Purtroppo Non E’ Un Pesce D’Aprile! The Decemberists – I’ll Be Your Girl

decemberists i'll be you girl

The Decemberists – I’ll Be Your Girl – Rough Trade/Capitol CD

In realtà questo disco è uscito lo scorso 16 Marzo, ma il fatto che ne parli oggi, che oltre che il giorno di  Pasqua è anche il primo di Aprile (giorno solitamente dedicato alle burle), ha sollecitato in me l’esigenza di specificare che non si tratta di uno scherzo, ma di una vera recensione di un album che, come vedremo tra poco, non ha davvero molte frecce al suo arco (*NDB Vedasi anche il titolo di ieri). The Decemberists sono (spero di non dover dire erano) una delle migliori band in circolazione, ed i loro due ultimi album, The King Is Dead e What A Terrible World, What A Beautiful World http://discoclub.myblog.it/2015/01/20/piu-che-terribile-bellissimo-il-disco-decemberists-what-terrible-world-what-beautiful-world/ , sono entrati in molte Top Ten dei dischi più belli delle rispettive annate, 2011 e 2015, incluso in quelle del sottoscritto (ed è decisamente riuscito anche l’esperimento folk-rock condotto insieme ad Olivia Chaney ed uscito l’anno scorso sotto il nome di Offa Rex http://discoclub.myblog.it/2017/07/22/strano-nome-a-parte-in-pratica-sono-i-decemberists-piu-olivia-chaney-che-reinventano-il-folk-rock-britannico-offa-rex-the-queen-of-hearts/ ). Per questo nuovo I’ll Be Your Girl il gruppo guidato da Colin Meloy (insieme ai fidi Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen) ha però deciso di cambiare drasticamente registro, decidendo di non lavorare più con il loro abituale produttore Tucker Martine affidandosi ai servigi di John Congleton, uno che ha nel suo curriculum nomi non proprio invitanti per me come St. Vincent, Xiu Xiu e Swans.

Ma quello che più ha generato allarme tra i fans era l’annuncio che il quintetto di Portland avrebbe abbandonato le consuete atmosfere tra pop e Americana per ispirarsi al suono anni ottanta di gruppi come Depeche Mode e New Order. Ho letto diversi pareri su questo disco, dalla stroncatura più netta alla recensione positiva, e quindi ho voluto farmi un’idea mia dopo averlo ascoltato attentamente: ebbene, il risultato finale non è completamente tragico perché fortunatamente Meloy non ha perso la capacità di scrivere, e ci sono almeno tre brani che si salvano, ma il resto secondo me è da gettare alle ortiche, a causa principalmente di un suono finto, infarcito di sintetizzatori e drum machines, con arrangiamenti da mani nei capelli, che seppelliscono canzoni che con una veste sonora diversa avrebbero potuto uscire meglio. Ma ci sono anche alcuni pezzi poco riusciti, quasi come se i nostri, circondati da suoni fasulli e posticci, avessero perso il bandolo della matassa (ed ogni tanto il loro vecchio stile sembra voler emergere, ma fa molta fatica): spero che questo sia solo un (brutto) incidente di percorso, peraltro studiato a tavolino, e che non sia l’inizio di un cambio di rotta definitivo che porterà i Decemberists sulla stessa strada di Mumford & Sons, Arcade Fire e Low Anthem. Once In My Life si apre con la voce chiara di Meloy e due chitarre acustiche strimpellate con vigore, un avvio promettente che però viene in parte rovinato da una sorta di “big sound” un po’ artificioso, anche se nonostante tutto la canzone conserva una certa forza. Cutting Stone, che parte come una ballata acustica, assume quasi subito una ritmica dance anni settanta degna degli ABBA, che c’entra come i cavoli a merenda con il suono dei nostri, ed è un peccato perché il brano non era male (ma se voglio sentire gli ABBA non metto su un disco dei Decemberists).

Severed, il primo singolo, è anche peggio, un suono finto dominato da synth e drum machine, sembra di essere dalle parti di Giorgio Moroder o degli OMD: il pezzo poteva avere qualche aspetto positivo, ma il suono fa talmente schifo che non riesco a separare le due cose. Starwatcher non è nemmeno un granché come canzone, e poi il suono è davvero orripilante, mi chiedo cosa avesse in testa Meloy quando ha progettato questo album; Tripping Along avrebbe anche i suoni giusti, ma non è niente di speciale, mentre Your Ghost vorrebbe essere un brano pop solare ma riesce solo ad essere “strano” (e le chitarre dove sono?). Everything Is Awful sarebbe il titolo perfetto per questo CD (“Tutto E’ Terribile”): il suono è meno fasullo del solito, ma sempre decisamente sopra le righe. Con Sucker’s Prayer abbiamo finalmente un brano come si deve: suono giusto, melodia diretta e ritornello di presa immediata, con un delizioso sapore beatlesiano. Peccato che siamo già all’ottava canzone. We All Die Young è senza né capo né coda, brutta e persino fastidiosa https://www.youtube.com/watch?v=eR8JJdrUCaQ , ma fortunatamente con Rusalka, Rusalka/Wild Rushes abbiamo il pezzo migliore del CD: una ballata pianistica complessa e maestosa, quasi con tentazioni prog, sonorità “vere” e tracce dei Decemberists che più amiamo, con un bellissimo finale strumentale. Il dischetto si chiude con la title track, una ballata elettroacustica dallo squisito gusto melodico, una bella canzone che però mi fa ancora più arrabbiare per le puttanate elettroniche che l’hanno preceduta.  I’ll Be Your Girl è un disco da dimenticare, e pure in fretta.

Marco Verdi

P.S: colgo l’occasione per fare i migliori auguri di Buona Pasqua a blogger, collaboratori e lettori.

Ripassi Estivi 2: Un Viaggio “Diverso” Nella Tradizione, Intenso E Originale. Kronos Quartet – Folk Songs

kronos quartet folk songs

Kronos Quartet – Folk Songs – Nonesuch Records

Di questo gruppo “classico” forse colpevolmente non abbiamo mai parlato, e così dopo circa 40 anni di carriera e una sessantina di dischi pubblicati, lo facciamo ora, in occasione dell’uscita di questo ultimo lavoro, dal magari non innovativo titolo Folk Songs. I Kronos Quartet sono, come dice il nome, un quartetto d’archi creato da un giovane violinista di Seattle David Harrington nel lontano ’73, con un gruppo di amici composto allora  da un altro violinista John Sherba, da Hank Dutt alla viola,e da Joan Jeanrenaud al violoncello (sostituita dopo un decennio da Jennifer Culp), e che ha lasciato a sua volta il posto all’attuale titolare Sunny Yang: formazione tipica con una strumentazione “cameristica”, che però si cimentava sia nel repertorio avanguardista, sia in un più vasto raggio d’azione che comprendeva e comprende i suoni di Africa, Giamaica, Oriente, passando anche attraverso brani di Philip Glass, Thelonius Monk, Jimi Hendrix, Bill Evans, Astor Piazzolla, diventando nel tempo, con merito, un fenomeno quasi “divistico”.

Nella loro corposa e spesso eccelsa discografia mi sembra opportuno segnalare almeno lavori “tematici” come Monk Suite (85), Music Of Bill Evans (86), The Complete String Quartets (88), Dracula (99), e i più recenti Kronos Quartet Plays Sigur Ròs (07) e Terry Riley: The Cups Of Magic (08). L’idea di questo ultimo lavoro Folk Songs è nata nel 2014, quando la Nonesuch Records ha celebrato il suo 50° anniversario con due grandi concerti al Barbican Center di Londra e all’Accademia di Musica di Brooklyn di New York, facendo salire sul palco con i Kronos Quartet  altri musicisti a “libro paga” dell’etichetta, gente del calibro di Sam Amidon, Olivia Chaney (eccellente cantante e pianista britannica, di recente all’opera con gli Offa Rex http://discoclub.myblog.it/2017/07/22/strano-nome-a-parte-in-pratica-sono-i-decemberists-piu-olivia-chaney-che-reinventano-il-folk-rock-britannico-offa-rex-the-queen-of-hearts/ ), Rhiannon Giddens (membro fondatore della Carolina Chocolate Drops), e la bravissima Natalie Merchant (ex solista dei 10.000 Maniacs), il tutto poi è stato anche trasportato in sala di registrazione negli Avatar Studios di New York, con la produzione di Doug Petty, con il brillante risultato di nove canzoni “tradizionali”, ma con una chiave di lettura che spazia tra folk e rock.

Le “opere d’arte” si aprono con onde di suono “appalachiano”, con una struggente Oh Where dove il cantato di Sam Amidon è intercalato dai violini di Harrington e Sherba, a cui fa seguito la dolce rilettura in stile “folk inglese” di Rambling Boys Of Pleasure, che non poteva che essere declamata dalla brava Olivia Chaney, per poi passare alla meravigliosa voce della Merchant,  in una superba e emozionante “romanza” come The Butcher’s Boy. Con Factory Girl i Kronos Quartet spaziano di nuovo in un intrigante “appalachian-blues” ispirato al blues tradizionale e affidato alla voce della Giddens, mentre Last Kind Words è un puro esercizio strumentale, dove si evidenzia ancora una volta la bravura del quartetto. Mentre con la spettrale I See The Sign ritorna il folksinger Sam Amidon (un brano che aveva già inserito nella raccolta omonima nel 2010). La parte finale vede gli archi dei Kronos Quartet salire ancora alla ribalta, prima con l’aria “francofona” di una dolcissima Montagne Que Tu Es Haute cantata al meglio nuovamente dalla Chaney, poi lasciarsi ammaliare ancora dalla superba voce di Natalie Marchant, nella rilettura di un famoso canto risalente alla Guerra d’Indipendenza, come Johnny Has Gone For A Soldier, e chiudere un disco affascinante con la filastrocca folk Lullaby, cantata da Rhiannon Giddensm con la mente rivolta alle piantagioni di cotone dell’Alabama.

Nel corso degli anni i Kronos Quartet hanno eseguito di tutto, da brani di musica religiosa ad altri di chiara matrice storica, passando da Purple Haze del grande Hendrix, a Spoonful di Willie Dixon, da brani di Kurt Weill a composizioni, come detto in precedenza, create appositamente per loro dagli artisti e personaggi più disparati, ricordo John Zorn, Philip Glass, John Lurie e Astor Piazzolla fra i tanti. Con questo ennesimo esperimento di Folk Songs, i Kronos Quartet dimostrano di essere sempre al centro del progetto, rileggendo pagine pescate da libri tradizionali di canzoni francesi, britanniche e nordamericani, assistiti in questa occasione da “guest-vocalist” di grande spessore come Rhiannon Giddens, Sam Amidon, la scoperta Olivia Chaney, e l’immancabile conferma Natalie Marchant, per un viaggio nella tradizione intenso, ricco e emotivo, decisamente originale e di grande fascino.

Tino Montanari

“Strano” Nome A Parte, In Pratica Sono I Decemberists Più Olivia Chaney Che Reinventano Il Folk-Rock Britannico! Offa Rex – The Queen Of Hearts

offa rex the queen of hearts

Offa Rex – The Queen Of Hearts – Nonesuch/Warner

In effetti un po’ il nome “misterioso” della formazione rimanda a quei gruppi storici che hanno fatto la storia del folk-rock britannico, e ai quali la band si ispira: i Fairport Convention, gli Steeleye Span, l’Albion Band, tutte formazioni in cui una voce femminile guidava un organico che era impegnato a fondere il folk tradizionale delle Isole Britanniche con il rock (e qualche traccia, più o meno percepibile, della psichedelia che imperava in quegli anni oltre oceano, nella West Coast e altrove), con creatività ma anche amore per le radici della musica popolare, e, diciamolo, una buona dose di talento nei suoi praticanti. Forse non a caso tutti questi gruppi sono stati fondati ai tempi da Ashley Hutchings, vero “genio” del folk e dell’electric folk inglese. Nel caso dei Decemberists, e nello specifico il loro leader Colin Meloy, da sempre estimatore di questo filone musicale (oltre che del rock progressivo, sempre inglese, quello più complesso) che si è professato un fan di Olivia Chaney, sin dalla pubblicazione del primo album per la Nonesuch della cantante, The Longest River, pubblicato nel 2015 (e di cui vi avevo parlato in un post doppio ad inizio 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/01/04/recuperi-sorprese-inizio-anno-4-due-voci-femminili-scoprire-olivia-chaney-joan-shelley/ ): come racconta lei stessa, prima Meloy l’aveva contattata via Twitter esprimendo la sua ammirazione per quel album, invitandola ad andare in un tour americano con i Decemberists, e poi durante quella serie di concerti le ha proposto, con una frase che lascio volutamente in inglese, perché rende perfettamente l’idea:  ‘Have you ever thought of having a backing group? We’ll be your Albion Dance Band.'”!

Nel link del Post indicato sopra, potete trovare tutte le informazioni sulla Chaney, dei Decemberists ci siamo occupati spesso e volentieri sul Blog, basta usare la funzione ricerca e li trovate, per cui proseguiamo a vedere come è andata a finire la vicenda: intanto, per curiosità, Offa è stato un celebre Re di Mercia, un regno dell’antica Inghilterra, tra il 757 e il 796 Anno Domini, e se volete conoscerne la storia digitate in rete Offa di Mercia, ma visto che noi ci occupiamo di musica, la divulgazione culturale la lasciamo ad altri. Si diceva della proposta di Meloy, che è diventata una realtà, portando Olivia a Portland, Oregon, nella tana del leone, negli studi di Tucker Martine, per vedere cosa poteva scaturire dall’incontro tra i musicisti americani e una vera praticante del folk britannico (per quanto anche con le influenze americane citate nella recensione): insomma Sandy Denny Maddy Prior (ma anche Anne Briggs), vanno a braccetto con Joni Mitchell Natalie Merchant, nella splendida voce della Chaney, mentre i Decemberists provvedono a “ri-aggiornare” questo stile musicale, che comunque vanta ancora molti dei precursori originali in attività, e penso, oltre alla Prior e Hutchings a Richard Linda Thompson, ed altri che ricorderemo strada facendo.  Intanto lo fa andando a pescare nello stesso bacino tradizionale inglese-irlandese-scozzese da cui avevano attinto le prime band britanniche, a cavallo della fine anni ’60, primi anni ’70. Anche se la storia del disco non è solo questa: intanto agli arrangiamenti di The Queen Of Hearts ha contribuito la stessa Chaney, che nell’album, oltre a cantare con voce angelica suona pure clavicembalo elettrico, harmonium, piano, chitarra acustica e dobro, mentre Colin Meloy oltre ad essere un altro degli arrangiatori (con il resto della band) e co-produttore con Martine, suona tutti i tipi di chitarra, elettrica, classica, 12 corde ed  acustica, e, forse non è ancora stato detto, anche se si intuiva, il CD è veramente brillante e di grande qualità.

Per completare aggiungiamo che nel disco suonano pure Chris Funk, anche a lui a chitarra, mandolino, autoharp e hammered dulcimer, Nate Queery al basso, Jenny Conlee, piano elettrico Fender Rhodes, organo e fisarmonica, Jon Moen, batteria e percussioni, più Anna Fritz al cello, Ralph Carney a clarinetto e fiati, Mirabai Peart alla viola e Steve Drizos alle congas. A tratti si percepisce anche il sound abituale della band americana, specie nei brani più elettrici, ma il folk-rock (psichedelico o tradizionale) è all’ordine del giorno. Prendiamo il brano di apertura, la title track Queen Of Hearts, introdotta dal clavicembalo elettrico della Chaney poi si sviluppa in una cavalcata elettrica che sembra scaturire da Liege And Lief dei Fairport, con chitarre elettriche psych a duettare con la voce eterea e sognante di Olivia, in un pezzo dove qualcuno ha intravisto persino analogie con le prime Heart, quelle più bucoliche di inizio carriera di Dreamboat Annie. Blackleg Miner, cantata da Meloy (con Olivia poi alla seconda voce), ricorda moltissimo la versione degli Steeleye Span dal loro debutto Hark! The Village Wait, con un mandolino a guidare la melodia, mentre la versione di un altro traditional come The Gardener è direi splendida, una ballata, o “aria”, se preferite la terminologia folk, ricorda moltissimo appunto quelle ballate soffuse ed intense in cui Sandy Denny era maestra, e anche se la Chaney forse non raggiunge i vertici vocali della Sandy ci si avvicina moltissimo, con tutti i musicisti perfetti ai loro strumenti, dalla chitarra elettrica alla viola, alle tastiere, alla sezione ritmica discreta, ma comunque presente, veramente un ottimo brano. The First Time I Ever Saw Your Face è un brano celeberrimo di Ewan MacColl, un altro dei padri fondatori del revival del British folk (ha scritto anche Dirty Old Town), canzone famosa anche nella versione molto bella e quasi soft-soul di Roberta Flack, qui riacquista la sua dimensione tradizionale in un mood sonoro guidato dall’harmonium che rimanda al sound dell’Albion Dance Band a guida Shirley Collins, anche se la voce ricorda nuovamente sia la Denny che Natalie Merchant, quando affronta le canzoni folk.

Flash Company se non ricordo male dovrebbero averla cantata sia Norma Waterson (nel disco di famiglia Waterson:Carthy) che June Tabor, altre due delle grandi icone del folk inglese tuttora in attività, altra deliziosa ballata sulle ali di una chitarra elettrica e di un violino (o è una viola?) che rimanda alle più belle canzoni dei Fairport Convention di Richard Thompson e Sandy Denny, la voce, credo raddoppiata, di Olivia in questo pezzo è evocativa come raramente è dato sentire ai giorni nostri. The Old Churchyard uno dei brani più pastorali viceversa ricorda nuovamente gli Steeleye Span di Maddy Prior, anche vocalmente, tra intrecci di chitarra elettrica, tastiere, viola e harmonium, su cui svetta nuovamente la voce cristallina della Chaney. Constant Billy (Oddington) / I’ll Go Enlist (Sherborne) è un breve e coinvolgente strumentale, con la fisarmonica della Conlee a guidare letteralmente le danze, in un brano che rimanda moltissimo ai progetti più tradizionali di Hutchings nelle varie versione della Albion Band. Altro grande brano, uno dei più belli del disco è Willie o’ Wisnbury, che si ricorda in decine di versioni, forse le più famose quelle di Dick Gaughan, dei Pentangle e degli Sweeney’s Man (tra gli “antenati” dei Planxty): la rilettura degli Offa Rex, di oltre sette minuti, è un’altra di quelle canzoni dove si apprezza a fondo l’angelica voce della Chaney, ma anche la maestria del gruppo nel ricreare con pochi tocchi le malinconiche e suadenti atmosfere tipiche del miglior folk britannico. Poi replicate nelle note scandite e quasi marziali di Bonny May, altro brano legato a June Tabor, ancora pezzo corale di grande livello ed intensità. Ci avviciniamo alla fine con Sheepcrook and Black Dog, un altro dei brani più elettrici di questo CD, dove prevale l’anima più rock e psych, quasi sperimentale, del gruppo, con sciabolate di chitarre elettriche, la voce stranamente lavorata e grintosa e quell’aria tipica delle storie popolari, tra fato e disgrazie varie che si intrecciano nel racconto della canzone. L’ultimo brano viene pure dal songbook della famiglia Waterson, Lal nello specifico è l’autore di To Make You Stay, altra evocativa e sospesa ballata elettrica affidata ala voce di Colin Meloy (sempre con la doppia voce della Chaney), con chitarra acustica e pianoforte che creano altre magie sonore, orientali a tratti, che portano ad una degna conclusione questo splendido album.

Altamente consigliato, tra i migliori dischi del 2017 fino ad ora.

Bruno Conti