Semplicemente Il Loro Miglior Disco Dagli Anni Settanta In Poi! Outlaws – Dixie Highway

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 Outlaws – Dixie Highway – Steamhammer/SPVCD

Il nuovo millennio non si è rivelato molto ricco di novità discografiche per quanto riguarda i gruppi storici del filone southern rock, in parte anche per l’età avanzata dei loro componenti. Gli Allman si sono sciolti nel 2014 (e comunque il loro ultimo album con materiale nuovo risaliva al 2003), la Marshall Tucker Band si esibisce solo più dal vivo, i Lynyrd Skynyrd ogni tanto incidono ma sono ormai fermi dal 2012, gli Atlanta Rhythm Section sono spariti (e comunque non azzeccavano un disco dagli anni settanta), Charlie Daniels ha una bella età e poi è da tempo un artista country, mentre i Black Oak Arkansas hanno tentato il rientro lo scorso anno ma il loro Underdog Heroes era orrendo: gli unici ancora abbastanza attivi sono i Molly Hatchet, ma i loro lavori seppur non disprezzabili sfociano spesso in un hard rock di grana grossa.

Questa introduzione per dire che non è che io abbia sentito chissà quali vibrazioni quando ho saputo che gli Outlaws, band originaria di Tampa ed attiva dal 1975, erano in uscita con un nuovo disco, anche perché li ho sempre considerati un gruppo minore anche nel loro periodo di massima fama, con nessuno dei loro album nella Top Ten (l’esordio omonimo si fermò alla tredicesima posizione), qualche successo minore come singolo con There Goes Another Love Song e la cover di (Ghost) Riders In The Sky ed almeno un classico assoluto con Green Grass And High Tides, da sempre punto centrale dei loro concerti (e dal vivo sono ancora validissimi, basti ascoltare l’album del 2016 Legacy Live https://discoclub.myblog.it/2017/02/28/una-eredita-per-nulla-smarrita-molto-viva-outlaws-legacy-live/ ). Dixie Highway, questo il titolo del nuovo CD dei Fuorilegge (che arriva ad otto anni dal discreto It’s About Pride), mi ha però fatto ricredere sin dal primo ascolto lasciandomi addirittura a bocca aperta in più di un momento: i nostri non hanno mai perso l’abilità nel suonare, la loro musica si conferma perfetta per chi ama il rock-boogie chitarristico più ruspante, ma in Dixie Highway c’è anche una qualità compositiva che non credevo più possibile a questo punto della loro carriera, che unita a massicce dosi di feeling fanno sì che l’album si possa addirittura considerare il loro migliore dagli anni settanta in poi.

Non è un capolavoro assoluto, ma un disco ben scritto, cantato in maniera adeguata e suonato alla grande, e credo che i fan del gruppo e della musica southern in generale non possano chiedere di più. Gli unici due membri fondatori ancora nella band sono il chitarrista e cantante Henry Paul ed il drummer Monte Yoho, e completano il settetto gli altri chitarristi Steve Grisham e Dave Oliver, il bassista Randy Threet, il tastierista Dave Robbins e l’altro batterista Jaran Sorenson (c’è anche un quarto chitarrista ospite, Billy Crain, quindi è garantito un bel muro del suono). Southern Rock Will Never Die (ottimo titolo) fa partire il disco nel modo migliore, una rock song potente, solida e trascinante con un ritornello corale irresistibile (nel quale vengono elencate solo per nome alcune leggende scomparse come Steve Gaines, Ronnie Van Zant, Gregg e Duane Allman, Berry Oakley, Toy e Tommy Caldwell nonché The Flame, che era il soprannome dell’ex compagno di avventura Hughie Thomasson) ed una serie di assoli strepitosi: inizio eccellente. Heavenly Blues è una rock ballad vivace e solare, con un altro refrain perfetto ed una chitarra decisamente melodiosa, alla Dickey Betts, a differenza della title track che è puro rock’n’roll sotto steroidi, con le chitarre che guizzano da tute le parti ed un tono epico: tre canzoni e sono già pronto a mettere Dixie Highway tra i migliori album degli Outlaws.

La deliziosa Over Night From Athens è più sul versante country-rock, ma sempre in puro stile southern come era solita fare la Marshall Tucker Band, Endless Ride è una ballatona elettrica tesa come una lama e con una melodia decisamente evocativa e ricca di pathos, mentre Dark Horse Run inizia acustica e si sviluppa fluida e sinuosa, con il ritmo sempre sostenuto e l’ennesimo refrain corale che prende all’istante. Rattlesnake Road è un boogie roboante e diretto come un pugno nello stomaco, ancora con un gran lavoro delle chitarre e tanto sudore (ricorda gli ZZ Top quando sono in forma), Lonesome Boy From Dixie è puro southern rock anni settanta, con chitarre pulite e scintillanti ed un train sonoro coinvolgente. Lo strumentale allmaniano Showdown, puro guitar power, prelude al gran finale di Windy City’s Blue, rock song perfetta per gli spazi aperti e con una fantastica accelerazione elettrica circa a metà canzone, e di Macon Memories, brano più lento e nostalgico ma che non rinuncia alla grinta, finale ad hoc per un disco bellissimo e sorprendente che tiene ben alto il vessillo (invero un po’ sciupato) del southern rock.

Marco Verdi

Southern Rock Anomalo Per La Collocazione Geografica Ma Non Per L’Ottimo Stile! Hogjaw – Way Down Yonder

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Hogjaw – Way Down Yonder – Snakefarm Records/Caroline/Universal

Come filone musicale, inserito nel più ampio panorama del rock americano, il “southern” nasceva  all’incirca una quarantina di anni  fa grazie all’opera dei due fratelli Allman, Duane e Gregg, che grazie alla loro fusione di rock, blues e country, unite ad una propensione per l’uso della jam strumentale, mutuata dal jazz, “inventavano” un genere che poi si sarebbe imposto nel corso degli anni e tuttora  vanta formazioni vecchie e nuove che si succedono anche se la scomparsa lo scorso anno proprio di Gregg Allman è stata un colpo e una ferita non facile da assorbire. Tra le formazioni diciamo emergenti ci sono gli Hogjaw, una band originaria dell’Arizona, zona che se geograficamente fa indubbiamente parte degli Stati del Sud, a livello musicale di solito non si inserisce nel filone southern rock: molte belle canzoni hanno citato l’Arizona e le sue città, da Take It Easy di Jackson Browne/Eagles a Get Back dei Beatles, passando per By The Time I Get To Phoenix, il brano di Jimmy Webb, reso celebre da Glenn Campbell. Anche gli Hogjaw vengono da laggiù, un quartetto dalle facce truci e anche un po’ trucide a giudicare dalle foto, che con questo Way Down Yonder arrivano al sesto album pubblicato in dieci anni di attività.

La band è formata da Jonboat Jones voce e chitarra, Jimmy Rose chitarra solista, Elvis DD basso e Kwall batteria, già fin dai nomi calati a fondo nelle coordinate del genere, poi rafforzate dalla loro ammirazione espressa sia a livello verbale come nell’atto pratico, con un debito a livello sonoro ed una devozione per band come  Marshall Tucker Band, Allman Brothers Band, Charlie Daniels, ZZ Top e  Lynyrd Skynyrd, ma anche i primi Outlaws e i Blackfoot, spesso citati tra le influenze. Aiutati dalla formula classica della doppia chitarra solista, da un cantante con la voce potente ma anche forgiata da bourbon e whiskey, con  una sezione ritmica rocciosa a suo agio anche nell’ambito hard-rock gli Hogjaw sono una ottima band.  Undici brani firmati dai componenti del gruppo con i loro veri nomi  – Damon Deluca / Jason Kowalski / Jimmy Rose / Jason Wyatt, uno corrisponde a quelli sopra –  che spaziano in tutti gli stili del perfetto “sudista”, dall’iniziale raffinata ma incalzante Back Home Today, che sembra un brano della Marshall Tucker Band circa 1973/74, con le twin guitars e la voce di Jonboat subito sul pezzo, veramente una apertura deliziosa. E’ un attimo e ci tuffiamo subito nel boogie-rock più “riffato” di To Hell With Rock, che pare una canzone dei Lynyrd Skynyrd o dei Blackfoot, ma anche gli ZZ Top approverebbero, la solista di Rose è veramente potente ma anche pulita e ricca di tecnica.

Brown Water rimane negli stessi territori, sezione ritmica potente, chitarre gemelle sparate a tutto volume e la voce vissuta di Jones ben evidenziata. Ma c’è spazio anche per il desert rock sinuoso di North Carolina Way con la band comunque subito pronta a rilanciare le soliste in continui rimandi al southern più classico, anche con qualche retrogusto che rimanda agli Outlaws più ingrifati e chitarristici, cioè quelli di sempre; la title track Way Down Yonder non alza il pedale dall’acceleratore, gli assoli sono sempre caldi e frementi e Jonboat Jones guida gli Hogway con il suo vocione potente, anche se il brano è più scontato, mentre in Dark Horse il suono si sposta verso  un hard rock ‘70’s più di maniera per quanto ben suonato e con le chitarre sempre pronte a scatenarsi. Poteva mancare il classico lentone alla Lynyrd Skynyrd? Certo che no e quindi vai con la power ballad, una potente Redemption che rinverdisce i fasti del miglior rock sudista, con l’immancabile crescendo chitarristico nel finale. Molto buone anche le gagliarde I Got A Pencil e Never Surrender, ancora con le soliste che non fanno prigionieri, e pure Beast Of Burden non molla la presa. Solo per la conclusiva Talk About Fishin’ imbracciano chitarre acustiche, dobro, banjo e mandolini per una pausa acustica. Niente di nuovo sotto il sole, che in Arizona è comunque caldo e scalda il cuore. L’album è uscito da qualche mese negli Stati Uniti, ma proprio in questi giorni ha avuto anche una distribuzione europea ( e italiana).

Bruno Conti

“Finalmente” Un Nuovo Gruppo Di Southern Rock! Preacher Stone – Remedy

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Preacher Stone  – Remedy – NoNo Bad Dog Productions

Nella terza (o quarta) ondata dei gruppi southern rock, chiamiamola quella 2.0, i migliori, secondo chi scrive, sono sicuramente Blackberry Smoke e Whiskey Myers, ma poi c’è tutta una foltissima pattuglia di band, nate per lo più negli anni 2000, che affollano il sottobosco della scena musicale americana, e delle quali ci siamo spesso occupati su questo pagine, e di cui, per brevità, non citerò i nomi, ma gli appassionati più accaniti le conoscono, e per gli altri spero abbiamo seguito i consigli del sottoscritto. Oggi parliamo dei Preacher Stone, band del North Carolina (patria tra i tantissimi, degli Avett Brothers, di Ryan Adams, Doc Watson, Nina Simone, Charlie Daniels, per restare nell’ambito sudista, ma anche luogo di nascita di John Coltrane e Thelonius Monk, quindi uno stato “importante” a livello musicale), e dalla Carolina del Sud viene pure la Marshall Tucker Band, un altro dei gruppi più importanti nel genere: nel loro sito si autodefiniscono “new hard southern rock” e questo Remedy (come un famoso brano dei Black Crowes con cui non c’entra comunque) è il loro quarto album. Purtroppo, come i precedenti, e basta leggere il nome della loro etichetta per capirlo, il disco non è facilmente reperibile, ma visto che la musica è comunque di buona fattura, ne parliamo lo stesso, anche se ormai il CD è stato pubblicato da alcuni mesi, ma la musica, come è noto, non ha scadenza (o non dovrebbe).

Nella formazione ci sono sei elementi, Ronnie Riddle, voce solista, armonica e mandolino, e Marty Hill, chitarra solista, slide e dobro, sono i due leader e compositori principali (non ci sono cover nel CD), a completare la line-up troviamo Ben Robinson alla seconda chitarra, Johnny Webb alle tastiere, e la sezione ritmica composta da Jim Bolt e Josh Wyatt. Hill è anche il produttore del disco, che è stato registrato in quel di Asheville, città del NC da dove vengono anche Warren Haynes e la recente scoperta Rayna Gellert, ma loro sono di Charlotte: il disco contiene undici brani in tutto, che si aprono sul classico suono di una poderosa Blue Collar Son, puro Lynyrd Snynyrd sound con la voce potente di Riddle (ma è parente di quello della Marshall Tucker Band?), le chitarre arrotate e l’organo immancabile nel southern rock di qualità. Formula che viene ripetuta anche nella successiva Lazarus, con la slide di Hill in bella evidenza, a fianco delle tastiere di Webb e della seconda chitarra di Robinson, co-autore del brano. Più che hard southern rock mi sembra quello “classico” e migliore, con gli strumenti e la voce mai sopra le righe, un bel tiro, ma il suono è raffinato, per il genere ovviamente; come conferma una ottima ballata elettroacustica come The Sign, dove le melodie avvolgenti del brano vengono innervate dall’eccellente lavoro delle chitarre elettriche. Lo dico o non lo dico? Niente di nuovo, ma se l’aderire a schemi già rodati e conosciuti fino all’eccesso in ambito sudista viene fatto con passione e bella scrittura si apprezza sempre; anche il boogie-rock di Living The Dream lo abbiamo sentito mille volte sui dischi dei Lynyrd o degli ZZ Top, e pure in quelli recenti dei Whiskey Myers o dei Blackberry Smoke, ma non per questo ci piace di meno.

La band in questo album conferma a tratti anche una propensione per le buone melodie, un brano come Grace ha nel DNA pure elementi country e gospel, grazie alla presenza di voci femminili di supporto, ma il piatto forte sono sempre gli assoli di chitarra, lirici e ficcanti. La title track, dopo una partenza attendista e “lavorata” si getta di nuovo sui ritmi gagliardi del southern più ruspante, con eccellente finale delle twin guitars, un classico del genere; e pure Country Comes To Town, firmata collettivamente da tutto il gruppo, non tradisce lo spirito R&R classico, forse manca quel piccolo quid che fa il fuoriclasse, ma i sei ci mettono molto impegno e regalano buone sensazioni. She Loves è un bel mid-tempo d’atmosfera, con un piacevole interplay tra le chitarre soliste e le tastiere, organo e piano elettrico, sempre presenti, mentre la voce di Riddle è una garanzia. Silence Is Golden, nonostante la presenza di un mandolino è una delle più dure, ma sempre in un ambito che ricorda gruppi come la Charlie Daniels Band o gli Outlaws, e il ritmo non scema neppure nella successiva Lucky, a tutto wah-wah, con i Lynyrd Skynyrd modello da seguire con fede. Rimane la conclusiva Levi’s Song, altra ballata evocativa, forse un filo scontata. ma che conferma la qualità di questo sestetto , tutto cappelli, barbe e capelli, ma anche all’occorrenza dal cuore tenero. Gli appassionati del genere, se già non frequentano, possono aggiungere un nuovo nome alla lista: ce ne sono mille, facciamo mille e uno!

Bruno Conti

Una Eredità Per Nulla Smarrita, Anzi Molto “Viva”! Outlaws – Legacy Live

outlaws legacy live

*NDB Leggendo un commento su loro Live dell’86 che vedete a fianco, e che a grandi linee condivido, mi sono accorto che non avevo ancora postato la recensione di questo doppio dal vivo degli Outlaws, uscito qualche tempo fa, e visto che il Southern rock è sempre bene accetto sul Blog e il Live è notevole, rimedio subito.

Outlaws – Legacy Live – 2 CD SPV/Steamhammer

Ultimamente c’è stata una vera proliferazione di pubblicazioni dedicate a dischi dal vivo degli Outlaws, spesso eccellenti, come il Los Angeles 1976, o comunque molto buone, vedi Live At The Bottom Line Live ’86, entrambi editi dalla Cleopatra http://discoclub.myblog.it/2016/09/14/meglio-il-live-uscito-lo-scorso-anno-anche-male-the-outlaws-live-at-the-bottom-line-new-york-86/ . Ora esce questo Legacy Live, registrato nel tour del 2015 dall’ultima formazione della band, quella che vede presenti dei membri originali solo il cantante e chitarrista Henry Paul e il batterista Monte Yoho. Con loro ci sono anche, nella line-up comunque a tre chitarre, Steve Grisham (Henry Paul Band, Brothers Of The Southland), già presente nel periodo 1983-1986 e Chris Anderson (anche con Dickey Betts, Lucinda Williams e Lynyrd Skynyrd) dal 1986 al 1989, entrambi alla solista, oltre al bassista Randy Threet e al tastierista Dave Robbins, tutti (ri)entrati nella band negli anni 2000. Non c’è più Hughie Thomasson, l’altro leader, scomparso nel 2007, mentre nel disco del 2012 It’s About Pride, l’ultimo in studio, alla chitarra c’era l’ottimo Billy Crain. E contrariamente alle mie aspettative (e a quelle di molti altri fan) anche questo doppio dal vivo è molto buono, la band della Florida è in gran forma e propone il proprio southern aggressivo e chitarristico con una grinta e una vivacità che latitano in altre formazioni storiche del rock sudista.

Niente di nuovo, e ci mancherebbe, ma i nostri non appaiono bolliti e neppure troppo sopra le righe, riuscendo a non fare troppo rimpiangere il periodo d’oro degli anni ’70, il 1975 per la precisione, l’anno di uscita del primo album, di cui nel tour si festeggiava il 40° Anniversario. 21 canzoni (compresa la breve intro iniziale) dove scorrono i grandi successi del gruppo, ma anche alcuni brani tratti da It’s About Pride: si parte subito bene con una gagliarda There Goes Another Love Song, che mette subito in evidenza anche gli elementi country presenti nel DNA del gruppo, sia con ottime armonie vocali, sia con il sound dove le chitarre sono regine, ma la melodia non è mai assente, senza esagerare con continue prove troppo muscolari (che non mancano comunque, non temete). Eccellente anche un altro classico come Hurry Sundown, dove i classici e continui rilanci del loro credo musicale sono in bella evidenza, con assoli di chitarra che si susseguono a ritmo serratissimo. Ma pure la recente Hidin’ Out In Tennessee non sfigura rispetto al vecchio repertorio, con le chitarre spesso impegnate ad armonizzare all’unisono nel classico sound à la Outlaws e poi scatenarsi in micidiali call and response; Freeborn Man era su Lady In Waiting, quando c’era ancora Billy Jones, ed è la consueta perfetta miscela di country e rock di gran classe, anche con cambi di tempo repentini e raffinati. Ma nell’alternanza tra nuovi e vecchi pezzi non ci sono discrepanze, buoni entrambi, come conferma la riffatissima Born To Be Bad del 2012 dove sembra di ascoltare degli ZZ Top più melodici, o Song In The Breeze dal 1° omonimo album.

Girl From Ohio ricorda un pezzo di country-rock degli Eagles, della Nitty Gritty o dei Poco, mentre nell’unisono splendido delle soliste in Holiday sembra di ascoltare i Wishbone Ash migliori. Poi, certo, ci sono i cavalli di battaglia: Gunsmoke, di nuovo da Hurry Sundown o la lunga e tirata Grey Ghost, la title-track del disco omonimo, dove si apprezza di nuovo il finissimo intrecciarsi delle varie chitarre soliste; si torna di nuovo al country velocissimo e corale di una South Carolina che mi ha ricordato di nuovo moltissimo i primi Eagles e nell’attimo successivo passiamo ad una ballata mid-tempo avvolgente come So Long e ancora a una Prisoner, tratta da Lady In Waiting, che ondeggia tra Pink Floyd ed Allman Brothers. Cold Harbor,elettroacustica e raccolta, quasi alla CSNY, è seguita da Trail Of Tears, dall’inedito Once an Outlaw, l’ultima prova postuma con Thomasson. Notevole pure la corale It’s About Pride, dove risalta anche il piano di Robbins, ma a ben vedere non c’è un brano debole in questo bellissimo doppio dal vivo, come conferma il gran finale, prima con la scatenata Waterhole, che rievoca certi strumentali splendidi dei dischi dei Poco, poi la deliziosa Knoxville Girl, sempre dal primo classico album e Green Grass And High Tides, che è la loro Free Bird, un vero festival delle chitarre elettriche, tredici minuti di pura goduria dove le soliste si rincorrono, si intrecciano e si scatenano in modo splendido. E non è finita, perché pure l’entusiasmante (Ghost) Riders In The Sky dimostra che gli attuali Outlaws, almeno dal vivo, non hanno nulla da invidiare alla loro versione più giovane dei tempi che furono. Grande disco!

Bruno Conti

Un’Altra Band Sudista? Ebbene Sì! C.C. Rocktrain – Fast Way of Living

c.c. rocktrain fast way of living

C.C. Rocktrain – Fast Way of Living – C.C. Rocktrain                    

Nell’immenso mercato discografico Americano, anche quello più o meno indipendente, c’è sempre stato, e c’è tuttora, tutto un sottobosco di band genuine che fanno rock, spesso con spiccate tendenze sudiste, ma anche più semplicemente con il vecchio classico hard-rock nel cuore: alcune di quelle “nuove” sudiste tipo Whiskey Myers, Blackberry Smoke e molte altre che non citiamo per brevità, si uniscono a quelle classiche, dai Lynyrd Skynyrd ai Blackfoot agli Outlaws, nel farsi portabandiera di quel movimento southern rock che, con alti e bassi, è una costante della scena musicale americana dagli anni ’70. Poi c’è tutto un filone di band diciamo più “durette”, mi vengono mente quelle del roster della Grooveyard Records (sempre per non fare nomi Black Mountain Prophet, Blindside Blues Band, i Janeys, babbo e figlio, l’hendrixiano Randy Hansen), ma anche quelle a guida femminile come Blues Pills o No Sinner, che introducono nel loro stile, a fianco degli elementi sudisti, anche tratti blues, oltre all’immancabile hard rock targato 70’s, senza dimenticare gente come Rival Sons, Supersonic Blues Machine, Apocalypse Blues Revue, o quelli più raffinati tipo SIMO, Marcus King Band, The Record Company.

Alcune band sono più caciarone di altre, ma il tratto distintivo di quasi tutti è “chitarre, chitarre e poi ancora chitarre” che potrebbe essere il loro motto. I C.C. Rocktrain arrivano dalla Carolina del Nord, e quindi fanno del southern rock per definizione di provenienza, però sono più vicini al sound degli ultimi Lynyrd Skynyrd, dei Blackfoot o dei Molly Hatchet, quindi abbastanza hard e tirati, anche se in questo Fast Way Of Living, il loro esordio, già in circolazione da un paio di anni, sono in grado comunque di proporre un sound a tratti più rilassato e ricercato, vicino a quello di gruppi come la Marshall Tucker Band o gli Outlaws. Quando è stato pubblicato il disco in formazione c’erano il chitarrista Tommy “T” Tessneer e il bassista Charlie Gossett, sostituiti nel frattempo rispettivamente da Jeff Gates e Billy Hedgepeth. Rimangono i due leader, il fondatore della band nel 2011, voce e chitarra solista, nonché autore dei brani Rob “Feet” Crawford , oltre al batterista, entrato in formazione nel 2013, il roccioso Bruce “Thunderfoot” Camp (spesso i nomignoli sono più esplicativi di mille descrizioni tecniche).

Tra le influenze che il gruppo cita, oltre ai canonici Blackfoot, Molly Hatchet e Lynyrd Skynyrd, il “lato oscuro della forza” southern, ci sono anche Eric Clapton (per chi scrive non pervenuto), Judas Priest (!), Bad Company e ZZ Top. Detto che non siamo di fronte a un dischetto imprescindibile, gli appassionati dei vari generi ricordati, soprattutto southern e ’hard guitar rock. si potranno comunque sparare tre quarti d’ora di vecchio sano rock. A partire dalla poderosa sfuriata boogie-rock dell’iniziale These Guitar Strings, con l’ottima voce di Crawford in evidenza, oltre a chitarre e batteria che picchiano di gusto, subito seguita dalla più raffinata Just Wanting You, una tipica southern song in classico stile Marshall Tucker, con chitarre in punta di dita e una bella melodia in evidenza. Movin’ On Man è decisamente più dura, incisione ruspante e basica, hard-rock a forte densità appunto rock, scuola Molly Hatchet e Blackfoot, mentre No Big Deal non si discosta molto dal copione, quindi vai di chitarre!

E anche Fast Way Of Living, con un timido organo sullo sfondo, fa parte della scuola sudista degli ZZ Top più cattivi, della serie un assolo tira l’altro. Senza tregua poi arriva Bad Love, molto hard-rock seventies, mentre Rock And Roll Satisfaction, nonostante il titolo, è più lenta e cadenzata, con un pianino alla Lynyrd Skynyrd dei primi tempi e il vecchio Sud che risorge ancora una volta, con una chitarra lirica ed ispirata. I brani sono quasi tutti intorno ai 4 minuti, con l’eccezione del brano appeno citato e di Crazy Over You, l’unica oltre i sei minuti, altro esempio dei C.C Rocktrain più raffinati, un mid-tempo molto bluesato, degno di nuovo della migliore Marshall Tucker Band, con una bella coda strumentale. Prima e dopo troviamo di nuovo il boogie-rock fischiettante (alla Molly Hatchet) della gagliarda Whiskey In The Pail e i quasi sei minuti in crescendo dell’ottima Don’t Want You Around, molto alla Skynryd ma anche Outlaws, con i classici intrecci chitarristici tesi al solito gran finale che in un brano come questo non può mancare.

Bruno Conti

Meglio Il Live Uscito Lo Scorso Anno, Ma Anche Questo Non E’ Male! The Outlaws – Live At The Bottom Line, New York ‘86

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The Outlaws – Live At The Bottom Line, New York ’86 – Hotspur 2CD

A meno di un anno da Los Angeles 1976, ecco un nuovo album dal vivo degli Outlaws, la nota band sudista attiva all’incirca dalla metà degli anni settanta: registrato esattamente dieci anni dopo, in una fase quindi molto diversa della carriera del gruppo, Live At The Bottom Line, New York ’86 non entra a far parte della loro discografia ufficiale come il predecessore (che era stato pubblicato dalla Cleopatra) http://discoclub.myblog.it/2015/12/11/suonavano-eccome-se-suonavano-outlaws-live-los-angeles-1976/ , ma rientra nella miriade di CD tratti da show trasmessi all’epoca dalle radio, titoli che ogni mese invadono il mercato (e di cui personalmente non sento affatto il bisogno, salvo alcune eccezioni, dato che faccio già fatica a star dietro alle pubblicazioni regolari). Gli anni ottanta, si sa, furono il nadir per molti gruppi e solisti dell’epoca classica del rock, e gli Outlaws, che fuoriclasse forse non erano mai stati ,ma tra il 1975 ed il 1978 qualcosa di valido sicuramente lo produssero, non si sottrassero certo alla mannaia: pochi dischi, di scarso successo, ed un lungo periodo di inattività che andò dal 1986 al 1994.

Live At The Bottom Line è un doppio CD, inciso in maniera più che buona, facente riferimento proprio ad uno show del 1986 nel leggendario club newyorkese, a supporto dell’allora nuovo album Soldiers Of Fortune, il primo in quattro anni. La band, che negli anni ha cambiato formazione una marea di volte, in quel momento era un quintetto composto dalle tre chitarre di Hughie Thomasson (da sempre il leader del combo), Henry Paul e Steve Grisham, e dalla sezione ritmica di Chuck Glass, basso, e David Dix, batteria. Il gruppo dal vivo non sembra risentire del momento di crisi, e suona con il consueto vigore elettrico, togliendo parte della patina commerciale e tipicamente eighties che le nuove composizioni avevano in studio: il doppio risulta perciò gradevole, con diversi momenti di ottimo rock sudista, anche se, comparato con il live uscito lo scorso anno, perde inevitabilmente il confronto. Chiaramente i nostri non saranno mai indicati fra gli imperdibili del genere, ma certi incroci di chitarra e certe jam elettriche fanno la loro bella figura ancora oggi, mentre non è così per le parti vocali, da sempre il punto debole dei “Fuorilegge”.

Il primo CD si apre con la robusta Whatcha Don’t Do, una rock song decisamente accattivante, tratta dall’allora nuovo album: un bel refrain, ritmo alto ed intrecci di chitarra come se piovesse. Tutto il primo dischetto, ben sette brani su otto, prende in esame le canzoni di Soldiers Of Fortune, con la sola eccezione di You Are The Show (tratta da Playin’ To Win del 1978), una classica ballata sudista caratterizzata dai continui stop & go ed il solito finale ad alto tasso chitarristico, tutto da gustare. E’ chiaro che non tutto funziona alla perfezione, alcuni brani sono dei riempitivi (altrimenti Soldiers Of Fortune non sarebbe passato inosservato), ma essendo i nostri principalmente una live band, anche pezzi minori come la title track del disco dell’86 (alla quale servirebbe un cantante migliore) e One Last Ride fanno la loro figura. Lady Luck è puro rock da FM, e non è inteso come un complimento, mentre Cold Harbor ha una bella atmosfera da racconto western (anche se parla della guerra civile) e si difende bene, mentre The Night Cries si potrebbe benissimo saltare. Le cartucce migliori vengono sparate nel secondo CD, con buone riletture di brani appartenenti al periodo classico del gruppo, come la countryeggiante Knoxville Girl, il rock’n’roll sudista There Goes Another Love o la vibrante Hurry Sundown, oltre alla rara Feel The Heat (un brano della Henry Paul Band), roccata e diretta come un pugno in faccia, ma soprattutto l’uno-due finale che da solo vale il prezzo d’ingresso, formato dalla loro signature song Green Grass & High Tides e da una tostissima versione elettrica del classico Ghost Riders In The Sky (singolo portante di un loro album del 1980, giusto un anno dopo che era stata portata al successo da Johnny Cash), per un totale di ventidue minuti di assoli, cambi di ritmo, potenza e tensione elettrica a mille. Un finale che non rende di certo indispensabile questo Live At The Bottom Line, ma meritevole di un pensierino forse sì.

Marco Verdi

Questi Suonavano, Eccome Se Suonavano! Outlaws – Live: Los Angeles 1976

outlaw live los angeles 1976

Outlaws – Live: Los Angeles 1976 – Purple Pyramid – Cleopatra CD

Gli Outlaws, storica band southern rock originaria di Tampa (ed ancora in attività), non ha mai goduto della popolarità e della considerazione di illustri colleghi contemporanei quali Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd o Marshall Tucker Band: obiettivamente erano un gradino (nel caso degli Allman, anche due) più in basso dei gruppi che ho citato, e negli anni si sono un po’ persi con dischi, per usare un eufemismo, non imperdibili, ma a metà dei seventies erano indubbiamente una band coi fiocchi. Questo live non fa parte della discografia ufficiale del gruppo, ma non è neppure uno di quei CD tratti da trasmissioni radiofoniche (in poche parole: bootlegs) che hanno invaso il mercato in tempi recenti: si tratta invece di una nuova pubblicazione patrocinata dalla Cleopatra, label indipendente di Los Angeles che non sempre è sinonimo di qualità (ma nella maggior parte dei casi sì), e che dei Fuorilegge aveva già pubblicato l’eccellente quadruplo Anthology: Live & Rare 1973/1981.

Come il titolo di questo nuovo live lascia intuire, stiamo parlando di un concerto (registrato ai mitici Record Plant Studios) risalente al miglior periodo della band, quello seguito alla pubblicazione dei primi due dischi della loro carriera, Outlaws e Lady In Waiting. Gli Outlaws sono una delle band che negli anni ha cambiato il maggior numero di membri, ma qui abbiamo la formazione migliore, quella con tre chitarre soliste (Hughie Thomasson, Henry Paul e Billy Jones) e la sezione ritmica (Frank O’Keefe al basso e Monte Yoho alla batteria), un combo che dal vivo, se era in serata, era capace di mettere a ferro e fuoco l’ambiente. Come dimostra questo Los Angeles 1976 (nove brani, un’ora scarsa di musica), un concentrato di rock chitarristico puro e semplice, con marcati elementi country, feeling a pacchi ed una band in forma smagliante, che in quel periodo era abbastanza vicina anche agli Skynyrd (non per niente Thomasson in seguito si unirà proprio allo storico gruppo dell’Alabama): come ciliegina, il CD è inciso professionalmente, con un suono ben bilanciato e compatto.Il breve strumentale Waterhole viene utilizzato come warm up, un bluegrass elettrico dal gran ritmo, nel quale i nostri iniziano ad arrotare le chitarre (e il banjo); con Stick Around For Rock & Roll inizia il concerto vero e proprio, una rock song dall’alto potenziale elettrico, che si sviluppa fluida per ben nove minuti: Thomasson non è un grande vocalist, ma caspita se suona, e anche gli altri non si tirano certo indietro, assoli a profusione, una goduria insomma. La potente Song In The Breeze ha stranamente qualcosa che mi ricorda i Dire Straits (che nel 1976 dovevano ancora esordire), Henry Paul canta meglio di Thomasson (nel libretto interno Hughie è accreditato come unico cantante, ma è un errore, non il primo in casa Cleopatra), ed i fraseggi chitarristici sono, in una parola, formidabili; Lover Boy è sostenuta da una solida melodia, basso e batteria vanno come uno stantuffo e le chitarre…beh, che ve lo dico a fare

Freeborn Man è un classico bluegrass di Jimmy Martin, al quale i nostri conferiscono un vestito elettrico, trasformandolo del tutto: bello il cambio di tempo a metà canzone, con uno splendido assolo dal sapore blues. Cry No More è puro rock’n’roll sudista, che per certi versi avvicina i Fuorilegge al suono della Marshall Tucker Band: gran ritmo, mood trascinante ed i nostri che smanettano che è un piacere; Knoxville Girl è un divertente bluegrass-rock dal ritmo forsennato, nel quale i cinque scaldano i muscoli per concludere con una sontuosa versione della loro signature song Green Grass & High Tides (la loro Freebird), presentata qui in una resa monstre di un quarto d’ora: inizio lento, melodia di stampo epico, poi il ritmo sale gradualmente fino al momento in cui le tre chitarre impazzite iniziano a volteggiare da tutte le parti. Non so se si può parlare di versione definitiva di questo brano, certo è che in quel periodo i ragazzi non avevano paura di nessuno, e questa esecuzione lo dimostra. Chiude il disco la tersa ed orecchiabile There Goes Another Love Song, non male anche se dopo il brano precedente qualsiasi canzone sarebbe stata in secondo piano. Un bel live, che pone l’accento su una band forse non fondamentale ma che per un certo periodo ha saputo dire la sua.

Marco Verdi

In Attesa Del Tributo Un “Vecchio” Concerto Dal Vivo. Lynyrd Skynyrd – Sweeet Home Alabama – Rockpalast 1996

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Lynyrd Skynyrd – Sweeet Home Alabama – Rockpalast 1996 – Eagle Rock

Come è abbastanza noto, anche se è una pratica da me non condivisa, molti non apprezzano il formato DVD (o Blu-Ray)  per i concerti dal vivo, preferendo il CD o addirittura il vecchio vinile. E’ altrettanto noto che le case discografiche, nella loro immensa bontà, nonché illuminata e disinteressata lungimiranza, sono sempre pronte a farci ricomprare gli stessi dischi più e più volte. Prendiamo il caso di questo Sweet Home Alabama: era già uscito in DVD (e in seguito in Blu-ray) una decina di anni fa, ma mancava la versione in compact, e quindi eccovi serviti, un bel doppio CD, eventualmente disponibile anche nel cosiddetto formato combo 2CD+DVD e pure in doppio vinile, però, perché la perfezione non è di questa terra, privo dei tre brani bonus registrati dalla formazione originale dei Lynyrd Skynyrd alla Hamburg Musikhalle nel 1974, mentre il resto del concerto è registrato alla famosa rocca di Loreley, per la versione estiva del Rockpalast nel 1996. Siamo alla quinta versione della band, nella versione post reunion, quella che affianca a Gary Rossington, l’unico membro originale tuttora vivente, Johnny Van Zant, il fratello di Ronnie e altri due chitarristi storici del southern rock, Rickey Medlocke, leader dei Blackfoot, ma anche batterista in una delle prime incarnazioni della band e Hughie Thomasson, scomparso nel 2007, ex solista degli Outlaws.

La parola “scomparso” ricorre spesso nella storia degli Skynyrd, l’ultimo della lista è Bob Burns, il batterista dell’epoca d’oro, morto in un incidente nell’aprile di quest’anno, ma dei musicisti presenti al concerto del 1996, mancano all’appello anche Billy Powell, il tastierista, deceduto nel 2009 e Leon Wilkeson, il bassista, anche lui “andato” nel 2001; resiste, nel senso che è ancora vivo, Owen Hale, che era il batterista nell’occasione. In effetti questa recensione sta diventando ormai un necrologio e quindi parliamo brevemente del contenuto, anche se il DVD era già stato recensito ai tempi: in teoria il gruppo avrebbe dovuto promuovere quelli che erano gli album pubblicati al tempo, ma per fortuna dei presenti e di noi che ascoltiamo una ventina di anni dopo, scorrono praticamente tutti i classici della band. Si parte con una gagliarda Workin For MCA, seguita da I Ain’t The One, il primo brano del primo album, sempre con le chitarre che ruggiscono come ai vecchi tempi, Down South Jukin’ era su First And Last ma anche nel recente (all’epoca) Endangered Species, eccellente pure Double Trouble, con il piano di Powell che cerca di farsi largo nel muro di chitarre, il boogie di I Know A Little viene da Street Survivors mentre Saturday Night Special si trovava su Nuthin’ Fancy e la meno nota (rispetto alle altre) Swamp Music era su Second Helping.

Ancora da Street Survivors viene pure What’s Your Name, che non dà segni di cedimento, seguita da una poderosa That Smell, mentre Simple Man, una delle loro canzoni più belle, è una delle rare e (apparenti) oasi di tranquillità del concerto e anche Three Steps non scherza come energia, prima di fare spazio a una poderosa (e lunghissima, oltre 12 minuti) Call Me The Breeze, dove il compianto Hughie Thomasson, nel suo assolo, cita Green Grass and High Tides e Ghost Riders In The Sky della sua vecchia band, gli Outlaws. Finisce il primo compact e il secondo ha “solo” cinque brani: però che brani, troviamo due versioni di Sweet Home Alabama e Free Bird (con dedica a Rory Gallagher a tutti i “freebirds”), quelle ottime del 1996, e due, eccellenti del 1974 (incise un filo meno bene, e forse non le migliori della loro carriera, ma sono quisquiglie) con Ronnie Van Zant alla guida della sua creatura, in mezzo c’è, sempre dal concerto del 1974, una poderosa Workin’ For MCA. Tutte canzoni sentite mille volte, però piacciono sempre, se non avete già il DVD, un pensierino a questo ottimo doppio CD lo farei: in definitiva le case discografiche ci fregano sempre!

Come riporto nel titolo del Post, per il 24 luglio è atteso One More For The Fans, un ennesimo tributo ai Lynyrd Skynyrd, previsto nel formato 2 CD, 2 DVD o Blu-ray. Ne parliamo, in breve, nei prossimi giorni, insieme ad altre uscite interessanti del periodo.

Bruno Conti

Il Figlio Illegittimo Di Waylon? Sturgill Simpson – High Top Mountain

 

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Sturgill Simpson – High Top Mountain – Thirthy Tigers CD

Non credo di esagerare se dico che questo è uno dei migliori debutti in ambito country degli ultimi anni. Sturgill Simpson, nativo del Kentucky ma trapiantato a Nashville, è un esordiente assoluto, ma, all’ascolto di questo High Top Mountain (dalla copertina atipica, sembra più un disco pop alla Sufjan Stevens), devo dire che sembra un veterano alle prese con il disco della maturità. Simpson è certamente un seguace del country classico, per l’esattezza quello di fine anni sessanta e primi anni settenta, ma qui, più che dalle parti di Gram Parsons (influenza che comunque non manca) siamo in piena zona outlaw/honky tonk. Sicuramente Sturgill (bel nome, a proposito) è cresciuto a pane e Waylon Jennings, tanto in alcuni momenti il suo stile si avvicina a quello dello scomparso fuorilegge (per non parlare della voce), ma anche Willie Nelson e Merle Haggard sono influenze ben presenti.

Ma il nostro riesce comunque a non essere derivativo (beh, in un paio di momenti forse un po’ sì…) e, grazie ad un feeling in dosi massicce, ad una capacità di songwriting non comune (dieci brani su dodici sono suoi) ed all’aiuto di una super band (tra i musicisti troviamo il mitico Hargus “Pig” Robbins al piano, Bobby Emmett all’organo e Robby Turner incontenibile alla steel guitar) porta a termine un debut album veramente coi fiocchi.

Il tono del disco lo dà la canzone d’apertura, dal sintetico titolo di Life Ain’t Fair And The World Is Mean: un puro outlaw country figlio di Waylon (ma del Waylon più ispirato), ritmo alto, gran voce e begli interventi di steel. Un inizio col botto. Railroad Of Sin non abbassa la guardia, anzi: ritmo forsennato, è una via di mezzo tra uno swing ed un bluegrass elettrico, con gli strumenti suonati a velocità supersonica. Water In A Well ha i connotati di una classica country ballad, con Sturgill che canta bene e si circonda di pochi strumenti, arrangiando il brano con gusto e semplicità. Sitting Here Without You è ancora outlaw music, sembra una outtake di Waylon dei primi anni settanta (l’arrangiamento della voce è sintomatico): country che più classico non si può, ed un vero piacere per le orecchie. The Storm è una ballata saltellante, eseguita con grinta ed una bella produzione (Dave Cobb, sulla scia di un maestro come Chips Moman), mentre You Can Have The Crown è un irresistibile country’n’roll, uno dei più trascinanti da me ascoltati negli ultimi tempi.

Molto bella anche la tersa e limpida Time After All (qui siamo dalle parti di Haggard); la lenta ed epica Hero sembra di nuovo provenire da un disco di quarant’anni fa, mentre la cadenzata Some Days fa un po’ troppo il verso a Waylon: comunque godibile. Old King Coal è una perfetta cowboy ballad, Poor Rambler (di Ralph Stanley) riporta in alto il tasso ritmico del disco, mentre l’intensa I’d Have To Be Crazy (scritta da Steven Fromholz) chiude il disco in maniera crepuscolare. Senza dubbio il miglior disco di outlaw country di quest’anno, insieme all’ultimo di Shooter Jennings.
Marco Verdi

Li Ho Già Visti Da Qualche Parte?!? Tributi a Lynyrd Snynyrd e ZZ Top

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Pride of The South – All-Star Tribute To Lynyrd Skynyrd

Four Flat Tires On A Muddy Road – All-Star Tribute To ZZ Top

Rokkarola Records/Music Avenue

Una Premessa: sono quasi più lunghi i titoli, delle recensioni di questi tributi. Perché? Va bene la moda del tributo, ad un artista o a un disco, ma obiettivamente mi pareva strano che fossero usciti due ennesimi dischetti dedicati alla musica di Lynyrd Skynyrd e ZZ Top. La materia trattata è ampia ma, soprattutto la band di Jacksonville, ha avuto moltissimi album dedicati alla propria musica nel corso degli anni. Uno degli ultimi, uscito in origine nel 2008, se togliete il Pride Of The South dal titolo, cambiate la copertina e l’ordine dei pezzi, è esattamente lo stesso disco uscito per la Cleopatra Records alcuni anni fa. Invece l’altro pure. Quindi uomo avvisato, se li avete già presi, non è il caso di ripetersi. Se viceversa mancano all’appello, un pensierino lo potete anche fare per i Lynyrd Skynyrd, evitare quello agli ZZ Top.

Una volta tanto i nomi impegnati in questa operazione sono congrui (per il primo dischetto) con i soggetti trattati e se nessuno può migliorare gli originali in alcuni casi ci vanno vicino, essendo fatti decisamente bene. Superato il disappunto della riproposizione “mascherata” alcune versioni sono veramente gagliarde: dall’iniziale Sweet Home Alabama ripresa dagli Outlaws con una resa vocale e strumentale quasi pari all’originale, con il basso che pompa, le chitarre tirate al punto giusto, il piano perfetto e una notevole interpretazione vocale; bene anche Double Trouble nella versione di Artimus Pyle e Ed King, due che conoscono l’argomento alla perfezione. La versione bluesata di That Smell dei Canned Heat ricorda il boogie del passato e anche gli Atlanta Rhythm Section rendono onore a Call Me The Breeze. Rick Derringer, Pat Travers e Great White vanno giù duretti ma le loro versioni non sono male. La Gimme Three Steps di Walter Trout è decisamente buona. Addirittura ottima The Seasons che compariva in First…And Last, scritta e cantata ai tempi (‘71/’72) da Rickey Medlocke, ora ripresa dai “suoi” Blackfoot. Black Oak Arkansas, Jason McMaster e Sky Saxon (l’ex Seeds è scomparso nel 2009, ed era una dei motivi per cui non mi “tornava” questo tributo del 2013!) non c’entrano moltissimo, mentre la versione di Free Bird di Molly Hatchet e Charlie Daniels, uniti per la causa sudista, ha un suo “vigoroso” perché.

Four Flat Tires… è meno valida, per usare un eufemismo, come compilation, alcuni dei nomi sono gli stessi, ma qui l’argomento più che il southern è un boogie rock-blues che spesso sconfina nell’hard rock di maniera: si parte bene con Gimme All Your Lovin’ di Walter Trout e Sharp Dressed Man dei Molly Hatchet e anche Pat Travers rende giustizia a Waitin’ For The Bus e al bluesaccio di Jesus Just Left Chicago mentre tutta la parte centrale e finale con Mick Moody, Lea Hart (un uomo nonostante il nome), Steve Overland sfocia in un heavy AOR veramente scarso e anche la versione di La Grange, nonostante il vocione di Jim Dandy dei Black Oak Arkansas non è proprio memorabile e pure i National Dust picchiano a vuoto, un filo meglio Legs di Artimus Pyle ma tale Ray Calcutt riesce a peggiorare Planet Of Women che già non era bella in originale, il periodo “sintetico” anni ’80 e fino al finale, anche con un Fee Waybill dei Tubes che c’entra come i cavoli a merenda, si va sempre peggiorando, fino alla ripresa in medley dei primi due brani del tributo fatta dalla Atlanta Rhythm Section,  appena decente, e posta in coda al progetto. In definitiva, mi ripeto, nonostante trattasi di CD già usciti, il primo è un buon tributo, l’altro da evitare, bello il titolo ma il contenuto…

Bruno Conti