Un Disco Che E’ Pura Sofferenza Messa In Musica. Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen + Un Breve Saluto A Paul Barrere.

nick cave ghosteen

Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen – Ghosteen/Awal 2CD – 2LP

Quando nel 2016 avevo recensito Skeleton Tree, l’allora nuovo album di Nick Cave ed i suoi Bad Seeds, era chiaro che avevo tra le mani il lavoro più drammatico e personale del cantautore australiano, un disco che era stato ispirato dalla tragica morte del figlio Arthur di 15 anni a causa di una caduta dalla scogliera di Ovingdean Gap vicino a Brighton https://discoclub.myblog.it/2016/09/30/rispetto-il-dolore-questuomo-nick-cave-and-the-bad-seeds-skeleton-tree/ . Un album che comprensibilmente rifletteva lo stato d’animo di un genitore distrutto dal dolore, formato da canzoni ancora più cupe del solito (Cave come saprete non è mai stato un tipo euforico e solare, e la morte ha sempre fatto parte delle tematiche trattate nei suoi brani) e contraddistinte da sonorità fredde e quasi di stampo ambient. Ma con questo nuovissimo doppio Ghosteen (uscito un po’ a sorpresa sulle piattaforme online circa un mese prima della versione “fisica”) Nick scava ancora più a fondo nel suo dolore, mettendosi a nudo come raramente un musicista ha fatto in passato:

Cave è indubbiamente portato per questo tipo di mood, ma un conto è ritagliarsi un ruolo di un certo tipo nell’ambito della canzone d’autore internazionale (recitando di fatto una parte), un altro è vivere in prima persona una tragedia terribile dalla quale è impossibile riprendersi fino in fondo. Ghosteen è quasi una seduta psicanalitica in cui Nick è il paziente e noi ascoltatori il dottore (anche se purtroppo non abbiamo nessun tipo di terapia da assegnargli), con una musica che spinge ancora di più sul pedale dell’elettronica, e la voce del nostro che si muove in mezzo a paesaggi sonori gelidi e molto poco accattivanti. Il risultato finale è un’opera di grande fascino pur essendo di non facile ascolto, con la voce del leader mai così fragile come in queste tracce: i Bad Seeds, poi, non sono mai stati così nelle retrovie, con Warren Ellis unico membro davvero impegnato tra synth, loops vari, flauto e violino, mentre gli altri (George Vjestica, chitarra, Jim Sclavunos, percussioni e vibrafono, Martyn Casey, basso e Thomas Wydler, batteria) sono presenti più che altro per onor di firma.

L’oscurità delle canzoni è in netta contrapposizione con la splendida copertina bucolica, una delle più belle tra quelle viste negli ultimi anni, e che potrebbe anche giustificare l’acquisto del doppio LP in luogo del CD, doppio anch’esso (un po’ inspiegabilmente, dato che la durata complessiva delle undici canzoni è di 68 minuti). L’elettronica domina fin dall’iniziale Spinning Song, introdotta da un raggelante tappeto di synth al quale si unisce quasi subito la voce rotta dal dolore di Cave, che più che cantare recita: il brano è volutamente una non-canzone, ma non posso comunque negare che il pathos è notevole: sul finale Nick inizia improvvisamente ad intonare una struggente preghiera con tanto di coro simil-ecclesiastico, da pelle d’oca. Bright Horses vede il nostro accompagnarsi al piano anche se il sintetizzatore non manca neppure qui, per una canzone toccante e splendida, ancora con la voce fragile che sembra sul punto di spezzarsi in più di un momento, e ad un certo punto entra anche una vera orchestra; ancora il piano introduce la cupa Waiting For You, con Cave che canta ancora con il cuore in mano intonando un ritornello splendido in cui invoca il ritorno del figlio, un momento di straordinaria commozione in grado di far capitolare anche l’animo più duro, mentre Night Raid è di nuovo un pezzo tutto costruito attorno alla voce grave di Nick e a pochi effetti sonori di fondo, un brano meno diretto del precedente ma intenso come pochi.

Sun Forest è gelida e tesa come una lama, con la voce che entra dopo più di due minuti di introduzione “sintetizzata” (ma il piano non manca), ancora con un’intonazione da preghiera, Galleon Ship vede nuovamente Cave cantare con alle spalle un tappeto elettronico ed un’atmosfera inquietante per uno dei pezzi più ostici del disco. Il primo CD si chiude con l’angosciosa Ghosteen Speaks, nella quale Nick quasi ci trasmette fisicamente la sua immane sofferenza (grazie anche ad un coro spettrale alle spalle), e con Leviathan, che per merito dell’uso di una tabla sembra quasi un canto tribale indiano, anche se l’atmosfera è sempre tetra. Il secondo dischetto è formato da sole tre canzoni, a partire dalla lunga title track (12 minuti), che ha un’introduzione strumentale potente e straniante al tempo stesso e con la voce di Cave che entra solo al quarto minuto aprendosi nel refrain in un raro momento di ampio respiro, quasi maestoso. La breve Fireflies è in realtà un brano recitato con un accompagnamento degno di un film horror, e precede la conclusiva Hollywood, che di minuti ne dura addirittura 14 ma senza cambiare il mood del disco, anzi forse accentuandone la componente drammatica.

Un lavoro dunque complicato, ostico e per nulla immediato questo Ghosteen, ma di una sincerità e profondità da far venire i brividi.

Marco Verdi

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P.S: visto che siamo in clima funereo, volevo brevemente ricordare (con colpevole ritardo) la figura di Paul Barrere, deceduto lo scorso 26 Ottobre a causa di un cancro al fegato diagnosticatogli nel 2015. Chitarrista dalla tecnica sopraffina, Barrere ha legato il suo nome a doppio filo a quello dei leggendari Little Feat, gruppo del quale entrò a far parte nel 1972 affiancando l’unico chitarrista nonché leader della band Lowell George fino alla morte di quest’ultimo nel 1979 e conseguente scioglimento della band, e prendendone il posto nella line-up riformata nel 1988 per il comeback album Let It Roll fino ai giorni nostri, affiancato a sua volta da Fred Tackett (con il quale registrò anche un paio di album acustici in duo  ).

Barrere portò in dote nel gruppo le sue conoscenze in materia di musica rock, blues, cajun e funky ed era l’elemento giusto al momento giusto in quanto in grado di arricchire ulteriormente il suono del gruppo californiano. La sua bravura nella tecnica slide ne fece il naturale sostituto di George, che era un maestro del genere, anche se non riuscì mai ad avvicinarne le capacità come songwriter: i brani più noti scritti da Paul sono Skin It Back, Feats Don’t Fail Me Now, Time Loves A Hero e Down On The Farm.

Più che dignitosa comunque la sua carriera nell’ultima fase del gruppo, con alcuni lavori di ottima fattura (Representing The Mambo, Ain’t Had Enough Fun, Join The Band) che forse erano anche meglio di un paio di dischi dei Feat negli anni settanta come Time Loves A Hero e The Last Record Album. Di sicuro si è già ritrovato lassù a jammare come ai bei tempi proprio con i vecchi amici Lowell ed il batterista Richie Hayward.

Torna “Da Musicista A Musicista”. Jimmy Ragazzon Vs. Little Feat – Electrif Lycanthrope

little feat electrif

LITTLE FEAT – Electrif Lycanthrope – Ultrasonic Studio, New York, 1974 – Smokin’

Hola Amigos, Què Pasa?

E’ passato davvero troppo tempo dal mio ultimo contributo a questo bellissimo e libero blog, che il meritevole Bruno coltiva con amore e tanta, tanta passione. Per cui mi voglio scusare e fare ammenda, segnalandovi un piccolo gioiellino di una delle band a cui sono maggiormente affezionato,  i Little Feat del compianto Lowell George. Con la loro originale ed inconfondibile mistura di R&R, Blues, Folk, New Orleans Funk e Jazz-Rock Fusion, centellinati con cura nel loro suono, sono di certo tra i gruppi maggiormente sottovalutati di sempre. La voce, la slide e le inimitabili canzoni di Lowell, la chitarra di Paul Barrère, le tastiere senza limiti di Bill Payne ed una delle migliori sezioni ritmiche di tutti i tempi, cioè Richie Hayward alla batteria (R.I.P.)  Kenny Gradney al basso e Sam Clayton alle percussioni, sono stati, almeno fino alla prematura scomparsa di Lowell, quanto di meglio si potesse ascoltare, sempre se il vostro approccio alla musica fosse stato scevro da pregiudizi e/o chiusure mentali di qualsiasi tipo.

Little_Feat_-_Electrif_Lycanthrope-front-600x600 Copertina del vecchio bootleg

Tra i miei ricordi musicali più vividi c’è il momento in cui, a bordo di una Fiat 127 blu con un buon impianto stereo, ascoltavamo a manetta Waiting For Columbus appena uscito, posteggiati ai giardini della mia cittadina e spesso sloggiati dalle Gafe (i vigili urbani, in stretto slang vogherese) per il troppo baccano. Con l’aiuto di qualche blando tonificante, fu davvero una esperienza trascendentale ed indimenticabile, proprio per la massima energia, l’indiscutibile perizia tecnica dei musicisti (non dimentichiamoci la sezione fiati della Tower Of Power) e l’ironia, le storie e le battute contenute nei testi del Dottore del R&R. Il cambio di velocità in Tripe Face Boogie ci strappava letteralmente dai sedili, scagliandoci in mondi fantastici, più di qualsiasi additivo chimico-organico, anche di buona qualità…

little feat electrif ultrasonic

Come non ricordare personaggi come Juanita, la piccola tossica sexy, Monte 3 Carte, il camionista impasticcato di Willin’ (capolavoro!), Billy il Guercio e tutti gli altri tipi helzapoppiani, che si ritrovavano allo Spanish Moon, a Sausalito, in Bourbon Street o alla stazione merci di New Delhi…quanta bella roba e che tiro…(imprecazione/omissis)…

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Beh, splendidi ricordi a parte, questo concerto del ’74, registrato piuttosto bene all’Ultrasonic Studio di New York e tramesso dalla WLIR  radio, riguarda il periodo intermedio della formazione suddetta, con brani tratti dai 4 album già realizzati, cioè da Sailing Shoes fino a Feats Don’t Fail Me Now.  Credo che questo sia un documento importante e consigliatissimo, con almeno lo stesso valore dei dischi in studio, e che dimostri (se ce ne fosse bisogno, ma non è questo il caso) la superba forza LIVE di questa band, riportandoci al periodo d’oro della musica rock, alla sua essenza stessa e ad una delle sue migliori espressioni in fatto di collettivo di musicisti.

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Inoltre in questo concerto, nel classico e grandioso medley costituito da Cold, Cold, Cold/Dixie Chicken/Tripe Face Boogie troviamo, solo abbozzati e non sviluppati appieno come in Columbus, certi arrangiamenti un poco arditi e chiaramente ispirati alla Fusion di quel periodo (Miles, Weather Report ecc.). Questa forma musicale derivante dal jazz, fu molto amata da Bill Payne e soci, cosa che creò contrasti interni con Lowell, molto più legato al Blues e al Roots. Vanno anche citate una eccellente versione di Willin’ dalle perfette armonie vocali (ed un piccolo scherzetto) https://www.youtube.com/watch?v=yze10kM1fyI  l’iniziale Rock & Roll Doctor https://www.youtube.com/watch?v=O3Ev0Hht01o , eseguita con un groove degno della migliore Black Music ed una grande versione di On Your Way Down, del Maestro Allen Toussaint https://www.youtube.com/watch?v=PqGatDm-Nqg .

Altri tempi ed altra classe amici, ed uno dei più grandi artisti del R&R a tutto tondo, che ci avrebbe sicuramente regalato altre perle, se solo avesse rallentato un poco. Di Highlanders come Keith ne nascono pochissimi, ma il valore dell’eredità musicale lasciataci da Lowell George è molto importante ed attualissimo.

Quindi mi sembra giusto ricordarlo, condividendo con voi le parole a lui dedicate dai suoi compagni di viaggio e di musica. Parole che ora valgono anche per Richie Hayward, scomparso nel 2010, dopo una lunga lotta contro un male incurabile. Necessitava di un trapianto ma, malgrado il crowdfunding messo in piedi dalla band, altri famosi musicisti ed amici, i soldi non sono arrivati in tempo: e gli USA sarebbero un paese da cui prendere esempio? e la mutua??  la legge Bacchelli???  no comment, fratelli. Meglio lasciarci con questi versi, sinceri e commoventi:

Hey old friend, it’s been such a long time

Since I saw your smilin’ face pressed against my window pane

Though it’s the middle of the night

And we were racin’ the light of the mornin’

All those new thoughts dawnin’

About the wrong and the right

We spent our money so fine

The girls were standing in line

Every other night

Was always the same Paradise without any shame

We’d stay up all night

Tryin’ to find just the right rhymes

And we were fightin’ the good fight

Hangin’ on to the good times

Jimmy Ragazzon

P.S.

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Comunque i Feat sono ancora in forma ed attivi: ogni anno tengono una specie di convention per amici, fans e chiunque voglia partecipare e addirittura suonare con loro in Jamaica, e dove sennò.

Il prossimo anno, il Ramble On The Island, sarà sulla spiaggia di Negril, dal 4 all’8 marzo, con tutte le info nel loro sito:  littlefeat.net…se solo avessi due lirette in più…

Semplicemente Una Delle Più Grandi Band Di Sempre! Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90

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*NDB Torna il supplemento della Domenica Del Disco Club, dischi, gruppi e musicisti che hanno fatto la storia del Rock (e altro). Se il Blog fa giudizio, nei giorni festivi periodicamente c’è sempre spazio per questa rubrica: la parola a Marco!

Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90 – Rhino/Warner 13 CD Box Set in uscita il 25-02-2014

Tra le mode discografiche degli ultimi tempi, una delle più apprezzate è la riproposizione delle discografie complete (o quasi) di gruppi o solisti che hanno fatto la storia della nostra musica, in piccoli box comodi e pratici, con tutti gli album in formato mini-LP, ad un prezzo il più delle volte contenuto (basti pensare al recente cofanetto dedicato a Ry Cooder): l’ultimo in ordine di tempo ad essere preso in esame è il periodo Warner, cioè il migliore, di uno dei gruppi americani cardine degli anni settanta, i Little Feat.

little feat rad gumbo back little feat rad gumbo open

Se leggete abitualmente questo blog sapete già di chi stiamo parlando, ma per quei pochi che ancora non li conoscono, questo box di 13 CD, che raccoglie tutta la discografia degli anni settanta più i premi due album della reunion di fine anni ottanta (ed una chicca che vedremo), è assolutamente indispensabile per colmare una grave lacuna nella propria discoteca personale.

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Formatisi nel 1969 a Los Angeles su iniziativa del geniale cantante e chitarrista Lowell George (già membro delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, che aveva intuito prima di tutti il suo talento) e del tastierista Bill Payne, i Little Feat (che pare prendessero il nome dalla dimensione dei piedi di George) furono probabilmente il primo gruppo di Americana della storia (insieme a The Band, che però aveva una dimensione più rock) in quanto la loro musica fondeva mirabilmente rock, blues, errebi, country, funk, southern rock, boogie, marcate influenze di New Orleans ed in un secondo tempo perfino jazz e fusion.

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Lowell George era la vera punta di diamante del gruppo, un songwriter geniale ed anche ottimo chitarrista (purtroppo incostante e con brutte abitudini – leggi droghe ed alimentazione non proprio bilanciata – che lo porteranno ad una morte prematura), ma anche Payne era (è) un pianista della Madonna, ed i restanti membri del gruppo (Sam Clayton, Roy Estrada, sostituito dopo pochi anni da Kenny Gradney, Richie Hayward e Paul Barrere) un treno in corsa che in quegli anni aveva pochi rivali come backing band (Jimmy Page, non un pivello qualsiasi, dichiarò che i Feat erano il suo gruppo americano preferito).

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E’ quindi un piacere immenso ripercorrere l’epopea della band californiana, dall’esordio del 1971 Little Feat, un disco ancora un po’ acerbo e parzialmente influenzato dal blues, ma con un futuro classico come Truck Stop Girl ed una prima versione simil-demo del loro capolavoro, Willin’ (e Ry Cooder in session), ai due album seguenti, gli imperdibili Sailin’ Shoes e Dixie Chicken, due dischi da cinque stelle che hanno imposto i Feat come una delle realtà più brillanti del periodo: brani come Tripe Face Boogie, A Apolitical Blues, Cold Cold Cold, Teenage Nervous Breakdown, la stupenda Dixie Chicken, un brano così “New Orleans” che sembra impossibile sia stato scritto da un californiano, Fat Man In The Bathtub, Roll Um Easy e la meravigliosa Willin’, in assoluto una delle più belle canzoni della decade (e non solo).

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In più, comincia con questi due album l’iconica serie di artwork ad opera di Neon Park, tra il surreale e l’umoristico, che diventerà un punto fermo della discografia della band; Feats Don’t Fail Me Now, del 1974, ha la sfortuna di venire dopo due capolavori come i due album precedenti, ma è comunque un signor disco, con una prima facciata quasi perfetta (Rock & Roll Doctor, Oh Atlanta, Skin It Back, Down The Road  e Spanish Moon) e con Emmylou Harris e Bonnie Raitt ospiti.

A questo punto della carriera comincia la fase discendente: George inizia ad avere seri problemi fisici e si disinteressa sempre di più delle sorti del gruppo (terrà il meglio per sé stesso, pubblicandolo poi nell’ottimo album solista Thanks I’ll Eat It Here), mentre il resto della band, con Payne in testa, pretende di avere più spazio ed introduce nel suono elementi jazzati e quasi fusion.

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Si sa che nelle band la democrazia ha sempre funzionato poco (basti pensare all’ultimo album dei Creedence, Mardi Gras, o ai brani dei Grateful Dead non scritti da Jerry Garcia), ed i due lavori che i Feat pubblicano in questo periodo, The Last Record Album e Time Loves A Hero, sono i meno interessanti della loro discografia: si salvano chiaramente i (pochi) brani a firma di George (specialmente Rocket In My Pocket) ed una splendida versione di New Delhi Freight Train di Terry Allen.

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Dal vivo però il sestetto continua ad essere una formidabile macchina da guerra, come testimonia il fantastico live del 1978 Waiting For Columbus (l’unico doppio CD presente in questo box), un album imperdibile nel quale tutti i classici del gruppo vengono proposti nella loro versione definitiva, un momento di ispirazione generale che ha pochi eguali nella storia della musica (personalmente è nella mia Top 3 dei dischi live anni 70, subito dopo il Live At Fillmore East degli Allman e Rock And Roll Animal di Lou Reed, con Made In Japan dei Deep Purple a fungere da disturbatore).

Little_Feat_-_Down_on_the_Farm

Le condizioni di salute di George sono però sempre più critiche, e la situazione precipiterà durante le sessions per Down On The Farm, quando il talentuoso musicista viene trovato morto per un attacco di cuore (causato da anni di stravizi): il resto della band porterà a termine da sola il disco (che per ironia della sorte è meglio dei due precedenti lavori di studio) per poi annunciare lo scioglimento.

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Ma la storia non finisce qui: nel 1981 esce Hoy Hoy!, una collezione di brani live inediti e di demos ed outtakes di studio (un ottimo disco, in quanto c’è dentro parecchio Lowell George) e, nel 1988, la reunion a sorpresa dei membri originali, con l’aggiunta del chitarrista Fred Tackett e, al posto di George, di Craig Fuller, ex membro dei Pure Prairie League.

Little_Feat_-_Let_It_Roll Little_Feat_-_Representing_the_Mambo

I primi due album della nuova formazione sono anche gli ultimi (o quasi) di questo box: Let It Roll è un buon disco, suonato alla grande (i Feat sono sempre dei grandi musicisti), anche se si sente la mancanza del genio di George, mentre Representing The Mambo è più riuscito, grazie soprattutto ad una serie di canzoni di qualità superiore.

La carriera dei Little Feat proseguirà fino ad oggi, tra dischi buoni, un paio ottimi (Ain’t Had Enough Fun e Join The Band, sorta di auto-tributo con grandi ospiti) ed altri più ordinari, l’uscita di Fuller e l’ingresso (e poi uscita) della vocalist Shaun Murphy e, purtroppo, la perdita recente (nel 2010) di Hayward, andato a far compagnia a George a causa di un cancro al fegato.

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Il box in questione non prende in considerazione questi album, in quanto usciti per altre etichette, ma ha in serbo un’ultima sorpresa: un CD intitolato Outtakes From Hotcakes, pieno di inediti in studio e live del loro periodo d’oro, una vera leccornia finora disponibile soltanto all’interno del box di quattro CD Hotcakes And Outtakes, uscito nel 2000.

Motivo in più, insieme al costo non elevato, per accaparrarsi questo cofanettino: dentro c’è musica tra la migliore degli ultimi quarant’anni.

Marco Verdi

C’è Sempre Qualcuno Bravo Che Sfugge! Greg Koch Band – Plays Well With Others

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Greg Koch Band – Plays Well With Others – Rhymes With Chalk Music

C’è sempre in giro qualcuno di talento da “scoprire”. Questa volta parliamo di chitarristi. Greg Koch non è un novellino, questo Plays Well With Others (finalmente un titolo di un CD che chiarisce i suoi intenti fin dal titolo, ma ci arriviamo fra un attimo) dovrebbe essere il 12° titolo pubblicato, in una carriera discografica iniziata nel lontano 1993 con Greg Koch & The Tone Controls, ma i cui risultati non sono facilmente reperibili nelle nostre lande (e un po’ ovunque per la verità). Per tornare al “chi è costui?” di Manzoniana memoria che non utilizzavo da un po’ nei miei pezzi, direi che Greg Koch è un virtuoso della chitarra, originario di Milwaukee, Wisconsin, lo stato di Les Paul, dove tuttora registra i suoi album, ma che, curiosamente, lavora come “clinician” per la concorrente Fender, è stato fatto conoscere (si fa per dire) al grande pubblico da Steve Vai, che gli ha pubblicato un disco per la sua etichetta, la Favored Nations, nel 2001. Che altro? Tom Wheeler di Guitar Player lo ha definito “a friendly Talent”, nel senso che la sua tecnica è umana e godibile, altri hanno detto che è “il segreto meglio custodito del mondo dei chitarristi”. Joe Bonamassa ha detto “Credo che Greg Koch sia oggi il miglior chitarrista del mondo”, in definitiva, tradotto in parole povere, un talento! Lui, modestamente, ma non troppo, nelle note di The Grip, il CD di cui si diceva poc’anzi, ha definito il suo stile: “Chet Hendrix che incontra i King (BB, Albert e Freddie) alla prima convention Zeppelin-Holdsworth”, arzigogolata ma efficace, come descrizione.

Venendo al nuovo album il titolo lascia intendere che il nostro suona, bene, con altri? E’ proprio così! Nei dieci brani originali, più tre bonus che ripropongono tre dei pezzi già eseguiti, ma in radio mix, che, tradotto per gli ascoltatori, vuole dire praticamente identici alle versioni “normali”, ma più corti (misteri della discografia)! Allora dicci chi c’è? Calma, se state leggendo la recensione, avete già visto la copertina del disco, che riporta i nomi degli ospiti. Comunque questo album è leggermente (o notevolmente, secondo i punti di vista) diverso dalla prove precedenti, prevalentemente strumentali, Greg Koch è uno della famiglia dei Buchanan o dei Gatton, cioè cantare “minga bun” o quasi, come si dice dalle mie parti (ma sono stato cattivo, non è proprio verissimo, c’è di peggio in giro) quindi giustamente in questo disco si è fatto aiutare da John Sieger dei Semi-Twang, che oltre ad avere scritto i dieci brani con Koch, se li canta, meno uno, con profitto. Della sua band ci sono Dylan Koch alla batteria, che immagino parente, Theo Merriweather alle tastiere e Eric Hervey al basso, più parecchi ospiti.

Nel rock-blues sinuoso, vorticoso e riffato di Simone, dopo il primo assolo molto “lavorato” della solista di Greg arriva Joe Bonamassa ed i due cominciano a scambiarsi fendenti nella migliore tradizione delle (Super)sessions, nel secondo brano, Robben Ford, il bassista Roscoe Beck e Brannen Temple alla batteria rinnovano i fasti dei vecchi Blue Line, con un blues raffinato e virtuosistico, a colpi di scale impossibilmente fluide, in Walk Before You Crawl, uno dei pezzi forti di questa raccolta. E non è finita, arriva Jon Cleary che con il suo pianino ci porta dalle parti delle paludi della Louisiana e di New Orleans, come dite, sembrano un po’ i Little Feat? Non sapete come siete nel giusto, infatti nella successiva The Whole Town Has A Broken Heart ecco Paul Barrère (che per motivi che mi sfuggono, sulla copertina, ha l’accento sull’ultima e), che con la sua slide magica tramuta questo brano in una sorta di novella People Get Ready, che ricorda molto nella melodia.

Ancora un paio di gagliarde collaborazioni, a tempo di blues, con Robben Ford e soci, nelle ottime Sho Nuff e What You Got To Lose, con scambi di timbriche e assolo felpati per la gioia degli amanti della chitarra. Whiskey Rainstorm, di nuovo con Paul Barrère, ha un che di funky e sudista nella migliore tradizione featiana, con i due che fanno i George e i Barrère della situazione, anche scambiandosi i ruoli. Down The Road è una bella slow blues ballad dove si apprezza anche la voce di John Sieger, cantante dotato ed apprezzabile, mentre Night Owl Now è l’unico brano cantato da Greg della raccolta e l’occasione per sbizzarrirsi per Barrère e Koch,  che trovato un groove alla Little Feat, aiutati dall’organo di Merriweather, lo portano alle giuste conseguenze. Conclude Hey Godzilla, ancora con Barrère, il brano più rock ed hendrixiano (un eroe della gioventù di Koch) del disco, tirato e cattivo il giusto. Bel disco e grande chitarrista(i). Se vi piacciono quelli che sanno suonare!

Track Listing:
1.) Simone (with Joe Bonamassa)
2.) Walk Before You Crawl (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
3.) Spanish Wine (with Jon Cleary)
4.) This Whole Town Has A Broken Heart (with Paul Barreré)
5.) Sho Nuff (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
6.) What You Got To Lose (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
7.) Whiskey Rainstorm (with Paul Barreré)
8.) Down The Road
9.) Night Owl Now (with Paul Barreré)
10.) Hey Godzilla (with Paul Barreré)
BONUS TRACKS
11.) Spanish Wine, radio mix
12.) What You Got To Lose, radio mix
13.) Hey Godzilla, radio mix

Bruno Conti

Uno Svedese Di New Orleans In “California”! Anders Osborne – Black Eye Galaxy

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Anders Osborne – Black Eye Galaxy – Alligator Records/Ird

Quando Anders Osborne ha lasciato la Svezia nel 1982, all’età di 16 anni, probabilmente non immaginava che dopo tre anni di “vagabondaggio” attraverso tutto il mondo si sarebbe stabilito a New Orleans, che sarebbe diventata la sua nuova casa. Ma dopo 27 anni la Louisiana è ormai la sua nuova patria e il musicista svedese ne è diventato uno degli esponenti artistici più rappresentativi. Con alle spalle una carriera che copre sei diverse case discografiche e undici album, inclusi due dal vivo, Osborne è un musicista eclettico e raffinato, che usando la musica della Crescent City come base, ha costruito uno stile molto diversificato che partendo da uno sound morbido e cantautorale si appropria di volta in volta, ma anche di brano in brano, di elementi blues, soul, rock, anche sperimentali, come in questo nuovo Black Eye Galaxy che forse è il suo migliore album in assoluto per la dovizia di elementi musicali messi in campo.

Registrato al Dockside Studio di Maurice, Lousiana, per l’etichetta Alligator (che ultimamente, detto per inciso, non sbaglia un colpo) si avvale della collaborazione alla produzione di Stanton Moore, batterista che insieme a Osborne ha curato il lato musicale mentre Warren Riker si è occupato più della parte tecnica. Sia come sia, il team di produttori ha conferito all’album una patina molto anni ’70, californiana, da dischi di rock classico, quelli dove non si aveva paura di misurarsi con diversi stili e generi. Anders, oltre che cantante dallo stile morbido direi molto à la Jackson Browne (almeno per quello che riguarda il tipo di voce), è musicista completo, chitarrista soprattutto, e di gran vaglia, ma si destreggia anche all’armonica, al piano e alle percussioni.

Il risultato oscilla tra l’hard blues veemente e trascinante dell’iniziale Send Me A Friend, dal groove Zeppeliniano con una slide impazzita che taglia il brano in due (lo stesso Osborne o l’altro chitarrista Billy Iuso), mentre la voce filtrata è quasi irriconoscibile. Mind Of A Junkie, che ricorda un passato non troppo lontano nel quale il nostro amico aveva sviluppato una tossico-dipendenza perniciosa, viceversa è uno slow spaziale dalle movenze sensuali che ricorda il meglio della West Coast incrociata con spunti jazzistici e psichedelici e un cantato indolente che richiama alla mente (almeno di chi scrive) il Joe Walsh di inizio carriera, anche nelle lunghe e liquide improvvisazioni chitarristiche che lo pervadono, in ogni caso un gran brano. Lean On Me/believe in you potrebbe essere un brano del repertorio del già ricordato Jackson Browne, una raffinata ballata midtempo che ricorda lo stile del grande cantautore tedesco (?!?) Non è forse nato a Heidelberg in Germania?) fino al perfetto intermezzo della slide che è puro Lindley. When I Will See You Again, nuovamente, si rifà al sound californiano, inserendo nel tessuto della canzone anche spunti Younghiani, soprattutto l’attacco e le lunghi parti di chitarra, mentre Black Tar, firmata insieme a Paul Barrere dei Little Feat, è un altro brano feroce e di stampo puramente rock, ancora con la voce pesantemente filtrata e le chitarre distorte e “cattive” che impazzano sul ritmo cadenzato della batteria. Si alza la puntina e finisce il primo lato: giuro, è la pura verita!

Scende la puntina e parte la seconda facciata: la title-track, Black Eye Galaxy,è un lunghissimo brano di undici minuti, che parte con movenze bluesate cantate sempre con quella voce browniana e poi si trasforma in una lunga jam acida e psichedelica degna dei Grateful Dead più sperimentali con le chitarre che estraggono dalle loro corde stille di gran classe e pura ispirazione che ci riportano alla Bay Area dei primi anni ’70. Tracking My Roots con un gradevole spunto di armonica in apertura è semplicemente una bella canzone, vagamente country e tipicamente weastcoastiana nel suo incedere, sempre con Neil nel cuore.

Louisiana Gold è più acustica e raccolta con piccole percussioni e chitarre acustiche che sostengono il cantato molto melodico di Anders Osborne in questo omaggio al suo stato di adozione, devo dire molto riuscito nella sua semplice raffinatezza, notare le armonie vocali, please! Dancing In The Wind, ancora con quella armonica non blues in apertura di brano, è un’altra piacevole ballata scritta con Paul Barrere, dolce e malinconica, quasi bucolica e sempre indebitata verso lo stile di Browne, forse anche per via della voce che per motivi fisiologici tanto lo ricorda, belle le armonie vocali a cura di moglie e figlia. Dopo un suono di campane che mentre sentivo il CD la prima volta, camminando per strada, mi ha stupito e sorpreso per la sua improvvisa e inaspetta apparizione ci avviamo in conclusione con una Higher Ground firmata insieme a Henry Butler, una sorta di gospel bianco cantato con grande partecipazione da Osborne accompagnato semplicemente da una sezione di archi e da un bell’ensemble corale che aggiunge pathos ad un brano inconsueto per le sue sonorità.

In definitiva un album che forse, anzi sicuramente, non salverà le sorti del rock ma altrettanto sicuramente rende il mondo migliore per una cinquantina di minuti abbondanti di buona musica. Una conferma!

Bruno Conti

P.s. Ufficialmente esce il 1° Maggio, ma circola già nei negozi delle nostre lande italiche.