loro lusinghieri pareri a livello critico (hanno già pubblicato due dischi, Between The Sounds del 2010 e La Candelaria del 2013), con richiami alla musica di Gin Blossoms, Whiskeytown e Big Star; spesso hanno aperto, ma anche fatto da backing band, per i tour di Alberta Cross, Cory Chisel e soprattutto Norah Jones, che rende il favore duettando con Josh Lattanzi, il loro frontman, nella dolce e languida Move Along, limpido esempio del loro stile tra roots music e Americana, ma aperto anche alle influenze dei cantautori classici degli anni ’70. Lattanzi è un ottimo autore, newyorkese come il resto della band, trae comunque spunto dal lato più gentile della Big Apple, anzi la sua musica sembra più abbeverarsi al West Coast sound della California, oltre che al più genuino folk e country-rock. Oltre a Lattanzi che suona basso, mandolino, chitarra ed è la voce solista, nei Candles troviamo Pete Remm, piano, organo e Wurlitzer (le tastiere hanno un peso notevole nel sound del gruppo), Jason Abraham Roberts è il chitarrista, mentre alla batteria e alle armonie vocali troviamo Greg Wieczorek, che è stato anche l’ingegnere del suono aggiunto, a fianco del produttore Ben Rice, anche lui di Brooklyn, e che vanta collaborazioni, che non depongono a suo favore, con Lady Gaga, Britney Spears e Ramazzotti, ma anche con Springsteen in High Hopes, Aoife O’Donovan, gli Skins, e comunque in questo Matter + Spirit ha svolto un ottimo lavoro, mai importuno ed invadente, ma sempre teso ad evidenziare il sound delicato del gruppo, il tutto registrato nei Degraw Studios dell’omonimo cantautore.

Quando occorre il quartetto utilizza dei musicisti esterni, come la pedal steel di Dan Iead (presente anche nell’ultimo album di Norah Jones), oltre che nella citata Move Along anche in Sunburned e Til’ It’s Gone, gli altri brani dove le radici country e folk sono più evidenti (ma anche il primo James Taylor sembra un punto di riferimento), canzoni calde ed avvolgenti, dolci senza essere zuccherose, con arrangiamenti semplici ed elaborati al tempo stesso, qualche richiamo ai primi Eagles, per l’uso di armonie vocali mai banali, per esempio quelle di Allison Pierce del duo basato a Los Angeles delle Pierces, nella deliziosa Til’ It’s Gone (occhio che se fate una ricerca in rete, vi appare anche il nome di una nota pornostar, ma questi sono i rischi di internet). Tornando al disco, breve e centellinato, nove brani per poco più di trenta minuti, ma nulla di sprecato, non è casuale anche la scelta della cover fatta da Lattanzi & Co: una bellissima Lost My Driving Wheel, lo splendido brano di David Wiffen, che oltre che nelle interpretazioni di Tom Rush, Cowboy Junkies, Roger McGuinn e Byrds, ricordiamo anche nella recente versione su Only Slightly Mad di David Bromberg, molto bella anche questa, grintosa il giusto, dei Candles.

Altro brano notevole è Something Good, sempre caratterizzato dall’uso della doppia tastiera, e che ricorda quelle ballate meravigliose del miglior Jackson Browne targato anni ’70. Non possiamo dimenticare l’iniziale, mossa, Back To The City, altro limpido esempio della classe di autore di Josh Lattanzi, che poi sa come rivestire nel modo migliore le sue composizioni, grazie al lavoro sopraffino dei suoi bandmates e anche degli amici aggiunti, come il grande fotografo Danny Clinch, che suona l’armonica in questo brano. Blue Skies And Sun, più elettrica, grintosa e cadenzata, anche grazie alla presenza della chitarra aggiunta di John Skibic dei Twilight Singers, ricorda persino certe atmosfere sonore alla Neil Young, quello magari più “morbido” e meno selvaggio, ma anche dei Whiskeytown e del loro leader Ryan Adams, comunque altra gran bella canzone. Da ricordare mancano la breve Followed, una folk song acustica ed intimista, con uso di mandolino, e la conclusiva You Won’t Remember Me, dove a duettare con Lattanzi troviamo Wes Hutchinson, in un altro brano che mi ha ricordato il suono dei primi Eagles, quelli non ancora giunti al grande successo. Segnatevi il nome dei Candles, potrebbero essere una delle sorprese di questo scorcio di 2017, anche se il disco è uscito a fine 2016, ma quando la musica è buona non ci formalizziamo.

Bruno Conti  

Promosso Con Qualche Riserva “L’Amico” Di Eric! Doyle Bramhall II – Rich Man

doyle bramhall II richman

Doyle Bramhall II  – Rich Man – Concord                          

Devo dire che avevo una certa aspettativa per il nuovo album solista di Doyle Bramhall II, in base a quello che avevo letto, ma poi, fedele praticante del vecchio motto di Guido Angeli “provare per credere”, preferisco sempre verificare di persona. Insomma, fra poco capiamo meglio. Il nostro amico, nel corso degli anni si è indubbiamente costruito una solida reputazione: texano di Austin, figlio di Doyle Bramhall (a lungo amico e collaboratore di Stevie Ray Vaughan), cresciuto a pane, blues, soul e R&B, ma anche il rock di Hendrix e SRV, poi fondatore con  Charlie Sexton degli Arc Angels, una band che non ha reso come prometteva il potenziale, una carriera solista con alcuni buoni album, di cui l’ultimo Welcome, uscito nel 2001. Da allora è iniziata una lunga collaborazione con Eric Clapton, che lo considera uno dei migliori chitarristi su piazza, ma anche con Derek Trucks e Susan Tedeschi, con Sheryl Crow, di cui è stato  produttore dell’ottimo 100 Miles From Memphis, e ancora una copiosa serie di collaborazioni che non citiamo, ma è lunga come le Pagine Gialle (se esistono ancora). Torniamo quindi a Rich Man: le premesse per un buon album, leggendo quanto appena scritto, ci sarebbero tutte e il sottoscritto si è dedicato con impegno all’ascolto di questo nuovo album. Verdetto? Promosso, con piccole riserve, vediamo perché.

Il disco nell’insieme è buono, ma in alcuni brani c’è una tendenza sonora verso derive che si avvicinano pericolosamente ai brani più commerciali di Prince e Lenny Kravitz (cioè quasi tutti), mentre altrove, spesso e volentieri, ci si rivolge al funky-rock-soul, quello dei primi anni ’70, di recente rivisitato, per esempio, nell’ottimo Love And Hate di Michael Kiwanuka http://discoclub.myblog.it/2016/08/04/michael-kiwanuka-love-hate-supera-brillantemente-la-prova-del-difficile-secondo-album/ : ed ecco quindi che nell’iniziale Mama Can’t Help You (Believe It) il brano sia stato scritto da Bramhall proprio per svilupparsi intorno ad un groove di batteria creato da James Gadson, quello che suonava in alcuni dischi di Bill Withers, Temptations, Charles Wright & the Watts 103rd Street Rhythm Band, tutti luminari del funky e del soul di quel periodo, e il risultato è assai gradevole, con il suono avvolgente delle chitarre, delle tastiere, degli archi accennati e delle voci di supporto che ruota attorno alla bella voce di Doyle, che poi rilascia un assolo di chitarra lancinante e incisivo, bella partenza. Non male anche la successiva November, un brano dedicato allo scomparso padre di Doyle, con cui condivideva, come ricordato, una passione per questo R&B meticciato con  il rock, qui il suono è perfino troppo lussureggiante, con strati sovrapposti di fiati e archi che circondano questa bella ballata d’amore per il padre perduto https://www.youtube.com/watch?v=LungqZ0bJ-0 . The Veil ricorda molto proprio il sound del disco di Kiwanuka ricordato poc’anzi, un funky soul targato 70’s con piccoli tocchi di wah-wah e organo a tratteggiare un soul orchestrale influenzato da Withers, Gaye e altri praticanti dello stile, avvolgente e sospeso, qualche inserto di falsetto e il solito bel assolo di Bramhall che è un eccellente solista. Profumi d’oriente per My People, un’altra delle passioni di Doyle, con la parte iniziale dove un sarangi, la chitarra a 12 corde, l’harmonium e percussioni varie rimandano alle atmosfere di certi brani di George Harrison, ma poi il brano si sviluppa in un rock-blues mid-tempo di buona fattura, con i consueti ficcanti inserti della solista del nostro.

Per mantenere i contatti con la musica indiana nel successivo brano Bramhall chiama la figlia di Ravi Shankar, Norah Jones, che però appare nel brano, New Faith, in qualità di raffinata chanteuse tra pop e jazz, per un brano elettroacustico, intimo e raccolto, dove la voce della Jones viaggia all’unisono con quella del titolare, per una piacevole ballata in leggero crescendo, assai godibile. Fin qui tutto bene, Keep You Dreamin’ parte con tocchi hendrixiani, ma poi vira verso quelle derive Prince/Kravitz non del tutto impeccabili e il solo di wah-wah non basta a redimerla, e anche Hands Up, collegata nel testo ai disordini razziali dello scorso anno, al di là del favoloso lavoro della solista di Bramhall, qui in grande spolvero nella parte centrale, è forse un tantino pasticciata, ma magari sbaglio io. Rich man, di nuovo con un ricco arrangiamento degli archi, è un altro esempio dell’orchestral soul che prevale in gran parte dl disco, poi ribadito nella successiva Harmony, che sembra una ballata (bella) di quelle di Prince. Cries Of Ages ha un bel testo, buon lavoro di chitarra, ma la trovo un po’ confusa e pomposa, mentre sui ritmi orientali di Saharan Crossing, con continui oh-oh-oh vocali, stenderei un velo pietoso. Molto bello il finale rock, prima con una lunga The Samanas, dai suoni futuribili e selvaggi, che rendono omaggio alla terza facciata sperimentale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, poi citato direttamente con una bella versione di Hear My Train a Comin’, inutile dire che in entrambi i brani Doyle Bramhall II si sbizzarrisce alla grande alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=puuVXZeFHy8 . Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo album.

Bruno Conti